La giovinezza ha un lusso, che poi col tempo si perde definitivamente. Lo racconta, in un aneddoto, Gabriele Sassone nel suo “Uccidi l’unicorno”.
In copertina un’opera di Angelo Sarleti, “❋”, 2021
Questo testo è tratto da Uccidi l’unicorno, di Gabriele Sassone. Ringraziamo Il Saggiatore per la gentile concessione.
di Gabriele Sassone
Qualche mese dopo la discussione della tesi, Palmiro mi invita a cena. Risiede, assieme ai genitori, al primo piano di un aggregato che occupa l’area di una fabbrica tessile fallita a metà degli anni novanta: abbattuti i capannoni, il costruttore ha gettato una secchiata di cemento sulla spianata e si è servito dello stesso stampo per moltiplicare le palazzine. Mentre mangiamo un nasello alle olive, si parla di lavoro. Il padre racconta che nel suo settore, in un paio d’anni, hanno mandato a casa quattro milioni di lavoratori. Palmiro lo correggere dicendo che, tuttalpiù, saranno stati quattro mila. La madre, chiamandomi «ciccio», mi chiede di che cosa mi occupo adesso. Io dico che mi hanno preso in sostituzione maternità, una galleria d’arte contemporanea aperta da poco. Nessun commento. La sostituzione maternità non è uno stage curriculare, specifico, dal momento che sono retribuito, e comunque si tratta di una fase intermedia, io ambisco ad avere un lavoro più stabile; e inoltre a costruire una famiglia. Lei annuisce come a dire ben fatto, ben fatto davvero, poi, con un po’ di biasimo, sottolinea che suo figlio non ne vuole sapere di lavorare o di avere una famiglia. Si è ostinato a fare il pittore.
Palmiro si alza e mi invita in camera. Vuole mostrarmi gli ultimi dipinti. Mentre dispone le tele a terra, mi racconta che ogni mattina, pur di sfuggire all’assedio verbale di sua madre, che pretende di farlo lavorare in copisteria, sparge il colore a olio con una spatolina di precisione in assoluto silenzio, come se fosse in estasi. Mi indica un dipinto astratto color gridellino. Palmiro intravede in me un mutamento d’espressione e così mi confessa che, di fatto, i suoi gesti sono sempre più goffi e insicuri, la pittura nient’altro che un grumo grigiastro. Si sente inquieto, mi dice, di un’inquietudine che lambisce la paranoia di non fare abbastanza e, allo stesso tempo, di non avere voglia di fare. In quei mesi, tutto è rallentato. Dopo avere ottenuto la laurea, gli pare di avere perso le coordinate della sua posizione nel mondo. Lavorare in copisteria è escluso. Idee sulle opere da realizzare, nessuna. E quindi, afflitto dalla sua incapacità di reagire, mi racconta che spesso si chiude in bagno. E magari ci resta delle ore, lì, davanti allo specchio, a guardarsi negli occhi: la grinta, la sfacciataggine, l’esplosività, l’azzardo, tutto ciò che lo ha reso un pittore volenteroso ora gli pare addomesticato. Le lusinghe di qualche compaesano e i rimproveri di sua madre fanno apparire la morte come una cosa da poco. Gli dico di non esagerare. Lui mi spiega che invece, quella sera, sta di merda più del normale perché, come se non bastasse, poco prima di cena è avvenuto un fatto insolito. Dopo essere uscito dal bagno, saranno state le sette, lui ha aperto la finestra della camera. Dalla terra bagnata saliva un odore forte, mi dice, così penetrante da prendere allo stomaco. I lotti nuovi oltre la statale propagavano il silenzio delle villette a schiera, la calma delle vite in perenne rodaggio. Ha appoggiato la fronte sullo stipite della finestra e ha tirato un sospiro: è finita, ha pensato. È finita. Neanche ho cominciato a fare l’artista ed è già finita. Ha dato un calcio al cavalletto e la tela è caduta sul pavimento. Sua madre ha sentito il rumore ed è entrata sbattendo le ciabatte. Con decisione ha riposizionato la tela sul cavalletto. Lui si è voltato di nuovo verso le villette. I tetti sembravano bianchi, impastati all’orizzonte basso e velato di nuvole. Quel paesaggio sottovuoto, che mai avrebbe saputo dipingere con la stessa alienazione, viene bucato dallo sferragliare del treno ad alta velocità. La madre gli ha accarezzato la fronte e poi si è messa a piangere.

Tuttora non sono sicuro di aver capito il senso di questo episodio della tela che cade e del pianto materno, però, mentre me lo raccontava, Palmiro sembrava la statua di un cavaliere senza la testa.
