Ha ragione l’antropologo William Arens, il cannibalismo è un “mito” presente in ogni società per giustificare l’esclusione del “diverso”?
di Erik Boni
Introduzione: perché di certe cose è difficile parlare.
Le scienze umane hanno un rapporto complesso con il loro argomento, perché questo, piuttosto che essere osservato e analizzato, è spesso creato ex novo dalla stessa attività di ricerca, o perlomeno manipolato e deformato in modo tale da renderne irriconoscibili i tratti originari – ammesso che si possa parlare di un fenomeno originario. Non si tratta tanto di adottare un approccio relativista per cui non esiste niente di oggettivo e indagabile con gli strumenti della razionalità, quanto di riconoscere la natura necessariamente autoreferenziale della riflessione dell’uomo intorno all’uomo, intorno al significato dei fenomeni sociali, dei comportamenti approvati o sanzionati da una comunità, e al valore da attribuire a queste norme. Vale a dire che il tentativo di dare un significato a questi comportamenti e a queste norme è un’attività che non può che essere essa stessa normativa, mai puramente descrittiva, per quanto il ricercatore cerchi di mantenere la sua distanza, anche emotiva, dall’oggetto di studio.
Per capire cosa intendiamo un esempio attuale ci è dato dal dibattito intorno al cosiddetto “femminicidio”. Da un lato abbiamo un fenomeno la cui realtà è innegabile: ci sono uomini che uccidono le donne, spesso le proprie compagne o ex compagne. Dall’altro lato abbiamo un termine, “femminicidio”, che per il solo fatto di esistere ambisce ad essere qualcosa di più di una mera constatazione del fenomeno, ma si offre come primo tentativo di spiegazione: il femminicidio non vuol essere un concetto costruito a posteriori a partire dalle varie uccisioni di donne da parte di maschi, ma se esistono i femminicidi è perché c’è la categoria del femminicidio, in senso direttamente causale. Il concetto poi funge anche e soprattutto da cornice di riferimento valoriale: parlare di femminicidio significa di per sé assumere una posizione intorno al fenomeno e a ciò che gli sta intorno. Si potrebbe anche dire che gli usi o i non usi di questa parola – o di un altro termine oggi in voga come “analfabetismo funzionale” – riflettono concezioni distinte e antagoniste del mondo intero, come provato dalle violente reazioni contro i “negazionisti” che con argomenti più o meno validi mettono in dubbio l’utilità di queste categorie (e ovviamente non il fenomeno in sé).
Per un esempio più tradizionale e già ampiamente studiato si consideri invece la nozione di “Oriente” indagata da Edward Said nel suo classico Orientalismo, che non è un libro sull’Oriente ma sul modo in cui i viaggiatori occidentali lo hanno descritto, affrontato, ridotto alle loro esigenze vitali, e in ultima analisi (forse) inventato. La riflessione sul “diverso”, sulle culture distanti dalla nostra è particolarmente preziosa per il discorso che stiamo facendo: la distanza culturale sembrerebbe favorire un’illusione di oggettività che invita ad abbandonare qualsiasi cautela, e l’alterità è la superficie ideale in cui lo studioso può specchiarsi, spesso senza riconoscersi. In questo senso fra tutte le scienze umane è l’antropologia culturale a offrire il materiale più ricco per chi volesse intraprendere una critica dei loro presupposti ideologici. Qui tenteremo di fornire un esempio di tale critica a partire da una nozione (un fenomeno?) che da sempre affascina o respinge sia studiosi che profani, per gli scorci che promette di aprire intorno alla natura umana e alle origini della civiltà, ma la cui complessità non ci pare sia ancora stata pienamente compresa: il cannibalismo.
Si tratta, anche in questo caso, di un fenomeno della cui realtà materiale nessuno potrebbe dubitare: sono esistite ed esistono situazioni nelle quali degli esseri umani si cibano di altri esseri umani. Possiamo fare tre esempi abbastanza famosi:
• il 13 settembre del 1972 un aereo che trasporta 45 persone si schianta in mezzo alla cordigliera delle Ande, a più di 3500 metri di altitudine; 12 persone muoiono nell’impatto, molte altre nei giorni seguenti. I 16 passeggeri rimasti, impossibilitati a ricevere soccorsi essendo ignota la loro posizione, privi di provviste, convengono fra loro di dover mangiare i cadaveri sepolti nella neve, cosa che faranno per circa due mesi prima che due di loro riescano a scendere dalla montagna per cercare aiuto.
• l’11 giugno del 1981 Issei Sagawa, un uomo giapponese che si trova a Parigi per studiare letteratura comparata, invita una ragazza olandese nel suo appartamento per leggere delle poesie espressioniste in tedesco. Mentre lei sta leggendo ad alta voce la uccide con un colpo di pistola, poi nel corso di tre giorni la smembra sistematicamente per mangiarne il corpo, documentando la sua azione con fotografie (incredibilmente il suo delitto rimarrà impunito).
