Recensione dal mio bagno – “Mia madre”

“Mia madre”
di Nanni Moretti
Sceneggiatura di: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Clelio Benevento
Con: Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turturro
Prodotto da: Nanni Moretti e Domenico Procacci

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Dal film “mimancachiunque” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Sono nel mio bagno.
Sono le quattro e zero cinque.
Di notte.
Tra poco dovrò uscire.
Dal bagno.
Devo dormire.
Ho bisogno di riposo.
Mi sono svegliato alle due e venti.
Avevo caldo.
Ho fumato una sigaretta.
Due sigarette.
Guardato cose inutili su internet.
Tipo:
3bmeteo.com,
facebook.com,
gmail.com,
fiorentina.it.
repubblica.it,
casa.it,
immobiliare.it,
attico.it,
trovit.it,
kijiji.it.
Quando non so cosa fare guardo le case in vendita.
Lo faccio più volte al giorno,
anche in vacanza,
anche all’estero,
lo faccio sempre.
Le cerco a Firenze,
la città nella quale vivo,
le cerco in campagna,
a Milano,
in montagna,
al mare,
a Roma,
in val D’Orcia,
all’Abetone,
Selva di Val Gardena,
Madonna di Campiglio,
Brunico,
Vipiteno,
Canazei,
Ortisei,
Zermatt,
Bosco Gurin,
in Maremma,
Sardegna,
Grecia isole comprese,
Pietrasanta,
Parigi,
lago Thaoe,
San Francisco,
Anchorage,
San Pietroburgo,
San Casciano val di Pesa,
Tokyo e New York.
Mi piace cercare le case,
sognare le case,
guardare le case,
misurare le case,
inventarle,
valutarne il costo al metro quadro.
Sono ossessionato dalle case,
cercarle mi tranquillizza,
mi rilasso così,
che ci posso fare?
L’importante è avere delle strategie,
delle armi con le quali combattere l’ansia,
se poi d’ansia non si soffre meglio così.
Da bambino facevo la stessa cosa con le auto.
Mi facevo comprare “Quattroruote”e sapevo tutto di tutte le macchine in commercio. Nuotavo con gioia nel listino prezzi del nuovo e dell’usato in fondo alla rivista.
Il mio paradiso.
Da bambino le auto,
da adulto le case
e quando sarò vecchio?
Città,
nazioni,
continenti,
poi prima di morire i pianeti,
la tettonica a placche,
la deriva dei continenti,
ma cosa c’entrano?
Niente.
Le isole erano montagne prima di essere isole.
Eravamo una sorta di unico grande continente,
poi ci siamo allontanati,
un po’ come nell’amore,
un po’ come con gli amici,
menomale,
così siamo diversi,
ci possiamo scambiare informazioni e individuarci.


“Eravamo una sorta di unico grande continente, poi ci siamo allontanati, un po’ come nell’amore, un po’ come con gli amici, menomale, così siamo diversi, ci possiamo scambiare informazioni e individuarci.”


Questo è tutto quello che so sulla deriva dei continenti.
Della tettonica a placche non ricordo niente,
anche se feci una bellissima figura all’esame di maturità arrampicandomi sugli specchi e farneticando più o meno robe del tipo che la crosta terrestre si poggia su un numero definito di placche che non sono per niente stabili…
Passiamo a matematica.
Avremo sempre meno isole e più montagne e meno acqua?
Sì ma in che percentuale?
Avremo sempre più isole e meno montagne ma comunque meno acqua?
Sì ma in che percentuale?
Non ne ho idea.

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Dal film “Somewhere at the end of the world” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

I numeri sono importanti permettono la definizione.
Noi comunque prima o poi andremo in cielo,
sottoterra,
saremo cenere nel vento,
nel mare
e cosa faremo?
Niente.
Non faremo più niente.
In numeri?
Zero.
Finalmente.
Morire sarà semplicemente diventare zero,
un valore assoluto,
sarà smettere di fare delle cose e lasciarne delle altre,
tipo la casa nella quale abitavi,
l’auto che ti portava a lavoro,
la città nella quale vivevi,
la nazione,
il mondo,
la terra,
la placca tettonica sulla quale hai camminato.
Beh poi ci sono i legami umani.
Ma in questo caso il problema è per chi rimane che a differenza di una casa,
di un’auto o di una placca tettonica,
parla,
ama,
pensa e soffre.
Fino a prova contraria.
Anzi no.
Le emozioni sono biochimica dunque matematica,
numeri,
quindi definite e definibili.
Sembra quasi un ragionamento di qualcuno che è distante anni luce dall’ansia,
un positivista del duemila,
un razionalista
e invece no.


