Recensione dal mio bagno – “L’attesa”

“L’attesa”
di Piero Messina
Sceneggiatura di: Giacomo Bendotti, Ilaria Macchia, Andrea Paolo Massara, Piero Messina
Fotografia: Francesco Di Giacomo
Montaggio: Paola Freddi
Con: Juliette Binoche, Lou de Laage, Giorgio Colangeli, Giovanni Anzaldo, Domenico Diele, Antonio Folletto
Prodotto da: Indigo Film

Piove anche oggi.
Speriamo piova per sempre.
Per giorni, per anni.
Almeno rimango in casa a nuotare e al riparo.
Ho un dolore lancinante alla parte nord orientale della schiena
che in alcuni momenti arriva a toccare anche il torace.
L’oceano.
Morirò?
No, ce la farò.
Nuoterò senza tregua.
Solo col braccio sinistro.
Come un nuotatore monco e mancino.
Un eroe delle correnti.
Sarà per questa pioggia.
Sarà per l’umidità.
Sarà per il cambio di stagione.
Sarà questo autunno.
Gli alberi verdi.
Le foglie che ancora non cadono.
I pesci che muoiono.
Gli uccelli che strisciano.
I paesi sprofondano.
E la vita che ci scappa di mano.
Dalla destra perché la sinistra non c’è.
Pace all’anima mia.
Prendo un antidolorifico.
Il terzo da ieri.

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(c) Lorenzo Bechi, filmsolo 2015

Esco di casa col mio ombrello marrone e d’altri tempi.
Faccio le scale.
Apro il portone.
Piove.
Mi nascondo da quelli del bar sottocasa,
maledetti curiosi,
sarei costretto altrimenti a parlare,
a sorridere e a bere un altro caffè,
il terzo,
come gli antidolorifici che ho in corpo
e non ne ho alcuna voglia.
Cerco la mia bicicletta.
Non c’è.
Dov’è?
Dove l’ho messa?
Me l’hanno rubata.
È forse la sesta,
forse la settima volta che capita.
Forse l’ho dimenticata da qualche parte.
Mi capita spesso,
specie quando arrivo in un posto da solo e me ne vado con qualcuno che è senza la bici.
No.
Non l’ho dimenticata.
Me l’hanno rubata.
Una volta me ne hanno rubata una che era legata a un cartello,
hanno svitato il cartello dal palo,
l’hanno sollevata su in cielo
e portata via chissà dove.
Nel paradiso delle mie biciclette.


“Una volta me ne hanno rubata una che era legata a un cartello, hanno svitato il cartello dal palo, l’hanno sollevata su in cielo e portata via chissà dove. Nel paradiso delle mie biciclette.”


Un’altra volta sono venuti a rubarmela fin dentro il portone.
Un’altra volta ancora avevo dimenticato di legarla e me ne sono andato in vacanza.
A nuotare.
Adesso passerà molto tempo prima che me ne rubino un’altra.
E passerà questo autunno.
E passerà un altro inverno.
Poi la primavera
e poi sarà di nuovo voglia di pedalare in discesa.
In piedi sui pedali a scalare le Ardenne,
col sole in faccia e il vento tra i capelli.

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(c) Lorenzo Bechi, filmsolo 2015

Fino ad allora me ne andrò in giro a piedi nudi,
uscirò di casa in anticipo e mi guarderò un po’più intorno
perché come tutti sappiamo più sei lento nel muoverti più cogli i dettagli che respiri nell’aria.
Proprio come le tartarughe,
alle quali notoriamente non sfugge mai niente.
È una legge.
E faremo del cinema,
perché il cinema lo si fa prima di tutto coi piedi.
E faremo l’amore perché l’amore lo si fa a piedi nudi.


“A volte la bruttezza così come la bellezza viene a noia e svanisce, smette di essere brutta e diviene già vista,
un dato acquisito, altre volte, come nel caso di questa chiesa, rimane solida, tangibile e imperturbata per anni. E questo è un sicuro valore.”