• nel 1921-23 la Russia, già minata dagli anni della prima guerra mondiale e poi dalla guerra civile, è colpita da una gravissima carestia, che secondo le stime più ufficiali arriva a uccidere cinque milioni di persone. Molte testimonianze dell’epoca, confermate poi dall’apertura degli archivi sovietici, riferiscono di atti di cannibalismo diffuso e di rapimenti e uccisioni di bambini allo scopo di venderne la preziosissima carne. Le notizie giunte in Italia negli anni Venti danno origine al famoso tormentone dei “comunisti che mangiano i bambini”.
-->Si tratta di tre esempi molto diversi tra loro: un episodio isolato di consumo di cadaveri a puro scopo strumentale/razionale e di sopravvivenza; all’opposto un caso di psicopatia criminale, quindi un comportamento antisociale per definizione; e infine un caso di emergenza alimentare collettiva che si risolve nell’anarchia e nella rottura di qualsiasi norma di convivenza. Nessuno dei tre casi riesce però a catturare esattamente ciò che intendiamo col termine “cannibalismo”, perché esso non può consistere soltanto in un comportamento, o anche una serie di comportamenti ripetuti nel tempo, ma è un’istituzione culturale, un comportamento approvato dalla società e che si svolge con modalità determinate. Come l’atto di infilare l’anello al dito della propria amata pronunciando le parole “con questo anello io ti sposo” è un matrimonio solo se esiste un contesto adatto a renderlo effettivamente tale, così l’atto di mangiare carne umana può dirsi vero cannibalismo solo a determinate condizioni. Se però lo interpretiamo in questa maniera ci accorgiamo che i caratteri dell’istituzione ci rimangono oscuri, e i casi conclamati diventano molti più scarsi e problematici.
D’altra parte, se ci pensiamo un attimo, le cose non potrebbero che stare in questo modo: a differenza di altre istituzioni come il matrimonio – la cui funzione manifesta è quella di controllare le modalità di riproduzione e di preservare l’esistenza della comunità – il cannibalismo diffuso sembra incompatibile con la sopravvivenza della civiltà medesima. Che futuro può avere una comunità dove ci si mangia l’un l’altro, dove l’uomo è lupo per l’uomo (per ricorrere alla metafora hobbesiana), e come potrebbe un simile comportamento ricevere approvazione sociale? Il cannibalismo si presenta così come un paradosso da risolvere, e i modi in cui si è tentato di farlo costituiscono l’argomento di questo articolo. Con un’avvertenza: se pure metteremo in dubbio, nelle prossime pagine, l’attendibilità e la veridicità di alcune fonti, testimonianze, e analisi, il focus del nostro interesse non sta nella verità o falsità, nell’esistenza o meno del fenomeno: si tratta a nostro avviso di un falso problema, o almeno di un modo superficiale per affrontare la questione.
Cannibalismo selvaggio e cannibalismo rituale
La prima maniera di gestire il paradosso chiaramente consiste nella negazione della possibile coesistenza di cannibalismo e civiltà. Il cannibalismo sarà allora una pratica relegata presso i selvaggi e i barbari, oppure nella nostra preistoria, in uno stadio anteriore e arretrato della società. Quando gli scrittori dell’antichità, come Erodoto, menzionano i cannibali lo fanno proprio per indicare lo stadio più estremo della barbarie:
A settentrione, al di là del deserto che si estende oltre le terre degli Sciti, vivono gli Androfagi, tra di loro si praticano gli usi più selvaggi del mondo e sono un popolo senza giustizia e senza nessuna legge. Sono nomadi, vanno vestiti in modo simile agli Sciti, parlano una loro lingua e, tra quei popoli, sono gli unici che mangiano carne umana.
Nei racconti dei viaggiatori del Medioevo, dove districare gli elementi fantastici da quelli reali è spesso impossibile, i cannibali sono un topos frequentissimo, insieme a ogni genere di strane creature che mettono in discussione i confini fra umanità e bestialità, come cinocefali, sciapodi, e blemmi. Il cannibale è presente anche nei miti (come i Lestrigoni o il ciclope Polifemo incontrati da Ulisse) o nelle favole che si raccontano per spaventare i bambini, come la strega di Hansel e Gretel e gli innumerevoli orchi. E naturalmente il cannibale è sempre l’altro, colui che in quanto privo di cultura non può raccontarsi. Quando Cristoforo Colombo arriva nel continente americano gli indigeni Arawak gli parlano di una popolazione loro nemica, descrivendola come talmente feroce da praticare l’antropofagia. Questo popolo terribile è quello dei “Cariba” o “Caniba”, da cui viene appunto il termine “cannibale” (ma incontriamo un’ulteriore evoluzione del termine, a significare il grado zero dell’umanità, nel personaggio shakespeariano di Calibano, nella Tempesta). Lo stesso Colombo è inizialmente scettico riguardo a queste voci, ma è così che comincia a diffondersi la leggenda del cannibalismo nel nuovo mondo: come accusa che il popolo A lancia ai nemici del popolo B, e spesso viceversa.