“Le emozioni sono biochimica dunque matematica, numeri, quindi definite e definibili. Sembra quasi un ragionamento di qualcuno che è distante anni luce dall’ansia, un positivista del duemila, un razionalista e invece no.”


L’ansia è un terrore generalizzato e irrazionale dell’accadimento di qualcosa,
della perdita di qualcosa,
dell’essere impreparato alla perdita di qualcosa,
dunque del manifestarsi di qualcosa che qualcuno se lo aspetti o meno.
L’ansia è in definitiva la sorpresa o meglio l’accadere,
la prefigurazione del futuro e dunque la vita;
che poi sono una parte dell’altra.
“Mia madre” di Nanni Moretti è un film sull’ansia,
come quasi tutti i film di Nanni Moretti.
Infatti parla di morte,
che è anche vita,
qualcosa che deve necessariamente accadere,
la prefigurazione del futuro e la negazione di esso.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Ma ancora,
essendo io un ansioso di prim’ordine,
non ho voglia di parlarvi di questo film adesso
per il semplice motivo che ho paura di morire da un momento all’altro e quindi non poter dire delle cose alle quali tengo molto di più che all’ennesimo film di Moretti.
Tipo:
– vorrei scrivere un libro/girare un film dal titolo “Io sono un pellerossa”
– Scalare una montagna (tipo Everest, K2 o robe simili)
– Andare in Argentina
– Avere come amico un San Bernardo
– Essere un cowboy per alcuni mesi
-T irare l’ultimo rigore alla finale dei mondiali
Stop.
Il mio amico Mattia mi dice che parlo sempre di morte,
credo abbia ragione.
Sono un ansioso e la morte è l’amante prediletta di ogni ansioso.
Ma lasciamo per un attimo da parte l’ansia,
e questa tra l’altro è già di per se stessa una contraddizione,
e parliamo un po’ di morte.
La morte è l’unica cosa che è sicura di essere,
esistere,
accadere.
Certo c’è anche la nascita,
ma questa uno semplicemente in quanto non essendoci non può aspettarla,
attenderla,
dunque non può neppure porla in essere e immaginarla.
Può essere pensata solo da terzi
e dunque divenire fonte di ansia solo per gli altri,
coloro i quali si trovano già nella possibilità di prefigurarsi il futuro,
il pericolo:
i futuri padri,
le future madri
i futuri nonni,
e quindi non vale.
Non gli amici che ancora non ti conoscono e forse manco esistono
e se esistono per il momento non dovrebbero essere ancora ansiosi
(eccezion fatta per alcuni casi clinici riscontrati di sindrome ansiosa generalizzata del neonato)
Dunque la morte ha senso perché assume senso nell’ansia di vivere,
mentre la nascita è estremamente sopravvalutata,
un po’ come la bellezza come direbbe un mio amico
e al contrario dell’acqua come direi io,
che è molto sottovalutata da noi giovani.