Cammino sotto la pioggia col mio ombrello di legno.

Piove.
Non piove.
Piove.
Non piove.
Scatto alcune foto a una chiesa che da quando sono nato mi stupisce per la sua bruttezza e lo fa ancora oggi.
È un suo grande merito.
A volte la bruttezza così come la bellezza viene a noia e svanisce,
smette di essere brutta e diviene già vista,
un dato acquisito,
altre volte,
come nel caso di questa chiesa,
rimane solida,
tangibile
e imperturbata per anni.
E questo è un sicuro valore.

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(c) Lorenzo Bechi, filmsolo 2015

Eccomi al cinema Portico,
un cinema accanto a una chiesa,
quella di prima.
Il Portico è un cinema da vecchi e pieno di vecchi,
si respira l’odore dei divani ricoperti di plastica,
dei telecomandi ricoperti di plastica,
dei cassetti con dentro la plastica,
del profumo delle signore anche loro ricoperte di plastica.
È uno dei pochi cinema rimasti in questa città a fare una programmazione decente
e per vecchi decenti e di plastica.
Sono le quattro e qualcosa,
piove e non piove ci sono alcune persone.
Il cinema è chiuso,
aspetto sotto la pensilina che mi protegge dalla debole pioggia.
Sono in attesa.

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(c) Lorenzo Bechi, filmsolo 2015

È tutta la vita che aspetto.
Aspetto qualcuno,
aspetto qualcosa,
aspetto dei treni.
Aspetto perché anticipo sempre,
anticipo perché vivo nell’ansia,
vivo nell’ansia perché la mia prefigurazione del futuro corre più veloce di quel treno che mi passa sul naso.
A poco a poco siamo una quindicina di vecchi e di vecchie.
Plastica e non.
Basta io entro!
Uno.
“L’attesa”.
Sei euro.
Sala blu.

Sono lontano dallo schermo ma posso allungare le gambe.
Sono venuto a vedere “L’attesa”,
un film italiano in concorso a Venezia e diretto da Piero Messina che è un esordiente,
ha trentaquattro anni,
solo un anno più vecchio di me.
Tra un anno io non sarò di certo a Venezia a far vedere il mio film e
questa cosa mi riempie il cuore di rabbia.
C’era da aspettarselo.
Il film è coprodotto da Indigo Film
ovvero da Nicola Giuliano e Francesca Cima,
quelli stessi che hanno prodotto “La grande bellezza” e “Youth” di Sorrentino.
Piero Messina ha fatto il DAMS (dipartimento arte musica e spettacolo)
poi il CSC (centro sperimentale di cinematografia)
e poi ancora l’assistente di Sorrentino nei suoi ultimi film.
Non so niente di questo film,
niente di niente.
Non so di che parla,
chi sono gli attori,
quali sono i colori,
non ho visto immagine alcuna,
tantomeno il suo trailer.
Aspetto “L’attesa” e non so quel che mi aspetta.
Questa cosa mi piace,
lo devo fare più spesso.
L’attesa preserva.
L’ignoto è fantastico perché può essere tutto.

Si spengono le luci.
Che il film abbia inizio.

La storia in tre parole racconta il rapporto tra due donne,
una, Juliette Binoche,
è la madre di un ragazzo che è morto,
la seconda, Lou de Laage,
è la fidanzata del ragazzo che è morto.
La ragazza arriva dalla Francia in Sicilia per passare qualche giorno col fidanzato
ma non sa che lui è venuto a mancare
e non lo scopre fino alla fine del film.
La madre non ha il coraggio di dirglielo
e finge che a morire sia stato il cognato.
Il soggetto del film è liberamente tratto da “La vita che ti diedi” di Luigi Pirandello che io peraltro non ho letto.