C’è poi un terzo soggetto C che osserva e fornisce un resoconto a uso dei suoi compagni europei, e non può che riferire quanto sentito, cioè come il cannibalismo sia pratica molto diffusa tra le popolazioni appena scoperte, insieme agli altri tratti di bestialità che serviranno a giustificare la conquista violenta (ma va detto che proprio a causa di questa violenza pure l’osservatore europeo si può trovare, dal punto di vista dell’altro, nella posizione di cannibale). Così secondo Bernal Díaz del Castillo gli indios sono, oltre che cannibali (“mangiano carne umana così come noi mangiamo le mucche, e in ogni città ci sono grandi gabbie di legno dove uomini, donne, e bambini sono ingrassati in vista del loro sacrificio”), anche sodomiti (“gli uomini vanno in giro in abbigliamento femminile e si guadagnano da vivere con questa pratica diabolica”), incestuosi (“i figli commettono incesto con le loro madri, i padri con le figlie, i fratelli con le sorelle, e gli zii con le nipoti”) e infine ubriaconi, al punto di iniettarsi il vino in corpo con un clistere. Nella disputa fra Bartolomeo de Las Casas e Juan de Sepúlveda sull’eguaglianza degli indios il cannibalismo diventa uno dei principali atti di accusa nei confronti degli amerindi, tale da giustificarne lo sfruttamento e la messa in schiavitù.
È chiaro che non siamo di fronte al “vero” cannibalismo come lo intendevamo prima (cioè come istituzione culturale) perché qui la pratica viene sempre menzionata proprio come simbolo dell’assenza di cultura, come stadio primitivo e selvaggio dell’umanità. Ma se rinunciamo all’idea che esistano civiltà più o meno “evolute”, indirizzate verso una perfezione lontana da un presunto stato di barbarie assoluta, allora non può nemmeno esistere un cannibalismo selvaggio, ma dobbiamo trovare al fenomeno un diverso significato, e una diversa spiegazione del paradosso. Così fin dall’antichità a questo discorso sulle terribili usanze dei selvaggi se ne accompagna un altro, più sottile.
Nelle sue Antilogie (opera che ci è conosciuta solo per sentito dire) Protagora sviluppa il suo celebre argomento alla base del relativismo etico, secondo la quale le nozioni del bene e del male dipendono semplicemente da ciò che è considerato buono o cattivo in una data società, senza che vi siano dei riferimenti assoluti (“l’uomo è la misura di tutte le cose”). La prova di ciò è proprio data dalla diversità di costumi che osserviamo nelle differenti latitudini, laddove non esiste niente da qualcuno considerato sacro che non venga invece profanato altrove. In un trattato anonimo (i Dissoi logoi) di influenza protagorea si scrive che:
presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l’una e l’altra cosa. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dei; invece, presso i Greci neppure si vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello, presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare.
Cannibalismo, incesto e sodomia non sono più tratti che, nella loro negatività, caratterizzano l’assenza di civiltà. Sono soltanto esempi di costumi diversi presso civiltà diverse. Deve trattarsi quindi del cannibalismo rituale – opposto a quello selvaggio – che stavamo cercando; rituale perché conforme al rito, al complesso di usi e norme caratteristici di quella cultura.
In epoca moderna, dopo la scoperta dell’America, è stato soprattutto Michel de Montaigne – nelle sue celebri riflessioni sui cannibali – a porre la questione della relatività dei costumi, al di fuori di giudizi basati su etnocentriche scale di valori:
io ritengo che non ci sia niente di barbaro e selvaggio in questa nazione, per quanto mi è stato riferito, se non che si chiama “barbarie” ciò che non è nei nostri costumi; sembra infatti che non abbiamo altro criterio di verità e di ragione che non sia l’esempio e l’idea delle opinioni e delle abitudini del paese in cui siamo.
Le idee di Montaigne presentano a dire il vero qualche oscillazione, perché egli è disponibile a considerare come “barbare” le popolazioni da poco scoperte, ma quel che conta è che si sforza di dare a questo termine una nuova connotazione, non più semplicemente negativa. I “selvaggi” potrebbero essere persone migliori di noi proprio perché più vicine di noi alla natura, non corrotti dalle ipocrisie della civiltà (è l’inizio del mito del “buon selvaggio”). Il cannibalismo di questi selvaggi, quindi, una volta confrontato con i più cruenti episodi delle guerre di religione che avevano martoriato la Francia nel secolo di Montaigne, ne esce addirittura vincitore:
non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.
Quel che occorre sottolineare, qui, è che né Protagora né Montaigne sono davvero interessati ai cannibali o alle esotiche usanze dei popoli stranieri. Così come sarebbe un errore considerare, ad esempio, le Lettere persiane di Montesquieu un trattato etnologico sulle usanze dei popoli persiani piuttosto che una satira sui costumi dei Francesi, allo stesso modo lo sguardo di Montaigne è in realtà rivolto alla propria cultura. I cannibali – i Massageti di Protagora o gli indios di Montaigne – potrebbero benissimo non esistere, ma essere un semplice esperimento mentale, un espediente retorico avente la funzione di mettere in dubbio l’assolutezza e il fondamento oggettivo delle nostre scale di valori. Si tratta di una cosa abbastanza evidente nel caso dei due autori che abbiamo considerato, ma a quanta letteratura antropologica anche moderna potremmo estendere questo discorso?