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Dal film “Somewhere at the end of the world” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Altre cose che ho fatto stanotte prima di entrare in bagno:
Ho spiato quelli che dormono con la finestra aperta davanti al mio soggiorno.
Non c’era nessuno.
Non si vedeva niente o meglio poco.
Solo una finestra semiaperta e uno spiraglio di luce intermittente.
Dopo qualche secondo il miracolo:
accade ciò che speravo,
cade l’accaduto,
quando una cosa la vuoi a volte succede,
accade,
cade,
se vogliamo anche questa è ansia ma è anche la legge dei grandi numeri,
che sembra una cazzata,
ma in realtà è matematica,
statistica,
calcolo delle probabilità.
Compare una ragazza,
una donna,
illuminata a intermittenza da un fascio di luce,
forse la televisione accesa,
forse,
che ne so,
nuda?
Non riesco a vederlo.
Mi nascondo dietro la persiana col timore di essere visto,
provo a usare il vetro come specchio per spiare,
spero sia nuda,
non riesco ancora a vedere,
mi affaccio di nuovo per guardare,
tutto chiuso,
non c’è più nessuno.
Penso al cinema,
un bel pezzo di cinema si fonda sul guardare, vedere,
spiare.
Ci sono alcuni film,
tanti film,
che parlano di questo.
È un genere anzi un sottogenere di un sottogenere.
È un tipo di meta-cinema,
di cinema nel cinema,
o forse é possibile chiamarlo semplicemente il cinema voyeur.
Un cinema che mette in scena l’azione stessa dello spettatore,
guardare, vedere e spiare.
Penso al filone dei film voyeuristici e mi vengono in mente su tutti subito due film, chissà perché proprio loro:
“La finestra sul cortile” di Hitchcock (1954)
e “Bianca” di Nanni Moretti (1984) appunto,
due film molto diversi tra loro,
imparagonabili,
ma che parlano entrambi di quel qualcosa che anima il cinema,
guardare,
vedere,
immaginare,
evocare,
spiare.
Bevo dell’acqua.
Bevo ancora dell’acqua.
L’acqua è sottovalutata da noi giovani.
È adesso che mi chiudo nel mio bagno.
Eccomi.

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Dal film “Halibut” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Mi sto guardando allo specchio.
Sto invecchiando e perdendo capelli senza che nessuno se ne accorga.
Lo so solo io,
non è che gli altri non me lo dicono per non essere scortesi
è che non se ne accorgono.
Gli altri non si accorgono di molte cose,
o se ne accorgono e non gliene importa un tubo e quindi è uguale
perchè quando ti accorgi di una cosa ma non te ne frega niente è come se la guardi ma non la vedi,
diciamo per semplificare che le persone tendono ad accorgersi solo di ciò che rientra nella sfera del loro diretto beneficio e tagliamo la testa al toro.
Il mio amico Mattia quando avevamo sedici anni mi diceva sempre una cosa illuminante oltre al fatto che parlo solo di morte:”le persone fanno cagare”,
secondo me aveva molta ragione,
chissà se lo pensa ancora oggi lui che è uno scienziato matto
mentre apre il cervello ai topolini per misurare quanto sono ansiosi?
Sono un quasi stempiato.
Soprattutto a destra.
Pelato starò molto male,
ho le orecchie non a sventola ma un po’a punta e all’infuori verso la vetta,
tipo Spock, quello di Star Trek,
e poi soprattutto mi manca un pezzo di testa,
nel senso che la mia testa non è solo piccola ma gli manca proprio il pezzo di dietro,
come dire…la rotondità posteriore;
a un certo punto c’è un taglio netto,
scosceso e verticale,
sono piatto dietro insomma,
“testa piatta” si dice,
sembro un basso rilievo,
un essere bidimensionale,
per fortuna che il mio amico Mattia mi ha detto che questo non ha alcuna correlazione con eventuali deficit delle capacità mentali.
Ora mi faccio una foto di profilo per valutare la piattezza del mio cranio,
non un selfie,
un meta-selfie,
neppure,
insomma mi faccio una foto allo specchio,
proprio come il cinema nel cinema o il cinema voyeur.
Guardo altrove,
cerco l’espressione migliore,
click.
Sono belle le fotografie nei bagni e dei bagni
anche quando i bagni sono brutti,
anzi più sono brutti più sono belle le fotografie che ci scatti.
Ci vogliono bagni bianchi,
sporchi,
poveri,
e possibilmente sudici,
se poi ci infili uno in vasca che si taglia le vene (parlo sempre di morte)
o uno seduto sul water a petto nudo con la cintura tra i denti che si fa una pera ancora meglio.
Larry Clark ha fatto un sacco di belle fotografie nei bagni.
E ha girato anche diversi film.
Lui è uno tosto,
lavora con gli adolescenti,
racconta storie di marginalità,
la sessualità tra i giovani,
la droga,
l’AIDS,
la provincia americana,
insomma tutto quello che funziona nel cinema indipendente e nella fotografia di reportage.
Non c’entra nulla manco lui con Nanni Moretti e col suo nuovo film ma c’entra con i bagni e io per definizione mi occupo di bagni.
Amen.