Detto questo,
non so bene come fare a scrivere questa recensione,
infatti come diciamo noi gente di mare
sto remando sì
ma con un braccio solo,
o come direbbero quelli di montagna mi sto arrampicando sugli specchi sì
ma con un braccio solo,
il sinistro, l’unico rimasto.
Non ho provato emozioni mentre guardavo il film.
Non provo emozioni adesso che ci penso.
In fin dei conti non so se il film un po’ mi è piaciuto
o un po’ mi ha fatto schifo.
La risposta in questi casi è quasi sempre tutti e due.
È un film un po’ distante da quello che io cerco nel cinema.
È un film un po’ da donne che detto così non vuol dire poi niente.
È un film che ha un ottimo soggetto e una sceneggiatura con delle voragini,
basti pensare che la maggior parte degli snodi narrativi sono affidati alla segreteria telefonica di un cellulare.
E questo si sa quelli bravi non lo fanno.
È un film che ha una bellissima fotografia.
È un film ambientato nei primi anni duemila e non ho capito perché,
lo si capisce da una scena nella quale viene inquadrata una televisione che trasmette un telegiornale con Giovanni Paolo II.
Solo da quello.
La regia è elegante e stilizzata, fredda
e si confà perfettamente alla storia che il film intende raccontare.
Ci sono tante inquadrature simmetriche e a macchina fissa che ho trovato eleganti, pertinenti e ben illuminate.
Fin dai primi secondi del film sono stato attraversato dalla paura che il regista dopo alcuni lavori da assistente di Sorrentino tendesse a una sua emulazione:
il fatto non sussiste.
O meglio:
si colgono delle atmosfere e dei sapori sorrentiniani solo all’inizio del film nelle immagini che raccontano il funerale e in qualche immagine metaforica fortemente poetica
(la scena del materassino che vola via e che poi viene sgonfiato dalla madre del ragazzo defunto e quella del bicchiere che sta per cadere).
Ho rivisto Sorrentino dentro queste scene
ma questo non significa niente.
Quelle immagini pur piacendosi molto
sono belle ed efficaci,
hanno spessore e drammaticità.
E poi diciamocelo,
se non avessi saputo che il regista è stato assistente di Sorrentino
avrei visto queste similitudini in modo meno strumentale.
Più che vederlo Sorrentino l’ho sentito nell’uso della musica
e credo che questo di per sé non sia un fatto eclatante e probabilmente neppure degno di nota.
Juliette Binoche è brava,
è molto brava quanto sa di esser brava,
infatti a tratti è irritante.


“È molto bella e non sbaglia mai niente, perché quello che deve fare è essere bella e piena di quella bellezza li,
di quelle bellezze eteree, sofisticate, un po’alla moda e un po’sovversive, in tre parole francesi e con le labbra carnose.”


Emerge con forza il suo talento e il suo essere “grande attrice”,
cosa che non smette mai di ricordarci in ogni singola inquadratura,
in ogni piega del volto,
in ogni lampo di luce che attraversa il suo sguardo.
È un’attrice “grossa”,
sempre in battere e mai in levare,
non è minimale e sottolinea con forza ogni suo gesto.
È tecnica e si perde nel suo tecnicismo tanto da risultare perfetta
e dunque finita.
Eccessivamente drammatica.
Eccessivamente intensa.
Si compiace seriosa del suo essere brava e potente
perdendo in tal modo il lato ludico e fantasioso del mestiere dell’attore.
La ragazza,
Loue de Laage ,
è bella.
È molto bella e non sbaglia mai niente,
perché quello che deve fare è essere bella e piena di quella bellezza li,
di quelle bellezze eteree,
sofisticate,
un po’alla moda e un po’sovversive,
in tre parole francesi e con le labbra carnose.
Non ho notato niente di particolare nella sua prestazione
e se ci fossero dei problemi sarebbero imputabili alla sceneggiatura piuttosto che all’interpretazione.
È sufficientemente brava nella forma in cui la sua bravura si misura in proporzione alla sua naturalezza
e a me lei è sembrata molto naturale;
fa poco e questo mi piace e mi basta.