Nell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss e nelle sue riflessioni sul cibo (come nel saggio Il triangolo culinario) i cannibali sembrano esistere, per esempio, non come persone in carne e ossa, osservate empiricamente nel loro ambiente, ma come puri segni all’interno di un sistema, quello culinario, assimilato a un linguaggio vero e proprio. Dal momento che tutte le culture si muovono nell’orizzonte del medesimo triangolo culinario originale (crudo-cotto-putrido) elaborando e affrontando in maniera diversa le coppie di opposizioni al suo interno (naturale : culturale = non elaborato : elaborato = arrostito : bollito = esocucina : endocucina) diventa possibile, in base a questo schematismo, fare predizioni intorno alle diverse modalità di consumo della carne umana: così potremo dire che i cadaveri verranno, generalmente, più bolliti che arrostiti, perché la bollitura è affine all’endocucina – destinata a un gruppo chiuso – e il cannibalismo “è per definizione una endocucina in rapporto alla specie umana”, ma d’altra parte l’arrostitura sarà più frequente nei casi di esocannibalismo (mangiare i nemici) che in quelli di endocannibalismo (mangiare i parenti o gli affini), perché sia l’arrosto che gli stranieri stanno dal lato natura.
Se non riuscite a seguire il ragionamento di Lévi-Strauss siete in buona compagnia, ma potremmo forse riassumere dicendo che lo strutturalismo si fonda sul seguente sillogismo: il modo di vivere è cultura, la cultura è linguaggio, il linguaggio è fatto di simboli, i simboli sono arbitrari, ergo tutte le usanze si equivalgono e sono egualmente possibili e/o reali. In una prospettiva del genere non ha molto senso chiedersi il perché del cannibalismo rituale: esso esiste perché è una possibilità, perché le diverse culture non fanno altro che elaborare diversi sistemi simbolici, rappresentati dal linguaggio e dalle usanze. Se confrontato con questa astrattezza l’approccio radicalmente diverso rappresentato dal materialismo culturale di Marvin Harris può apparire come una boccata di aria fresca. Harris nei suoi libri dedicati alle usanze alimentari (Cannibali e re o Buono da mangiare) infatti decide di prendere sul serio la domanda “perché c’è questa usanza?” e di cercare una risposta basata su più banali e comprensibili criteri di razionalità e convenienza pratica.
Perché gli Ebrei non mangiano il maiale? Secondo un’analisi di tipo strutturale (Mary Douglas, Purezza e pericolo) il maiale è considerato un animale impuro, un abominio, perché mette in crisi i sistemi di categorizzazione alla base della cultura delle popolazioni semitiche, essendo allo stesso tempo ungulato ma non ruminante (un po’ come se considerassimo impuro il delfino perché sta in acqua ma non è un pesce). Secondo Harris invece i suini non sono adatti per essere allevati in un clima desertico come quello in cui vivevano le antiche popolazioni semitiche, e il divieto deriva in ultima analisi da fattori economico-materiali. Le due analisi non sono necessariamente incompatibili fra loro ma dal punto di vista materialista è chiaro che quella simbolica si ferma al livello della sovrastruttura, per esprimerci in termini marxiani, è ideologia che maschera i reali rapporti di produzione.
Quanto al cannibalismo, è certamente possibile leggerlo in chiave simbolica in molte maniere: assimilazione del coraggio del nemico ucciso in battaglia ingerendone il corpo, modo di onorare i parenti defunti assicurandone la continuità in noi, eccetera; ma in ultima analisi – è la scandalosa ipotesi di Harris – è un fatto alimentare: se mangiamo qualcuno è per nutrircene, perché abbiamo fame. L’idea è che in realtà a dover ricevere una spiegazione sia il divieto del cannibalismo piuttosto che la sua pratica: avendo a disposizione una buona fonte di proteine, magari sotto forma di nemico ucciso, perché non approfittarne? E infatti i pasti cannibalici sono la regola, dice Harris, almeno nelle società prestatali, meno organizzate da un punto di vista sociale (come quella dei Maori in Nuova Zelanda). Più precisamente si tratterebbe di un modo per ammortizzare i costi di una guerra: essendo impossibile per tali società immagazzinare scorte di lungo periodo per provvedere alle necessità di un esercito, servirsi sul campo di battaglia è la scelta più immediata. Il cannibalismo diventa invece proibito quando il nemico sconfitto diventa più utile da vivo che da morto, quando può diventare uno schiavo o ancora meglio un suddito che paga le tasse e i tributi; questo è il senso dell’opposizione fra cannibali (che mangiano gli sconfitti) e re (che li governano).