Tiro lo sciacquone con cautela in modo che nessuno si svegli.
Adesso torno a letto.
La porta cigola.
Dormono tutti,
Passo felpato.
Sono un mago a non emettere suoni e rumori e a scomparire nel buio,
è sempre stata una delle mie tante ossessioni come:
i serpenti, il pesce, le case, le auto, il contare.
Devo trovare una bottiglia d’acqua accanto a letto e fare attenzione a non rovesciarla, ogni minimo errore potrebbe essere fatale al mio silenzio artificiale.
Devo bere e trovare un po’ di sonno.
Bevo.
Bevo ancora.
L’acqua è sottovalutata da noi giovani mi ripeto.
Non ho sonno.
Buonanotte.
A domani.

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Dal film “Bathrooms” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Un novo giorno,
una buona colazione a base di un paio di biscotti al niente,
centodue flessioni,
dei buoni propositi.
Ho guardato ”Mia madre”di Nanni Moretti in biblioteca,
alle Oblate di Firenze,
un bel posto,
di quelli che sembrano il nord Europa ma sei in Italia
e infatti a tratti sembra anche un po’ la Somalia.
Lo guardo dal mio computer come sempre più spesso mi accade ultimamente.
Le auricolari nelle orecchie.
Il film sta iniziando e penso:
Quante volte ho scritto alla Sacher Film di Nanni Moretti e del suo ex socio Angelo Barbagallo?
Quante al loro cinema omonimo nel cuore di Trastevere?
In una delle tante mail che gli ho scritto cercando invano qualche proiezione per i miei film confessai pure il mio amore per la Sachertorte ma evidentemente non fu sufficiente per avere la loro attenzione.
Mi avessero risposto una volta.
Nessuno risponde mai a nessuno in questo mondo cattivo,
figuriamoci Nanni Moretti.
Chissà quali turbe si scatenano in lui quando legge,
vede, ascolta qualcosa d’altri?
È un uomo turbato.
È un uomo competitivo.
È un uomo noioso.
È un uomo che ha un pregio.
È un autore.
Riesce a imprimere un marchio sui suoi film tale che
non penseresti mai che potrebbero essere di nessun altro,
e questo è un valore.
Arriviamo al film.
Ma perché hanno preso John Torturro a fare questo film?
Boh.
Un grande boh.
Adesso mi sto annoiando quindi parto spedito.
Il film è scritto male,
è scritto forte,
è scritto troppo,
le immagini sono al servizio delle parole,
sono serve,
le immagini servono solo a contenere le parole,
le parole sono sopra le immagini.
Tutti i personaggi sono Nanni Moretti,
un mondo popolato di Nanni Moretti:
c’è Nanni Moretti madre,
Nanni Moretti sorella e regista,
Nanni Moretti fratello che lascia il lavoro,
Nanni Moretti amante e attore,
c’è Nanni Moretti ex marito.
Cosa sarebbe un mondo popolato da tanti Nanni Moretti che fanno mestieri e hanno ruoli diversi?
Sarebbe un inferno,
ecco cosa sarebbe.
Provate a immaginare.
Il Nanni Moretti vigile urbano con il quale discutere di una multa,
il Nanni Moretti medico che fa la sua diagnosi,
il Nanni Moretti professore di tecnica che vi dice che vostro figlio non sa manco tenere in mano un righello,
il Nanni Moretti cuoco anzi pasticcere ciccione,
il Nanni Moretti che ti da lo skilift e parla ladino,
il Nanni Moretti allo sportello bancario che si lecca le dita per contare i soldi con gli occhiali in punta di naso,
quello pompiere che rimpiange di non essere rispettato in Italia quanto in America,
il tassista pieno di gadget,
l’arbitro inflessibile che fischia impostato,
il dentista all’avanguardia che spiega ogni mossa del trapano,
l’architetto inflessibile,
il bibliotecario ossessionato dai gialli,
il badante emotivo,
il cameriere che quello purtroppo lo abbiamo finito,
il dog sitter che parla coi cani e li capisce davvero…
Tremendo.
Le parole,
i pensieri,
le seghe mentali di Nanni Moretti invadono il testo,
la sceneggiatura.
Il suo modo personale di ragionar parlando deborda dalle bocche dei suoi personaggi e mi irrita,
soprattutto quando mette se stesso nella bocca degli altri.