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(c) Lorenzo Bechi, filmsolo 2015

E adesso finalmente parliamo di morte.
“L’attesa” è un film che parla di morte,
parla di elaborazione del lutto,
parla della perdita di un figlio,
parla dell’essere umano dinanzi alla morte,
alla morte di un altro,
alla morte di un figlio.
Una cosa su tutte:
il film nel suo parlar di morte riesce a farlo con grazia e con garbo.
La morte è taciuta,
non la si vede accadere,
non si calca la mano sul ricordo di chi se ne va,
non ci sono cordoglio,
condoglianze e disperazione.
La morte è quanto mai evocata nelle conseguenze,
nei segni che lascia sul volto e nei gesti di Juliette Binoche.
Il soggetto e la struttura stessa del film sono pensati per lavorare sulla morte in modo raffinato ed evocativo:
lo stratagemma di costruire il film sulla menzogna rappresenta esso stesso la negazione della morte
e quindi il suo stesso celarsi
e quindi ancora una volta,
il suo manifestarsi nei resti,
nelle conseguenze di un’emozione sofferta.
Anche nelle scene finali,
nel sogno della Binoche,
quando il figlio compare e ritorna,
lui stesso è evocato e impalpabile,
con grazia e maestria il regista lo inscena evocandolo e basta,
non mostra mai il volto del ragazzo scomparso.
Il film è costruito interamente sul tema della perdita:
Juliette Binoche non accetta la perdita del figlio e quindi la nega?
Jiuliette Binoche nega la morte del figlio al cospetto della giovane Jeanne per preservare almeno lei da un così grande dolore?
Juliette Binoche non ha la forza e le risorse per potere gestire anche il dolore di un altro?
Juliette Binoche cerca di far rivivere il figlio perduto per qualche attimo ancora attraverso gli occhi e le labbra della giovane donna?
Non lo so.
Come in precedenza direi che le risposte sono valide tutte.
Resta il fatto che alcune cose di questo film le capisco altre un po’meno:
capisco mentire e negare,
non capisco restare e aspettare.
Perché questa bella ragazza non se ne torna a casa sua quando al posto del fidanzato trova un funerale?
Perché rimane più giorni con una donna psichicamente provata e senza risposte dal ragazzo scomparso?
Non lo so.
E chiedo perdono.
Queste domande non si pongono a un film,
è la sua interezza che ci deve interessare,
non si deve applicare a un film una logica nostra e stringente per farci tornare le cose.
È sempre un delitto cercar di capire sia esso “L’attesa”, Tarkovskij, il cinema di Lynch o al cospetto di un’opera d’arte moderna.
Dunque non mi faccio domande ma osservo e rifletto.
Lo strazio di cui si racconta nel film attraversa una sola dimensione:
tutta l’opera è costruita su un’unica tensione e cioè quella che prima o poi la ragazza scopra che il suo fidanzato è venuto a mancare.
È troppo poco.
È tutto troppo piatto.
È monodimensionale.
Mancano le possibilità dei cambi repentini,
dei colpi di scena e degli scarti di lato.
Ci sono dei momenti nei quali lo spettatore viene fregato e stupito
ma sono piccole cose,
piccoli cambi rispetto all’unico gancio che traina l’intero film.
Lo spettatore aspetta per cento minuti che la giovane donna scopra la morte.
La giovane donna aspetta per cento minuti che il suo ragazzo faccia ritorno ma ciò che realmente la attende non sa.

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(c) Lorenzo Bechi, filmsolo 2015

Il film è finito.
Alcune donne dopo l’attesa sono riverse in un pianto di plastica.
Adesso non piove ma minaccia di farlo.
Cammino e osservo le bici degli altri.
Quante bici ci sono come la mia.
Chissà dove si trova il paradiso delle mie biciclette?
Chissà se c’è il sole,
se piove o minaccia di farlo?
Chissà se in quei posti ci sono stagioni,
i treni e le ragazze francesi?
Chissà se è già autunno
e se la mia povera bici ha perso le foglie o aspetta che cadano?

Veniamo alle pagelle:
Due pallette
Tre stellette.
È un sei più per il vecchio Messina.

Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)