C’è un problema con questa teoria: come la mettiamo con gli Aztechi, che erano certamente un popolo dotato di una complessa organizzazione statale, e che secondo le testimonianze dei conquistatori praticavano il sacrificio su larga scala talvolta seguito da spettacolari orge cannibaliche? Qui Harris sembra costretto a ricorrere ad alcune ipotesi ad hoc, come quella per cui gli Aztechi avevano un particolare bisogno di proteine animali, stante la scarsa disponibilità di fauna commestibile. Dato il ricchissimo apparato simbolico-rituale che accompagnava il sacrificio azteco, e la grande scala del fenomeno, questa sorta di riduzionismo al fatto alimentare ha prevedibilmente suscitato molte critiche e perplessità, che possono essere ricostruite tramite il dibattito fra Harris e Marshall Sahlins sulla New York Review of Books. In questa controversia possiamo notare come Sahlins rimproveri ad Harris di proiettare sulle altrui culture caratteristiche e ossessioni che sono proprie della civiltà occidentale e capitalista, tutta orientata al volgare profitto e alla convenienza pratica (al che i materialisti rispondono che le usanze possono cambiare ma le regole della razionalità dovrebbero essere le stesse in ogni latitudine, e anche in società precapitaliste).
Ma un problema ulteriore, se anche accettassimo per vere queste teorie, potrebbe essere il seguente: se l’antropofagia viene analizzata e spiegata puramente sotto il profilo strumentale/razionale, può ancora essere definita cannibalismo? O non si tratta piuttosto di un comportamento affine a quello degli sfortunati passeggeri dell’aereo precipitato nelle Ande? Il cannibalismo è rituale anche se il rito consiste solo in un abbellimento estetico, in inutili orpelli simbolici e gesti magniloquenti aventi la funzione di mascherare la natura volgarmente alimentare del pasto?
Il mito del cannibale
Non sarebbe buffo se, dopo tutte queste discussioni, gli Aztechi non fossero mai stati cannibali? E se non fosse mai esistito un cannibalismo istituzionale, da nessuna parte? Se il cannibalismo fosse soprattutto un’invenzione dei bianchi colonialisti – una fake news – per giustificare lo sterminio e lo sfruttamento dei popoli conquistati? Questa è, in breve, la teoria esposta da William Arens nel suo libro del 1979, Il mito del cannibale.
Arens ha avuto il merito innegabile di mostrare come le prove sul cannibalismo presenti nella letteratura fossero molto meno convincenti, sottoposte per una volta ad un’analisi severa, di quanto si credesse fino a quel momento. Che la questione della testimonianza si presenti come particolarmente problematica d’altronde dovrebbe risultare evidente almeno per il fatto che, diversamente da molti altri fenomeni indagati dagli antropologi, qui risalta l’assenza di un “punto di vista cannibale”, il che è tanto più paradossale per l’universalità – storica e geografica – che al fenomeno viene attribuita. Manca cioè la stessa materia prima del lavoro antropologico, l’attribuzione di significato a una pratica culturale fornita dai suoi attori. Senza quindi voler sminuire l’importanza delle prove archeologiche o delle testimonianze oculari, in un caso avremo solo l’evidenza di un fatto materiale che da solo può dirci poco in merito al suo significato culturale, nell’altro caso avremo al più il significato che a quel medesimo fatto viene attribuito da un outsider, da un appartenente a un’altra cultura.
Abbiamo già visto in parte come alcune voci potrebbero essersi diffuse, cioè come accuse incrociate di un popolo verso il suo nemico e viceversa: in modo più generale Arens mostra come non vi sia praticamente alcun popolo o anche minoranza che in qualche momento del passato non sia stato accusato di praticare il cannibalismo da qualcun altro, come è capitato ai primi cristiani per opera dei Romani, e più tardi agli Ebrei da parte dei cristiani. Oggi nessuno prende sul serio quelle voci intorno agli antichi cristiani o agli Ebrei, e anzi sarebbe immediatamente accusato di propaganda antisemita chi vi alludesse in modo non ironico; qualche anno fa a dire il vero è capitato a uno studioso italiano appartenente alla comunità ebraica, Ariel Toaff, di ipotizzare in un suo libro che vi potesse essere un qualche fondamento reale nell’accusa del sangue, ma la cosa venne presa talmente bene che il libro fu ritirato dalle librerie dal suo editore per poi essere purgato da quelle pagine.
Per quanto riguarda gli Aztechi, Arens aggiunge che – per un meccanismo che oggi potremmo definire virale – i pasti antropofagi diventano un tema sempre più importante nelle relazioni via via che ci si allontana dai fatti narrati. Così i primi conquistatori, come lo stesso Cortés nelle sue lettere, non fanno che qualche fuggevole cenno sull’argomento, e senza mai pretendere di aver direttamente osservato episodi di cannibalismo. È la generazione successiva – quella dei missionari come Durán e Sahagún – a dare al tema una maggiore importanza derivata dal loro interesse per gli antichi (e corrotti) costumi pagani, ma la loro conoscenza non può che essere di seconda mano e basata sui resoconti precedenti, essendo ormai la pratica scomparsa (ed essendo decimati gli stessi popoli che l’avrebbero praticata).