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Dal film “mimancachiunque” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Il film ha una storia e la storia è abbastanza facile da raccontare,
ci provo:
Margherita Buy è Nanni Moretti,
infatti fa la regista.
Nanni Moretti è il fratello di Margherita Buy
e non si capisce cosa faccia.
Dunque Nanni Moretti fa il fratello di se stesso
e la loro mamma,
dunque la sua,
sta morendo.
Margherita Buy sta girando un film con un attore americano beota che è un beota e fa il beota.
Poi la mamma muore.
FINE.
Risulta evidente che siamo per l’ennesima volta di fronte a un film di Nanni Moretti dove ci sono dei personaggi inutili
e così ancora una volta la vecchia legge del come si fa del buon cinema se ne va a quel paese,
ovvero quella regola secondo la quale
“tutto deve servire a qualcosa e se non serve fanne a meno”.
A cosa serve Turturro che fa il beota per un’ora e quaranta?
A niente.
Serve a far ridere chi?
Nessuno.
Forse l’attore di risonanza internazionale serve a far impennare gli incassi al botteghino?
Non credo,
non ho mai sentito nessuno dire:”vado a vedere l’ultimo di Turturro”.
Forse il motivo della sua presenza è rintracciabile in un futuro lancio del film in America?
Non scherziamo.
Serve a fare da contrappunto alla dimensione tragica dell’ansia,
della perdita,
della morte,
che poi sono una parte dell’altra?
Se serve a questo non funziona.
Serve a ingrassare il personaggio di Margherita Buy?
Il transfert e il controtransfert del rapporto attore-regista sono messi in scena per raccontare meglio la dimensione psicologica della protagonista?
Sì, forse serve a questo ma ho delle perplessità in merito.
Quando a un personaggio serve un altro personaggio per stare in piedi vuol dire che il primo personaggio (scusate il gioco di parole) è un po’ debole,
e se il primo personaggio è anche il protagonista del film nonché la diretta emanazione con la gonna dello stesso regista,
allora il problema è evidente.


“Quando a un personaggio serve un altro personaggio per stare in piedi vuol dire che il primo personaggio (scusate il gioco di parole) è un po’ debole.”


A cosa serve il personaggio di Nanni Moretti che fa il fratello di se stesso?
A niente,
se non a sottolineare la trovata faticosa dell’autore di mettere in scena se stesso attraverso un personaggio femminile.
Del tipo io ti sembro questo personaggio che ha la mia faccia e i miei abiti ma in realtà sono lei,
che guarda un po’ fa il mio stesso lavoro e parla come me.
È forse una sorta di boutade?
Chi può dirlo?
Chissà…
La trovata risulta comunque faticosa già di partenza
e lo è ancora di più se quella parte femminile che metti in scena fa la regista,
ha i tuoi stessi problemi nella vita e sul lavoro.
Insomma tutto ciò risulta ancor più faticoso se l’unico scarto tra te e il personaggio che metti in scena per rappresentarti è l’essere di un altro sesso.
Forse volevi mettere in scena la tua parte femminile?
Non mi pare.
Ah e poi serve a far fare un ruolo a Nanni Moretti.
Ci mancherebbe,
che nelle vesti di questo personaggio inutile fa un se stesso incolore,
privo di senso e vagamente assorto nella rassegnazione della perdita.
Un personaggio maturo e al di sopra di tutto,
grigio,
inconsistente e quasi invisibile.
Forse questo è tutto quello che sogna di essere Nanni quando si accorge di risultare ingombrante,
debordante,
eccessivamente presente anche a se stesso.
Questa è un’idea.
Chissà?
Nanni Moretti dunque non si capisce bene cosa faccia,
anzi proprio cosa ci stia a fare nel film.
Ha lasciato un lavoro per badare alla madre malata e ogni tanto parla con la sorella che poi è se stesso.
Resta che il suo personaggio non ha alcun peso e alcun senso.
In altre parole non serve a un tubo ed era eliminabile così come specularmente era accaduto in Habemus Papam (Nanni Moretti, 2011) per il personaggio di Margherita Buy che interpreta la moglie di Nanni anche lei come lui psicanalista.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO

