Esistono encomi per quasi qualunque cosa, ma quelli per il vino restano i più celebri (e divertenti)
IN COPERTINA: Woman with a Glass of Wine di Lovis Corinth
di Andrea Tagliaferri
Aristotele nella Retorica sostiene che esistono tre generi di discorso retorico: il deliberativo, il giudiziario e l’epidittico. Il genere epidittico, il cui inventore per Aristotele è il sofista Gorgia col suo Encomio di Elena, consiste nel tessere pubblicamente le lodi di qualcuno o di qualcosa. La storia della Letteratura (in senso lato) è piena di encomi a persone eccellenti o ritenute tali, ma anche di elogi delle realtà più assurde. Con l’encomio si rende “grande” una entità piccola come il tarlo, il cavolo, l’ortica o l’uovo. Esempi che non sono scelti a caso: davvero qualcuno si è preso la briga di elogiarli; e ce ne sono altri e di più curiosi. Luciano spese parole di encomio per la mosca, Pitagora per le cipolle, Teodoro di Gaza per il Cane e nella prosa di un saggio “il sale riceve un mirabile elogio per la sua utilità” come riporta in tono ironico Platone nel Simposio.
Si cimenta nel genere encomiastico anche il poliedrico intellettuale costantinopolitano Michele Psello (1018- 1078/96), medico, giurista e filosofo, il cui carisma intellettuale non sfuggì al Basileus Costantino IX Monomaco che gli offrì la cattedra di filosofia all’università di Costantinopoli. La sterminata bibliografia di Psello si compone di opere dedicate alla scienza, alla medicina, alla pedagogia, alla filosofia, al diritto e alla retorica in cui saltano all’occhio due elogi della pulce, uno del pidocchio, uno della cimice e uno del vino. L’Encomio del vino (1042/1052) di Michele Psello – tema cardine di questo scritto – tradotto per la prima volta in italiano da Lucio Coco che ne ha curata l’edizione per Leo S. Olschki Editore, colpisce per molti aspetti e pone alcune riflessioni.
Il testo è rivolto a quanti trovano piacere non solo nelle bevande ma anche nelle parole affinché si nutrano tanto del gusto del vino stesso quanto anche delle parole riguardo a esso. Il vino, sostiene Psello, è quanto di meglio gli uomini hanno inventato per il loro sostentamento, ed è un dono che Dio ha elargito ai soli uomini, proprio come la ragione, imponendo così, di fatto, uno iato rispetto agli altri animali del creato. Se, scrive Psello, qualche bevitore di acqua (vale a dire un idropico o un demente) afferma che è possibile vivere anche senza il vino, non avremo niente da obiettare né avremo bisogno di replicare a costui che fa a gara con l’evidenza e manca di sensibilità, secondo Aristotele, avendo scelto di vivere alla pari anche delle bestie nella volgarità e nella vanità”. L’argomentazione prosegue chiamando in causa Platone: ciò che precede per generazione risulta essere rispettabile e quindi deve essere lodato da tutti, e il vino, scrive Psello, è il primo dono che Dio dà a Noè dopo il diluvio, ovvero dopo la seconda creazione del cosmo ripulito dalla violenza degli uomini corrotti dal peccato originale. Infatti, dopo che le acque si prosciugarono dalla terra, Dio stabilì un nuova alleanza con gli uomini e Noè cominciò a praticare l’agricoltura e piantò una vigna; ne bevve il vino, s’inebriò e dormì ignudo all’interno della sua tenda. Un dono di cui gli uomini della prima età del mondo non avevano potuto godere non essendone degni in quanto sarebbero divenuti malvagi e sarebbero stati affogati. Il sipario sulla seconda età del mondo si apre quindi con Noè salvatore della specie e viticoltore che addirittura supera, per il piacere concesso all’umanità tutta, il capostipite Adamo: entrambi trovarono una pianta, nel primo caso era rovinosa e mortifera, nel secondo utile e generatrice di vita. Platone è richiamato anche alcuni capitoli più avanti, questa volta la citazione è pescata dal Timeo laddove, parlando della filosofia, Platone scrive che Nessun regalo simile a questo è giunto da Dio agli uomini né mai giungerà; Psello la ritaglia e la accosta ad altre per elogiare il vino.
Il vino è considerato ricco di virtù, una bevanda buona in ogni occasione e per tutti, con proprietà terapeutiche per ogni male, uno scudiero della salute e avversario delle malattie e, inoltre, per chi è di buon umore è un ausilio all’intensificazione dell’allegria; è buono per chi è sano per la conservazione della salute; è una consolazione per chi è depresso ed è una cura per chi è malato, prosegue serrato il medico Psello che nel capitolo tredici racconta che l’input per scrivere questo Encomio gli è venuto proprio bevendo un vino eccellente donatogli da un uomo a cui aveva curato il mal di denti. Il vino, nell’antichità prima e nel cristianesimo poi, è considerato il farmaco per antonomasia, un rimedio universale per ogni genere di malanno. Il passo delle prima lettera di Paolo a Timoteo in cui il vino è consigliato per curare un mal di stomaco è “abusato” per tutto il medioevo e recita: non bere più soltanto acqua ma assumi anche un po’ di vino a motivo del tuo stomaco e delle tue frequenti indisposizioni. Il passo è ripreso anche da Psello a da tutti quei monaci che giustificano un ritorno al vino dopo un periodo di astinenza e penitenza. La faccenda è più seria e più pratica di quanto si possa maliziosamente pensare: nella tradizione medica l’acqua è ritenuta di natura fredda e quindi dannosa per la digestione e non affidabile sul piano igienico ma, mescolata col vino, lo diventava, incrociandosi con un elemento caldo e ottimale per la digestione. Il vino non era considerato un prodotto finito, era un qualcosa da completare, da definire, da trattare con aromi, fiori, spezie, miele, erbe e da bere diluito con l’acqua come voleva la tradizione greco-romana. Come sottolinea Massimo Montanari riprendendo il commento di Ildemaro alla Regola di Benedetto, il verbo miscere indica due diverse azioni: versare e mescolare, come se si trattasse di un gesto unico.