Qualche difficoltà in più a dire il vero la si incontra nell’affrontare le celebri memorie di Hans Staden, soldato e marinaio tedesco al quale capitò nel 1552 di esser fatto prigioniero dai Tupinamba del Brasile e vivere qualche mese insieme a loro. Staden infatti fornisce una testimonianza oculare molto dettagliata dell’uccisione, preparazione, e consumazione dei prigionieri da parte dei Tupinamba (i quali avrebbero mangiato anche lui se alla fine non fosse riuscito a scappare) in un libro peraltro arricchito da illustrazioni che costituiscono l’archetipo del nostro immaginario antropofagico: i classici esploratori nel pentolone circondati da selvaggi nudi che rosicchiano gambe e avambracci. Arens non può fare altro che sostenere che Staden sta mentendo e sottolineare le varie incongruenze del racconto. Ora, che il resoconto di Staden non sia del tutto veritiero è ovviamente possibile (e non sarebbe certo inconsueto) ma si comincia a provare un certo disagio nel constatare come la strategia di Arens sia quella di accusare di falsità tutti coloro che parlano del cannibalismo (e non potrebbe essere altrimenti quando si è già deciso che i cannibali non esistono).
Il libro ebbe un buon successo ma venne accolto piuttosto freddamente dalla comunità antropologica, che lo accusò di superficialità e sensazionalismo. Come abbiamo appena visto alcune delle critiche sono giustificate: Arens adotta un impianto discorsivo che tenta di rovesciare l’onere della prova sui sostenitori del cannibalismo, ma con modalità che sembrano più adatte a un processo che a un dibattito accademico, come se stessimo parlando non di una pratica culturale ma di un reato la cui esistenza va dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio prima di condannare il reo. Ma la cosa forse più grave è che il suo approccio, se pure ben intenzionato nei confronti delle popolazioni accusate di antropofagia, rischia di trasformarsi in un boomerang: se venisse dimostrato che almeno in un caso Arens ha torto il cannibalismo resterebbe una cosa impossibile da spiegare e da capire, se non tramite lo schema consueto delle civiltà inferiori e barbariche.
Tuttavia alcune reazioni lasciano trapelare un certo nervosismo che non può essere spiegato solo dai difetti del libro. Da ogni parte si ribadisce che le prove sull’esistenza del cannibalismo sono schiaccianti, assolutamente impossibili da ignorare, dove per “prove” a ben guardare si intende l’immensa letteratura antropologica riguardante il tema, la stessa letteratura criticata da Arens. Il cannibalismo si rivela un concetto versatilissimo, che trova una sua funzione essenziale nelle più diverse – e anche opposte – teorie antropologiche, contribuendo a rinforzarle e da esse venendo rinforzato, e per questo non è facilmente sacrificabile. Per esempio è uno dei tratti la cui presenza nel remoto passato dell’umanità, insieme a infanticidi, sacrifici umani, stupri di massa, genocidi, roghi di streghe, torture, e gogne pubbliche, serve a Steven Pinker per raccontare la storia di progresso del suo libro La fine della violenza; per i relativisti, come abbiamo visto, conferma l’estrema variabilità del comportamento umano e dei valori che ne sono alla base; per gli strutturalisti è una variante di quella forma di linguaggio che è l’alimentazione; per i materialisti è la prova dell’importanza dei fattori ecologici nel plasmare le culture in maniera quasi deterministica, e via dicendo (senza tacere il fatto che pure Arens ha la sua agenda). Si tratta insomma di una questione solo apparentemente specifica o marginale, ma che in realtà mette in questione l’intero status epistemologico dell’antropologia.
Più stupefacente potrebbe essere considerato il paragone fra il revisionismo di Arens e la negazione dell’Olocausto, che pure è stato fatto (ad esempio nel libro Gli assassini della memoria di Pierre Vidal-Naquet). Arens infatti potrebbe avere torto marcio, eppure sarebbe assurdo sostenere che le prove dell’esistenza del cannibalismo istituzionale hanno lo stesso peso che ha la documentazione storica intorno all’Olocausto. Il paragone è oltraggioso anche per un motivo già visto, e cioè che proprio le vittime dello sterminio, gli Ebrei, si sono visti in passato accusare di cannibalismo rituale e che tali accuse vennero usate dalla propaganda nazista. Lo sterminio degli Ebrei e delle altre minoranze attuato dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale è un’entità storiografica che può essere anch’essa soggetta a interpretazioni (così come sarebbe utile un dibattito sull’epistemologia della prova basata sulla testimonianza e il ricordo dei sopravvissuti), ma tale entità storiografica – cioè oggetto costituito dalle categorie degli storici – si appoggia sulla bruta presenza delle fosse comuni e dei crematori, di milioni di cadaveri fucilati, gassati, o lasciati morire di fame per odio razziale.
Tralasciando il fatto (forse ricattatorio) che nel dibattito sul cannibalismo i milioni di vittime si contano dalla parte dei presunti cannibali, possiamo certamente dire che tale dibattito offre un più ampio ventaglio di posizioni intermedie, che rende possibile una riflessione intorno allo status ontologico delle istituzioni culturali, intorno al modo – specifico della disciplina – in cui l’antropologia costruisce i suoi oggetti, sul modo in cui l’osservatore interferisce necessariamente col fenomeno da osservare, o sul differente sguardo che applichiamo inconsciamente all’altro rispetto a quello rivolto a noi stessi.
Siamo tutti cannibali?