Due parole su Margherita Buy.
Io non so se sia colpa sua o di chi la dirige o ancora di chi scrive i personaggi che lei interpreta.
Non lo so.
Fatto sta che quando recita in un film di Verdone fa Verdone,
quando recita in un film di Moretti fa Moretti
e io questa cosa la detesto,
detesto chi parla per bocca d’altri sia nella finzione quanto nella realtà.
Rendi tuo il personaggio,
masticalo, digeriscilo e fallo tuo,
sia questo il cinema, il teatro o la vita.
“Mia madre” è un film che non si sente bene.
Non nel senso che sia un film ammalato
ma nel senso che è un film con un audio pessimo.
Non so se le mie auricolari siano prodigiose,
non credo,
fatto sta che nel film ho notato dei bruschi abbassamenti dell’audio d’ambiente ogni qual volta che un attore parla per poi rialzarlo nelle pause dei dialoghi,
con il risultato della distruzione o meglio della materializzazione del meccanismo della finzione,
cosa che rende il film,
le scene,
i dialoghi,
i sospiri,
artificiosi e artificiali.
In due parole poco credibili.
A causa di questo e non solo,
non sono mai riuscito ad entrare dentro la storia,
a coinvolgermi, immedesimarmi,
ma solo a fare alcune riflessioni a posteriori
e questo credo non sia bello per un film che a mio modo di vedere deve vivere prima, durante e dopo la visione.
Ho sentito per la prima volta della musica in un film di Moretti.
Non che negli altri non ci sia ma in questo l’ho sentita,
l’ho notata,
l’ho trovata ingombrante e mal gestita,
nonostante gli stratagemmi utilizzati per dissimularla nel farla passare dall’extra diegetico al diegetico con trovate banali quali quella di qualcuno che spegne quello stereo dal quale si scopre provenire la musica.
C’è una scena di ballo.
Mi ha fatto ridere.
Io amo le scene di ballo con o senza musica.
In quella scena Turturro molla tutto,
molla la maschera di attore e improvvisa e si abbandona.
Il risultato è di qualcosa che funziona,
un po’ perché Turturro come me ha delle evidenti doti danzerecce,
un po’ perché nel cinema come nella vita,
che poi sono uno parte dell’altra,
i momenti di abbandono sono quelli che contano.
“Mia madre” è anche un film sul cinema.
Parliamo di nuovo di cinema nel cinema o meglio di meta-cinema,
che come detto in precedenza è un vero e proprio genere anzi un sottogenere,
ma anche un vizio di forma e un complesso,
un desiderio fragile,
una sega gigante,
la voglia di noi addetti ai lavori di dire qualcosa quando siamo a corto di idee e quindi parlare di noi stessi (ma perché dover per forza dire qualcosa? Ansia di non esistere per gli altri, dunque morire!) .
È il desiderio megalomane di raccontare quello che facciamo,
che ci sembra tanto grande da trovare incredibile quel menefreghismo che circonda il nostro fare quotidiano che crediamo irresistibile e unico.
Ma ripeto ancora una volta a nessuno frega niente di nessuno,
viviamo in un mondo cattivo,
figuriamoci a chi interessa delle professioni altrui,
tantomeno se hai la fortuna di passare il tuo tempo a ragionar di campi lunghi, “fegatelli”, profondità di campo, conflitti e trasfocature.
Il cineasta parla di cinema quando ha bisogno di colmare un’ansia da prestazione: “…anche io lavoro, anche io soffro, datemi rispetto e ponetemi in essere…come tu fai il fioraio e puoi dire di essere un fioraio e gli altri ti chiamano fioraio anche io faccio il regista, posso dire di essere un regista e voglio che gli altri mi chiamino regista…”.
Torniamo al cinema nel cinema che è meglio.
Il cinema che è una lente,
cornea,
pupilla,
iride,
coni e bastoncelli,
spia dal buco della serratura e facendosi meta diventa specchio di se stesso.