Torniamo a tavola per concludere la cena. La madre di Palmiro è intenta a raccogliere le briciole sulla tovaglia. Muove la mano come una paletta. Mi chiede che cosa ne penso delle ultime pitture di suo figlio. Quei pochi centimetri di tela grigiastra a me paiono la disinfestazione di qualsiasi impulso a emozionarmi o a riflettere. Non so davvero che cosa Palmiro voglia esprimere con quell’impiastro, eppure, per quanto io ne sia convinto, nemmeno trovo il coraggio o le parole adatte per comunicarlo. Così, come spesso succede quando sono obbligato a dare un’opinione sull’opera di qualcun’altro, trasformo il mio giudizio in un aggettivo: «Interessanti», dico. Lei ribatte che finora le opere di suo figlio non hanno mai interessato nessuno; quelle poche che ha dipinto, le ha dovute regalare. Io devo reagire con una smorfia davvero stranita perché lei corregge il tiro e confessa che non ci sarebbero problemi se lui volesse continuare con la pittura, l’azienda è già roba sua, ma Palmiro sbuffa, così lei si alza e lo raggiunge, e cerca di accarezzargli di nuovo la fronte. Lui si scosta in modo brusco e ripete che vuole fare il pittore. La madre mi guarda e, con un sorriso imbarazzato, mi chiede come campa un pittore. Io a mia volta guardo Palmiro, che bestemmia la Madonna. La copisteria gli fa schifo, urla. La madre strabuzza gli occhi, il padre inizia a tossire; dice che gli è andato di traverso qualcosa, lei gli passa dell’acqua e lo massaggia sulla schiena.
-->Lui sembra riprendersi anche se continua a singhiozzare in modo preoccupante. Allora la madre di Palmiro insiste a indagare e mi chiede se ho la fidanzatina, io gli dico di sì, fa l’assistente in una galleria poco distante da quella in cui lavoro io. Lei, indicando Palmiro, sottolinea che nel suo caso non si capisce se ce l’abbia, la fidanzatina, e che sarebbe un sogno avere dei bei nipotini da portare al parco, da mostrare in paese. Il padre dice di lasciarlo stare il suo povero Palmirino, perché quando si dipinge si è sempre giovani, serve pazienza, ma poi il singhiozzo aumenta d’intensità e gli impedisce di finire la frase. Ormai dalla bocca emette più singhiozzi che respiri, così lei strilla per rimproverarlo, la sta facendo vergognare, ma lui diventa carminio, gli occhi a tuorlo, le vene ai lati della fronte pestate con le mani. Io sono impietrito. Palmiro lo solleva ed esegue la manovra di Heimlich per liberare le vie respiratorie. All’improvviso, suo padre perde conoscenza.
Mia moglie non se lo ricorda, ma il primo filmato che ci fanno vedere al corso pre-parto descrive l’affogamento di un neonato. Dopo pochi secondi che lo guardo, mi si forma una patina sugli occhi ed esco fingendo di rispondere al telefono.
La sera del ritorno a casa di suo padre dall’ospedale, dieci giorni più tardi, sono io ad accompagnare Palmiro lungo la via principale del paese. Con me ho portato una bottiglia di vino impacchettata.

Prima di condurmi al capezzale del genitore, Palmiro ha il compito di assicurarsi che in copisteria sia tutto a posto. Siamo fermi in mezzo alla strada, davanti alla serranda su cui è dipinta una fotocopiatrice che fa l’occhiolino. Suo padre gliel’ha commissionata quando lui, il pittore di famiglia, era poco più che dodicenne e al cinema aveva sbancato La bella e la bestia. Nello sguardo ammiccante della fotocopiatrice scorgo una sorta di perfidia, di malignità che mi mette a disagio, la malignità di un diavolaccio esperto e senza umorismo. Mentre Palmiro affigge il cartello di chiusura per ferie, mi descrive la nuova espressione di suo padre, quella di una maschera di cartapesta, il labbro riverso da un lato, il naso appeso tra le guance, l’occhio caliginoso. Per raggiungere il gabinetto, è costretto a strisciare il piede destro, l’orecchio inclinato verso la spalla quasi parli al telefono con le mani occupate. Indossa sempre un busto a placche. Rimetterlo al timone della copisteria in quelle condizioni, con il rischio di un secondo infarto, sarebbe da carogne, mi dice.
Certo che un po’ carogna con suo padre, da quanto ricordo io, lui lo è sempre stato. Mi riferisco alle settimane preparatorie per gli esami del terzo anno di università, che io trascorro a studiare come un invasato e lui a guardare i Simpson o a dormire sul divano. Quell’estate suo padre ha una grossa consegna per il Comune e spesso gli chiede una mano in copisteria, ma Palmiro gli ripete sempre che è sfiancato dallo studio e dall’afa, proprio non ci riesce ad aiutarlo. Continua così finché un giorno, poco prima delle ferie, nel recitare la solita tiritera, suo padre indugia sulla porta. Palmiro lo guarda per la prima volta negli occhi: suo padre ha capito tutto ma non gli rimprovera niente, e tanta magnanimità ferisce Palmiro al punto da rivelargli il lusso della giovinezza. La possibilità di sbagliare gratuitamente.
Gabriele sassone (1983) insegna Critical Writing alla Naba – Nuova Accademia di Belle Arti. Collabora con Il Foglio e diverse riviste, fra cui Antinomie, Mousse Magazine, Camera Austria e Flash Art. Uccidi l’unicorno (Il Saggiatore, 2020) è il suo primo romanzo.
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