Recensione dal mio bagno – “Louisiana”

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Qua si parla di Louisiana, ma dalle nostre parti non ce la passiamo meglio.

“Louisiana”
di Roberto Minervini
Sceneggiatura: Roberto Minervini, Denise Ping Lee, Diego Romero
Fotografia: Diego Romero
Montaggio: Marie Helene Dozo
Con: Mark Kelley, Lisa Allen, James Lee Miller
Prodotto da: Okta Film

È poco dopo l’alba.
Ventinove giugno duemilaquindici.
Sono le cinque e quarantasette.
Fa caldo.
Mio figlio urla,
ha fame,
preparo il biberon.
Ho le finestre spalancate nella speranza che entri un po’d’aria.
Fresca magari.
Niente da fare.
Quando mi sveglio presto al mattino e non sono particolarmente frastornato sono felice.
Mi fingo uno sportivo,
un uomo d’azione,
uno di quelli che cavalca le onde,
che scala montagne,
uno di quelli che si permettono colazioni abbondanti,
i capelli biondi bruciati dal sole,
le infradito in ogni stagione
e una vita in Austalia,
un’altra in Sud Africa,
oppure a Livorno.
Invece no.
Sono scalzo,
bevo il Danacol,
faccio un caffè
e ho mal di testa.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Sono le sette e venti e sono nel mio studio.
Il mio studio è una mansarda.
Al di sotto del tetto.
Ci sono una scrivania con due schermi e un computer, 
una lampada alogena,
una da tavolo,
una libreria in legno ed acciaio,
un armadio incassato nel muro,
una bici invecchiata che dondola su un cassettone,
alcune cose ordinate sul tavolo,
un posacenere con disegnato un giglio rosso bordato di oro che mi ha regalato il mio amico Giovanni,
alcuni accendini,
dei libri prestati, 
alcuni post it,
il mio astuccio nuovo,
un quaderno gigante,
un pacchetto di Marlboro light,
due penne uni ball eye,
un ventilatore d’acciaio.
C’è anche una finestra sul tetto,
modello Velux,
me l’ha montata un operaio di Rio de Janeiro,
logorroico e felice,
mi ha detto più volte:
”Stai tranquillo e sereno,
a detta di tutti, 
queste finestre sono le Ferrari degli infissi”.
Nessuna presenza dell’aria condizionata.
Il risultato è che si muore di caldo.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Inizio a guardare “Louisiana”,
l’ultimo film di Roberto Minervini,
da dietro la mia scrivania.
Roberto Minervini chi è?
Roberto Minervini è un regista,
è abbastanza giovane,
meno di me
ed era anche a Cannes,
peccato che se lo siano scordato quasi tutti per cantare peana ai tre arceri nostrani (SorrentinoMorettiGarrone).
forse perchè non in gara per la palma dorata
ma bensì nella sezione “Un Certain Regard” riservata al cinema un po’più di ricerca
e con meno milioni,
forse perché il suo cinema manco da lungi parla d’Italia,
non è fatto in Italia
e non usa codici e strutture d’Italia.
Infatti Minervini gira il mondo,
finisce in America,
gira in America,
gira da solo con la macchina a spalla,
la presa diretta,
trasuda realtà,
lavora sui volti e sui luoghi,
racconta,
come in quest’ultimo film,
frammenti di vite rurali,
disperati e fanatici,
ci parla d’America,
di quella marginale e nascosta.
Poi a Cannes c’era anche un altro italiano,
Fulvio Risoleo,
un ragazzo di ventiquattro anni che con il suo cortometraggio “Varicella” è stato l’unico a portarsi a casa un premiuccio,
il “Prix Découverte Sony CineAlta”,
alla faccia dei SorrentinoMorettiGarrone e dei loro abiti lucidi sulla Croisette.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Il film lo guardo col mio fedele portatile,
lo collego a uno schermo di larghe vedute.
Avrei anche un altro computer ma non lo so usare.
Lo vedo su un sito online di quelli legali al quale non pago il canone da circa due anni.
Strano!
Come è possibile?
Mistero.
Comunque sono felice,
al cinema non si trova già più
e io quando è uscito
ero al mare nella profonda Maremma
dove al cinema sotto le stelle non davano certo “Louisiana”.
Anzi il cinema era chiuso e apriva,
se apriva,
ad agosto.
Chissà cosa c’è al posto del cinema quando il cinema è chiuso?
Troppa salita per andare a vedere.
Odio guardare i film al di fuori dei cinema,
odio guardare i film dietro a un computer,
odio guardarli alla tv.
Fa molto caldo.
Il ventilatore ruggisce.
Voli di cenere.
Maledizione.
Mi distraggo facilmente e faccio molta fatica,
poi al computer non si vede mai bene,
il telefono è acceso,
a volte guardi pure le mail.
E poi una cosa è il cinema e una cosa è uno schermo su un tavolo,
una cosa il buio in sala e le altre persone,
magari le vecchie,
una cosa la scrivania, il caldo e la luce,
il ventilatore.
E’ diverso.
Menomale comunque che questo film possa passare sui portali on line ricavando speriamo almeno due lire
invece di sparire per sempre dopo qualche presenza in un paio di sale e restando con in mano un pugno di mosche.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Il film è un documentario,
anzi è un film,
anzi è cinema della realtà.
Quando parli con le capre che parlano
e gli parli di “documentario”
le loro piccole menti subito corrono a Piero Angela e i Babilonesi,
chissà come hanno fatto gli Egizi a costruire piramidi,
il lemure gigante amico di un Panda cinese
e il lucertolone del Sudan che sta scomparendo.
Quindi chiamiamolo cinema della realtà,
anzi film.
Salviamo capre e cavoli.