Negli stessi anni in cui Sahlins, Harris, Arens e altri studiosi litigavano sulla natura dell’antropofagia il cinema italiano di genere – a quei tempi ancora vivo – inventava il cannibal movie, un filone di film dall’alto contenuto di violenza (ed erotismo) ambientati in località esotiche fra immaginarie tribù di cannibali. La cosa interessante è che alcune di queste pellicole, al di là degli aspetti più commerciali e il gusto talvolta discutibile, presentavano sotto il profilo tematico una consapevolezza critica forse addirittura maggiore di quella degli antropologi citati.
Il più famoso film del filone è certamente Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato, che già nel titolo raccoglie i due temi menzionati alla fine del paragrafo precedente. Si tratta una delle opere più controverse della storia del cinema, forse superato solo dal Salò di Pasolini. Il film racconta la storia di quattro reporter che si avventurano nella giungla amazzonica per cercare “gli ultimi selvaggi”. Non faranno ritorno ma le pellicole contenenti il materiale da loro girato vengono recuperate in una spedizione di soccorso. La seconda parte del film consiste proprio nella visione di questo materiale (è considerato peraltro il primo esempio del genere found footage, con vent’anni di anticipo su The Blair Witch Project). Apprendiamo così che le terribili scene di violenza girate dai quattro reporter sono tutte opera loro: sono loro a incendiare i villaggi, a uccidere gli indigeni, a stuprare le ragazze, allo scopo di girare filmati sensazionalistici e attribuire poi gli orribili fatti di sangue alle usanze dei “selvaggi”. Alla fine vengono uccisi e divorati, ma questo non impedisce a uno dei personaggi di chiosare, prima dei titoli di coda “mi sto chiedendo chi siano i veri cannibali”.
Ancora più interessante per noi, comunque, è Cannibal Ferox di Umberto Lenzi, del 1981. La protagonista, Gloria, è una studentessa di antropologia che si reca in Amazzonia insieme al fratello e un’amica allo scopo di dimostrare che il cannibalismo è un mito inventato dagli invasori di origine europea (ricorda qualcosa?). Naturalmente saranno catturati da una tribù di cannibali che uccideranno tutti tranne la protagonista che riesce a salvarsi. L’ironia può apparire scontata: secondo gli autori di un saggio su cinema e cibo “il film di Lenzi insiste sulla tesi del cannibalismo e sull’ipocrisia di coloro che la pensano diversamente”. In realtà le cose sono molto più complesse, come appare anche da un semplice riepilogo dall’intreccio. Gloria e i suoi amici, inoltratisi nella foresta, incontrano due persone – Mike e Joe – che sostengono di essere state attaccate dai cannibali, i quali avrebbero anche ucciso un loro compagno tagliandogli i genitali e cibandosene. Ma lo spettatore scoprirà in seguito che in realtà è stato proprio Mike a torturare e uccidere un indigeno nel tentativo di farsi consegnare delle pietre preziose per poi tentare la fuga. Quando gli indigeni, per vendicarsi su Mike, lo legano a un palo, lo torturano, e gli tagliano i genitali per mangiarli, mettono in scena esattamente il racconto, falso, che Mike aveva inventato in precedenza. La domanda “chi sono i veri cannibali?” è ancora meno retorica che nel caso precedente.
La qualità profetica di questi film può essere apprezzata se consideriamo la loro somiglianza con lo “scandalo El Dorado”, che nel 2000 vide coinvolto in particolare l’antropologo Napoleon Chagnon accusato di esacerbare le violenze fra gli Yanomani dell’Amazzonia allo scopo di girare documentari e scrivere libri sulla loro “ferocia”. Si trattava in realtà di uno sgradevolissimo attacco personale – durante il quale arrivarono persino accuse di genocidio – nel contesto di una vera e propria faida accademica, ma la questione interessante era già stata sollevata in precedenza. Fra le classiche ipotesi sulle cause dei conflitti, spesso molto violenti, fra le diverse tribù di Yanomani (competizione per il cibo vs. competizione per le donne) se ne stava affacciando una terza: la competizione per l’antropologo e per i suoi doni in cambio di informazioni (l’ipotesi è stata avanzata da Brian Ferguson nel libro Yanomani Warfare. A Political History). Ovvero, non si trattava più di comprendere in che modo le idee dell’antropologo modificavano la sua percezione della realtà, ma anche e soprattutto di comprendere come le idee e le azioni dell’antropologo modificavano la realtà che percepiva.