L’unione di acqua e vino si ripropone inoltre sul piano liturgico con la consacrazione eucaristica, lasciando largo spazio a molteplici interpretazioni allegoriche: nell’acqua si può vedere il Vecchio Testamento, nel vino il Nuovo che, trasformandolo, gli dà sapore; oppure è utilizzato per indicare la doppia natura del Cristo in cui la natura divina è rappresentata dal vino e, quella umana, dall’acqua. Per la messa si prendono pane e vino, scrive Psello aggiungendo: questi alimenti non sarebbero stati adoperati quindi come ombra e figura del vero culto e rito, se non fossero stati giudicati primi e migliori degli altri. L’aggiunta anche del pane non toglie niente al vino. In questa circostanza infatti uno ha bisogno dell’altro e piuttosto, per dirlo in breve, essi sono in totale relazione. Se uno separasse il pane dal vino, priverebbe il corpo dell’anima.
Il cristianesimo, il cui messaggio ha pretese di universalità, ha la necessità di fondarsi su simboli universali: vino, pane e olio sono strumenti di una liturgia ricalcata sulla triade alimentare mediterranea oltre che sulle tradizioni sacrali ebraiche, greche e romane.
Dal mondo romano il cristianesimo ha assimilato tutta una serie di valori legati a una duplice prospettiva, materiale e spirituale. La vite è piantata dall’uomo e trasformata con il suo lavoro, e questo sottolinea la particolare peculiarità umana di plasmare la natura e inventare così la propria vita. Questo è il segno distintivo della romanità, il marker, come lo chiama Montanari, ed il motivo per cui il vino, l’olio e il pane ascesero a segno identitario. All’eredità romana, che pone l’uomo come colui che sa trasformare la natura, nel medioevo si somma la prospettiva cristiana legata all’idea di perfezionamento spirituale: la natura che si trasforma è la stessa natura dell’uomo che cresce e si supera ascoltando la voce di Dio.
-->Ma torniamo al testo di Psello, il quale prosegue il suo elogio del vino scrivendo: in pace è un contributo, in guerra è un alleato; niente senza il vino, né feste nuziali, né banchetti, né conviti, né divertimenti, né svaghi. Ciò che è il sale per i cibi il vino lo è per il sale stesso e per gli altri alimenti. Il vino rallegra il cuore, incita alla gratitudine e richiama le lacrime che rendono propizio Dio. In guerra, come scrive Omero nell’Iliade l’uomo sazio di cibo e vino lotta l’intero giorno coi guerrieri nemici, intrepido è in petto il suo cuore, le membra non gli si stancano prima che tutti escano dalla battaglia.
Segue poi la parte morale del discorso di Psello: il vino non è da ritenersi indegno per l’ubriachezza che può causare a chi non ne sappia fare un uso morigerato, altrimenti sarebbe da ritenere indegno anche il fuoco (il più perfetto degli elementi), che brucia chi gli si avvicina troppo non godendone del calore in modo utile. Il vino quindi non deve essere rifiutato, da evitare è invece l’intemperanza, nella consapevolezza che per tutto la cosa migliore è la misura e la peggiore parimenti in tutto è sia l’eccesso che il difetto. È proprio l’ubriachezza di un conoscente (né sgradevole nell’eloquio, né astemio) venuto a fargli visita, e al quale Psello offre quel vino eccellente donatogli da quell’uomo a cui aveva curato il mal di denti, vino di cui l’ospite abusa mettendosi poi a ballare come un satiro e a gridare come un baccante Evoè, a portare il filosofo di Costantinopoli a tale conclusione. Il massimo elogio della bevanda si conclude con la codificazione di un uso moderato. L’ubriachezza era mal vista sia nel medioevo latino sia in quello greco. In oriente vennero accusati di eccessiva inclinazione al vino molti imperatori. Dell’imperatore Alessandro, agli inizi del X secolo, si diceva che non avesse realizzato nessuna opera degna di un imperatore poiché aveva sempre vissuto nel lusso e nella crapula. Un secolo prima, simili parole di biasimo furono rivolte a Michele III, di cui si diceva che l’imitazione di Dio non era per lui, “il suo fine infatti è l’estasi dionisiaca”. In occidente è nota la distinzione tra ubriaconi, coloro che vivono la loro vita storditi dall’alcool, e tra ubriachi, coloro che invece godono di un’ubriachezza momentanea che rende lieto lo spirito e acuta la mente. I peccati sono altri. Non resta che berci sopra un po’ di vino. Con moderazione, sia chiaro.
Complimenti per come riesce a sviluppare il discorso dove le varie digressioni, motivate sia a livello storico che filosofico,divergono per convergere poi in un coerente discorso: narrato sillogistico. Ad maiora.
Caro Giovanni De Girolamo,
grazie per le belle parole.
Un cordiale saluto
a.t.
Bello!
Sono astemia.
Cara Paola Dreoni,
grazie! Mi dispiace che tu sia astemia!
Un cordiale saluto
a.t