Siamo,
come ben potrete immaginare dal titolo,
in Louisiana,
estremo sud degli Stati Uniti d’America.
Siamo in America.
Si racconta uno spaccato d’America.
Il film è diviso in modo netto in due parti:
la prima racconta la vita di Mark,
un tossico dal cuore doro,
diviso tra la compagna Lisa,
anche lei tossica,
l’amore per la madre malata di cancro,
la nonna molto vecchia che balla musica country,
lo spaccio e la voglia di farla finita col crak che ti mangia la vita.
Unica speranza la galera.
La seconda parte invece,
meno zavattiniana,
meno Dardenne e più distante,
racconta di un gruppo di belve muscolose e tatuate che amano i mitra e la guerra
e che sognano di poter comandare la patria con i bazooka e alla faccia di Obama.  
Poi ci sono:
future madri che si fanno le pere,
nonni ubriachi che insegnano ai nipoti a sopravvivere in guerra,
una natura rigogliosa e selvaggia,
delle case con ruote dove si produce metanfetamina.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Minervini è bravo e muscoloso,
ci racconta con sobrietà e senza giudizio l’America di oggi,
non calca mai la mano nel pietismo
mai nella retorica,
mai ridondante,
la sua macchina da presa scruta invisibile.
Gioca con la luce e con l’ombra,
con lo spirito, i demoni e il caldo che avvolge.
Il suo è un cinema accennato che si racconta con le emozioni dei corpi,
la cinepresa può cogliere l’intimità degli sguardi,
dei corpi segnati,
degl’aghi sotto la pelle.
Ci sono gli umani di Zeitlin che nuotano nelle paludi delle terre selvagge (“Re delle terre selvagge”)
Ci sono la macchina a mano, la luce, lo spirito, i pedinamenti del Malick migliore,
c’è il teleobbiettivo di Kechiche sui corpi (“La vita di Adele”),
il sesso umano e bestiale di Antoine D’Agata (“Atlas” e “ Aka Ana”),
ci sono i fratelli Dardenne,
l’etno-antropologia,
gli amici di Rosi di “Below the sea level”,
c’è il dramma che da solo nasce, cresce e si manifesta davanti la cinepresa,
c’è un piano simbolico che emerge
e forte si staglia.
C’è anche una scena che ho visto già da altre parti:
Mick in canoa nella palude ripreso da dietro come Joaquin Phoenix che nuota in un’altra palude ripreso da dietro (“Io non sono qui”).
Sono due belle scene.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

A prima vista potrebbe sembrare facile prendere per mano lo spettatore e rapirlo,
gli ingredienti ci sono tutti e sono gli stessi abusati in tanta fotografia di reportage.
Ci sono la droga, la disperazione e la violenza (mancano i bambini, che però già c’erano in un suo film precedente ambientato in Texas, “Low tide”);
ma Minervini non è mai ruffiano e quando indugia riesce a farlo con grande naturalezza: ci sono scene dove i tizi si bucano, ci sono fellatio e coiti ortodossi
ma mai ci sentiamo obbligati con la testa sott’acqua,
non aleggia il puzzo che emana chi ti vuole stupire,
scioccare,
stuprare.
Il regista racconta l’America quella lontana da Manhattan, dal ponte di Brooklyn e da Woody Allen
e lo fa libero da assiomi e postulati,
così come nel film precedente “Stop the pounding heart” ci aveva raccontato il Texas rurale nel quale l’adolescenza rigida di una giovane con le sue capre si contrapponeva al rodeo, ai cowboy, alle pistole e alle vacche,
in “Louisiana” contrappone la natura selvaggia e palustre,
la disperazione di coloro che vivono dimenticati da tutti e con le vene finite,
a un gruppo di belve che a colpi di birra, mitra e bazooka vorrebbero sovvertire il potere per farci poi cosa.
Il conflitto c’è
e si vede
e si sente,
da una parte i tossici, distrutti nel fisico  e sventrati nell’anima,
dall’altra dei Rambo giganti che passano i giorni a bucare le auto con i loro fucili mentre quegl’altri pochi metri più in la si bucherellano le braccia, le gambe, il seno e la pancia.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Chissà se Minervini verrà mai a girare in Italia.
Speriamo di no,
almeno per lui.
Chissà se in Italia ce ne sono di storie:
bestioni armati di mitra che vogliono sovvertire il potere,
disperati senza le vene,
nonni ubriachi,
nonne che ballano,
mamme eroinomani.
Credo proprio di sì.
Non è che dalle nostre parti ce la passiamo poi meglio.

Sono le sei.
Mi gira la testa.
Fa un caldo bestiale.
Sono scalzo e in mutande.
Vado a bere una birra in salotto,
faccio finta di avere una casa con ruote,
una pistola gigante,
la mia donna è una spogliarellista e si chiama Blue Bell,
ho combattuto anche in Vietnam,
ho gli stivali col tacco e un cappello calato sugl’occhi.

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Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Veniamo alle pagelle:
cinque pallette
quattro stellette
E’ un bell’otto per il nostro Minervini


Di Lorenzo Bechi