Sono temi che l’esperto di società polinesiane Gananath Obeyesekere ha affrontato nel suo libro Cannibal Talk: the Man-Eating Myth and Human Sacrifice in the South Seas, nel quale propone una versione più moderata della tesi di Arens. Pur non escludendo l’esistenza di limitati atti di antropofagia all’interno del più ampio contesto del sacrificio umano, Obeyesekere intende mostrare come le osservazioni dei primi esploratori fra le isole della Polinesia siano inevitabilmente condizionate dalle loro aspettative e dalla loro fascinazione proprio riguardo al tema del cannibalismo, dando talvolta luogo a tragicomici equivoci. I marinai di Cook, forti della loro missione scientifica, non fanno che informarsi ovunque sbarcano sulle eventuali abitudini antropofagiche degli indigeni, ottenendo a volte una risposta scandalizzata: forse che è un’abitudine degli inglesi mangiare carne umana? I sospetti dei polinesiani riguardo agli inglesi hanno d’altronde qualche ragione d’essere: che altro possono volere queste persone venute da lontano, visibilmente denutrite, con un appetito vorace, e che fanno un sacco di domande sul cannibalismo, se non mangiarli? Proprio questi sospetti confermano a loro volta i pregiudizi degli inglesi: quando un indigeno esita a salire a bordo perché teme di essere mangiato l’inferenza è che deve trattarsi di un’usanza del luogo.
La tesi di Obeyesekere è che i discorsi sul cannibalismo per la maggior parte non sono altro che, appunto, discorsi, proiezioni culturali con a volte un sottofondo psicoanalitico. Ma come il filosofo Austin ci ha insegnato ci sono dei casi in cui “dire è fare”, e proprio l’enunciazione del cannibalismo altrui potrebbe essere un atto performativo, o altrimenti detto una profezia che si auto-avvera. In un altro episodio del libro i marinai di Cook stanno facendo acquisti presso i Maori quando vedono una testa umana staccata dal corpo – a quanto pare appartenente alla vittima di una recente battaglia – e acquistano il macabro trofeo. Una volta sulla nave decidono di compiere un bizzarro esperimento: staccano un pezzo di carne dalla testa, la cuociono e la offrono a uno degli indigeni; questo avviene in assenza del capitano, che però quando arriva a conoscenza del fatto decide di replicare l’esperimento. Che il dono venga accettato e consumato golosamente, stando a quanto viene narrato, costituisce per i marinai una conferma della loro ipotesi, ma Obeyesekere argomenta che l’episodio può essere interpretato diversamente, e che per esempio il Maori può aver creduto di trovarsi in mezzo a feroci cannibali ed essersi adeguato alle circostanze. Come escludere che altri episodi di cannibalismo non siano la strisciante conseguenza di un contagio culturale, il risultato di un’infezione da parte di un meme portato dagli inglesi, così come avviene in Cannibal Ferox?
Una delle proposte di Obeyesekere è quella di riservare il termine “cannibalismo” – troppo connotato in senso negativo o comunque troppo denso di significati – proprio al cannibal talk, all’immaginario riguardante l’antropofagia degli altri, e di usare “antropofagia” solo per riferirsi all’effettivo consumo di carne umana, nonostante non possa esservi una netta divisione fra i due concetti. Può sembrare solo un gioco di parole ma ha la sua utilità: ci sono casi di cannibalismo senza antropofagia, per esempio quando gli integralisti vegani accusano i carnivori di cibarsi dei loro simili; non si tratta solamente di una metafora, perché chi muove l’accusa di cannibalismo intende usare il termine in maniera quasi letterale, estendendone appena un po’ il significato. Viceversa, ci sono casi di antropofagia senza cannibalismo, nel senso che nessuno li considera tali dall’interno della sua cultura, e sono anche piuttosto comuni se ci pensiamo. Gli stessi marinai inglesi in viaggio nell’Oceano Pacifico ne sapevano qualcosa, visto che non erano troppo rari i casi di cannibalismo di sopravvivenza fra gli scampati a un naufragio, e anzi abbastanza frequenti da dare vita, secondo Obeyesekere a una certa “tradizione”, una consuetudine; e se c’è una tradizione culturale, un rito, vuol dire che siamo di fronte al cannibalismo rituale.
Lévi-Strauss scrive, nel titolo della sua ultima raccolta di articoli, che “siamo tutti cannibali”. Dopo aver liquidato le tesi negazioniste di Arens, cioè, argomenta che non solo il cannibalismo esiste ma dopo tutto alcune forme sono presenti ovunque, anche nella nostra civiltà. Il misterioso kuru, malattia della Nuova Guinea che si propagava – forse – tramite la disgustosa abitudine di mangiare la carne e il cervello dei morti, ha il suo corrispettivo nelle società occidentali nel morbo di Creutzfeld-Jacob, dal quale molte persone sono state infettate dopo essere state inoculate con sostanze prese dal cervello di persone morte. È cannibalismo terapeutico, ci assicura Lévi-Strauss, molto comune fra i “selvaggi”. Un esempio secondo me ancora più calzante potrebbe essere un’usanza che ha preso piede in certi ambienti di persone attratte da uno stile di vita “naturale”, e cioè quello di conservare la placenta dopo aver partorito, per poi cucinarla e mangiarla, spesso in compagnia di amici appositamente riuniti (l’idea, non so quanto fondata scientificamente, è che la placenta contiene sostanze che aiuterebbero a superare la depressione post-parto).
Ma c’è davvero una differenza così grande fra le tesi di Arens e quella di Lévi-Strauss? Se siamo tutti cannibali, non è un po’ come dire che non lo è nessuno?
Che dire? Scritto bene? Stimolante e a banda larga? A Vostra scelta, forse. Grazie, Sig. Autore.