Questo articolo può non essere noioso?

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“Qua si parla di come parlare di cultura senza annoiarsi.”

Per molti la frase come è possibile fare critica culturale oggi risulta così tediosa da smettere subito la lettura. Per questo mi domanderò, piuttosto: «Com’è possibile parlare di qualunque cosa?».

Una mostra, un romanzo, un saggio, un film, uno spettacolo teatrale o un concerto; chiunque parli di uno di questi oggetti fa della critica culturale, anche qualora si limiti a dire «bello» o «brutto». Di più; persino fuori da questi oggetti “standard” si fa della critica culturale: quando si commenta un evento, si critica un attentato terroristico, si sceglie un vestito, si mette un like su facebook, si sceglie un viaggio o un regalo di compleanno. Quando si mette mano ai simboli, insomma, si fa della critica, perché si elabora un parere più o meno consapevole su un linguaggio in atto.

La critica culturale, svalutata (ma direi innalzata) a parere, si allontana un po’ dall’oggetto che la subisce per avvicinarsi al soggetto che la pronuncia; perché dovrebbe interessarci un parere su un libro, un film, una macchina o un mazzo di fiori? I fattori sono molteplici e non analizzabili in poche righe: l’importanza del pulpito da cui proviene il commento, il modo in cui viene argomentato, la fiducia verso chi lo sostiene, gli artifizi retorici utilizzati, il mezzo di comunicazione che lo veicola… in breve, la sua forza persuasiva.

La parola, intesa nel senso più ampio di processo simbolico (inclusiva di immagini, gesti e via dicendo), è concretamente una potenza divina e creatrice; qui crea e lì aggiunge, toglie, eleva, muta o distrugge. Forse chi reputa che vi sia qualcosa di vero o di falso è in errore; è tutto vero, perlomeno finchè qualcuno non sostiene il contrario. Si dice che Maometto sfidò gli Arabi suoi connazionali a imitare il suo Corano, ed essi, malgrado fossero famosi per la loro raffinata eloquenza, non ci riuscirono. Un argomento molto originale, ma indubbiamente forte, come a dire: «Non mi credi? Dì qualcosa di meglio».

Parlare di qualcosa è una parte integrante del fare qualcosa, perché ogni simbolo è un’asserzione, che può diventare domanda, grido o silenzio in base a quel che si risponde. In questo discorso le opere rappresentano le forze che hanno la “prima parola”, mentre i commenti, la critica, sono le risposte, il momento in cui una parola diventa dialogo. Scrivendo in un blog che si presenta “di cultura e altro” e che dunque si prende carico della fastidiosa eredità della critica culturale, non è possibile ignorare le questione; di qui lo sforzo che segue, ovvero la ricerca di alcune cause del mutare del ruolo e dell’effetto della critica culturale contemporanea. Ne ho trovate quattro, piuttosto ovvie a prima vista, ma complicate (e complicabili) nelle loro declinazioni.

La prima questione, “l’alluvione di parole”.

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(1) I monsoni verbali

O il moltiplicarsi dei risponditori, o anche solo internet, che è la risposta bonus a tutte le domande degli ultimi anni.

La comunicazione di massa ha aumentato esponenzialmente la disponibilità e possibilità di commento di chiunque su qualunque cosa. La nascita della scrittura, della stampa, dei quotidiani, della radio, la televisione e infine di internet sono tutti eventi ad alto impatto per quel che riguarda la produzione e soprattutto il commento di ogni manufatto umano, da un’opera d’arte alle scelte personali (e intendo davvero personali, del tipo “tizio si è fidanzato con tizia”, che nei reality show ha un’importanza cruciale). Per limitarsi al passato recente, pubblicare un articolo richiedeva un percorso molto lungo; degli studi, l’appartenenza a una testata con una precisa linea editoriale, un’appartenenza ideologica o politica. I blog e i social network danno a chiunque la possibilità di esprimere il loro parere e sebbene la maggior parte dei commenti resti relativamente invisibile, tutto concorre alla creazione di quelli che potremmo definire dei pareri cumulativi, che si declinano in stelline, asterischi, pallini e pollici in su: il parere, insomma, diventa voto popolare. Chi vuole emergere da questa sovrabbondanza di voci (me compreso, nello scrivere questo articolo) deve adattarsi a nuove strategie retoriche e mezzi di persuasione. L’importanza che aveva l’esser notati da qualche direttore editoriale è rivestita ora dalla capacità di attrarre a sè un bacino di pubblico sufficiente per sostenersi; la massa è un oceano dove può galleggiare solo chi ha mani tese per sorreggersi.

Alcune voci reagiscono a questa sfida semplificandosi, rarefacendosi, mugolando come sirene. Altre, per mantenere il proprio tono, si rifugiano in linguaggi settoriali e si rivolgono ad ambiti dalla specificità crescente, guadagnando in profondità per perdere in chiarezza, contaminazione e apertura intellettuale. Per esemplificare la questione, potrei dire che questo paragrafo non rispetta nessuno dei due canoni, perché è troppo specifico per essere di massa e troppo poco approfondito per essere rivolto a specialisti.

La seconda, “bravi tutti”.