Quindi narciso,
vanitoso e autoreferenziale.
Tanto più quando la realtà e la rappresentazione di essa si mischiano senza fondersi e i volti diventano maschera, i corpi marionette e il regista burattinaio.
Che dire?
È un gioco psicanalitico,
delle parti e degli specchi,
è materia fragile,
c’è bisogno del bisturi,
dell’anestesista, del lettino e magari anche dell’interpretazione dei sogni.
È difficile fare bene col cinema nel cinema come lo è difficile col suicidio (parlo di cinema e come sempre anche di morte).
È una narrativa banale.
È filosofia spicciola,
facile,
e quindi antipatica e ridicola,
così come è facile e sbrigativo far morire un personaggio e toglierselo di torno.
A meno che…
A meno che nel cinema dentro il cinema non ci sia la vita e quindi la morte e quindi il suicidio, la tempesta e l’assalto,
che poi sono gli uni parti degli altri.
Chi?
Cosa?
Non lo so.
“Mia madre”oltre ad essere un film sul cinema è un film sull’ansia,
è soprattutto un film sull’ansia.
Il cinema di Moretti è un cinema sull’ansia,
dell’ansia,
non sulla nevrosi ma su una nevrosi,
l’ansia.
A volte verrebbe da pensare che il suo cinema si poggi sulla paranoia ma la paranoia è solo una tra le tante metastasi dell’ansia.
Altri direbbero che è un cinema ossessivo compulsivo
ma siamo sempre in un sottogenere,
pardon,
in una sottocategoria o meglio in un disturbo specifico facente parte della grande famiglia dei disturbi d’ansia.
A tal proposito in questo film ci sono anche delle cose belle,
ci sono delle cose che mi hanno toccato,
ci sono delle cose che mi hanno sfiorato dei fili scoperti.
È importante che un film tocchi dei fili scoperti,
non è fondamentale ma se lo fa non è male.
È inutile negare che il pensiero della morte è principio fondatore del concetto di vita.
È inutile negare che il padre e la madre sono il nostro super ego e in quanto tali il nostro rifugio, l’approdo sicuro e le ombre della nostra esistenza.
È inutile negare che è dinanzi a ciò che svanisce che prendono vita il senno di poi e il senso di colpa.
È inutile negarlo perché viviamo in un mondo,
in un’epoca,
dominati dall’ansia,
anzi dall’ansia negativa,
dall’ansia di perdere quello che non abbiamo ma che vorremmo,
quello che non siamo ma vorremo essere;
siamo ansiosi di perdere la madre non perché la perderemo ma perché non la abbiamo amata abbastanza e non glielo abbiamo mai detto.
Questa è l’ansia negativa,
una cosa che non si legge sui manuali di psichiatria,
una cosa che non esiste e che ho inventato io ora.
“A cosa stai pensando mamma?”
“A domani”
È una chiusa,
è una chiosa,
è retorica,
quella stessa retorica che Moretti dice di odiare attraverso le parole di Margherita Buy.
A me è sembrata una bella chiusa,
una buona retorica,
un buon colpo ad effetto.
Poi io amo le chiuse e le chiose.
Amo i finali e non amo la retorica
ma quelle due battute mi hanno detto qualcosa a differenza di altre.
A proposito di mamme:
la mamma di “Mia madre”,
interpretata da Giulia Lazzarini,
è una mamma ex insegnante e del nord Italia.
Il pensiero corre a Pier Paolo Pasolini e alla sua di mamma,
Susanna,
anche lei insegnante, anche lei del nord Italia.

“…Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…”

(tratto da “Supplica a mia madre” di Pier Paolo Pasolini 25 aprile 1962, pubblicata nella prima edizione del libro “Poesia in forma di rosa” del 1964, nella prima sezione “La Realtà” della quale è la poesia numero quattro).

Veniamo adesso alle pagelle:
Due pallette
Due stellette.
È un cinque più per il vecchio Moretti.

Di Lorenzo Bechi
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