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(2) «È davvero bravissimo! (ora tocca a te)»

In passato replicare a un articolo su un giornale non era da tutti. Adesso chiunque può rispondere a chiunque altro, pur rimanendo inascoltato, per lo meno nei casi in cui il commentatore è meno celebre del commentato (se si esclude il caso di Gianni Morandi, che ribalta questa regola inaugurando un innovativo – proprio perchè all’antica – utilizzo dei social network). Laddove però un parere povero di argomenti e carisma risulta tendenzialmente indifferente, centinaia di migliaia di commenti poveri di argomenti e carisma assumono una grande forza retorica, e possono affondare la più solida delle tesi. Approfondire la questione richiede troppo spazio, ma il contesto sinora delineato rende evidente come sia più conveniente lusingarsi a vicenda. Commentare negativamente l’opera di tizio o caio è diventato pericoloso, perché chiunque può fare altrettanto, ma sopratutto è controproducente, perché per emergere dal rumoroso coro del mondo i sostenitori sono indispensabili. Meglio dunque il mutuo scambio di favori.

La terza, “la nicchia Gargantua”.

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(3) Gnam, diamo da mangiare alla nicchia Gargantua.

Ci si lamenta, a giusta ragione, dell’impoverimento culturale delle masse – il moltiplicarsi delle guerre ne è una prova diretta. Eppure rispetto ai secoli scorsi il pubblico che può definirsi “colto” è molto, molto aumentato, a guardare il tasso di alfabetizzazione e scolarizzazione. Più laureati, più intelettuali, più membri del cosiddetto terzo settore; come in tutti i casi in cui l’offerta supera la domanda però, qualche prodotto è destinato a marcire. Se un tempo un’opera d’arte veniva giudicata da pochi eletti (anche a torto), quali re, papi e nobili, ora l’élite culturale è talmente vasta da divenire essa stessa un pubblico. Quello che a tutta prima sembra un evento positivo si tramuta però nel suo contrario, perché se da una parte l’allargamento della preparazione intellettuale aiuta a evitare le tragedie dell’ignoranza, dall’altro tende a inspessire gli stessi confini che allarga. L’educazione, oltre a diffondersi di più, diventa sempre più specifica, in accordo con l’aumento demografico; si sa di più, ma su meno cose, ognuno le sue. Il risultato è una colta ignoranza che non ha nulla a che vedere con la dotta ignoranza di cui parlava Cusano, ma è piuttosto da intendere letteralmente: si può conoscere la fisica quantistica e non avere nozioni base di arte, essere esperti in letteratura e completi ignoranti di anatomia.

La nicchia culturale inoltre, nel farsi abbastanza grande da creare un pubblico, tende a chiudersi, a parlare una lingua propria, a sentirsi ingiustamente autononoma. Più si parla addosso più il suo linguaggio diventa sclerotico, incomunicante per chi è al di fuori, tanto che l’allargamento di questo confine porta a una sua maggiore chiusura. La torre d’avorio diventa una metropoli d’avorio, ma non tutti possono abitarla e si viene a creare una diversificazione dell’offerta, con prodotti per il popolo e prodotti per la nicchia Gargantua.

L’arte contemporanea è un buon esempio, anzitutto perchè stabilisce il suo valore economico su giochi di rimbalzo all’interno di una nicchia allargata, e in secondo luogo perché esemplifica molto bene il meccanismo: soltanto chi è dentro «può capire», mentre chi è fuori «non ha gli strumenti». I linguaggi si diversificano fino a diventare stranieri l’uno per l’altro e l’opera non insegna a parlare, ma ha bisogno di un corso propedeutico per essere accolta e giudicata sensatamente.

La quarta, “il troppo stroppia”.

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(4) povero leone

Anche in virtù di quel che si è detto nei paragrafi precedenti, è evidente che c’è tanta, troppa roba in giro. Troppe opere d’arte, troppi film, troppi libri; per citare il paradosso più celebre, vengono pubblicati sempre più romanzi e letti sempre meno. Davanti a questa sovrabbondanza, il ruolo del commentatore rischia di aumentare la ridondanza: dobbiamo scegliere tra mille cose, perché aggiungerne altre? Il ruolo più utile diventa quello di selezionatore: non ditemi cosa ne pensate dopo le vostre letture, ditemi cosa leggere.

Vi sono senza dubbio altre cause, senza contare che le ho affrontate solo sinteticamente; inoltre queste condizioni non sono da reputare né negative né positive, considerato che a ben guardare ci sono pregi e difetti in quasi tutte. Una domanda rimane aperta, forse un po’ meno noiosa e sconosciuta di com’era all’inizio, ed è: «come è possibile fare critica culturale oggi?».

di Francesco D’Isa

Sulle immagini: (1) Clipart courtesy FCIT, elaborazione di Francesco D’Isa (2) Clipart courtesy FCIT (3) Gustave Doré / Stefano Bianchetti/ Corbis. (4) “Abundance tree” canvas, oil. 50х100 cm, di Anvar Saifutdinov, elaborazione di Francesco D’Isa. In copertina una foto di Lorenzo Bechi, FILMSOLO.