Recensione dal mio bagno – “Ritorno alla vita”

“Ritorno alla vita”
di Wim Wenders
Sceneggiatura di: Bjorn Olaf Johannessenn
Fotografia: Benoit Debie
Montaggio: Toni Froschhammer
Con: James Franco, Charlotte Gainsbourg, Rachel McAdams, Marie Josee Croze
Prodotto da: Neue Road movies

Caro Wim Wenders,
mi chiamo Lorenzo ho trentatré anni
e ti scrivo da un posto molto lontano
dove il vino sgorga dai fiori,
l’acqua scorre sugli alberi,
i pesci son foglie
e le stelle nascon di giorno.
Ti scrivo per farti solo una semplice domanda:
Perché hai fatto quest’ultimo film?
Questa è sempre una buona domanda da porre a un regista
e non ho mai capito perché non sia prassi
porla ogni qualvolta venga presentato un nuovo film.
Ma queste sono solo mie riflessioni.
Perdona la mia digressione e torniamo a noi.
Perché hai fatto quest’ultimo film?
Io che sono un tuo fan,
che sono cresciuto con i tuoi film degli anni ’70 e ’80 e pure ’90,
quelli fotografati da Robbie Muller con il suo bianco e nero che amo e ho amato
come il sole,
più dei pesci,
come il vino.
Quegli stessi film che tre volte su tre erano interpretati da quello strano esempio di maschio tedesco che è Rudriger Vogler.
Io che ho sognato per anni di rifare il tuo capolavoro “Nel corso del tempo” (1976 ). Io che ho amato i tuoi documentari,
gli ultimi e i primi (su tutti “Nick’s movie, lampi sull’acqua”1980).
Io che avrei voluto girare
“Alice nelle città” (1973) ma ancora non c’ero,
“Lo stato delle cose” (1982) ma stavo nascendo,
“Paris Texas” (1984) ma avevo due anni,
“Così lontano così vicino” (1993) e ancora
“The Million Dollar Hotel” (2000) e
“Il sale della terra” (2014)
Io che avrei voluto essere tedesco proprio come te.
Io che avrei voluto avere i tuoi capelli,
i tuoi occhiali e il tuo naso,
io che avrei voluto che i miei film avessero quello stesso bianco e nero che hanno i tuoi e quello stesso bianco e nero che hanno i tuoi capelli ruggenti.
Io che avrei voluto amare il cinema come te,
io che avrei voluto non avere paura di niente come te
e fare un sacco di film strani e di ricerca senza prestare attenzione a quello che dice la gente,
a quello che pensa la gente,
a quello che vuole e che vede la gente.
Ecco,
io che sono anzi non sono tutto questo
ti chiedo: «ma cosa ti passava per la testa,
tra quei capelli bianchi e neri proprio come i tuoi primi film
quando hai deciso che quella sceneggiatura scritta dal giovane Bjorn Olaf Johannessenn sarebbe diventata il tuo ultimo lavoro?»

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015

Come direbbe Sailor (Nicholas Cage) a Lula (Laura Dern) in “Cuore selvaggio” (David Lynch,1990) “il modo in cui funziona la tua testa è uno dei più grandi misteri del creato”
e aggiungerei io,
il modo in cui funzionano anche i tuoi capelli è un grande mistero del creato,
proprio come quelli di David Lynch che infatti sono simili ai tuoi.
Wim questo e quanto,
spero tu possa rispondermi al più presto,
se poi non mi rispondi amen.
Sul retro della busta potrai trovare il mio indirizzo.
Ti ringrazio per la tua gentile attenzione,

un abbraccio grande,
Lorenzo.
Sono ancora al cinema Portico.
Di nuovo.
Sono sempre qui.
Ormai sono di casa.
Ultima fila.
Sono disteso ma seduto.
Stravaccato.
Il proiezionista del cinema qualche giorno fa,
dopo aver letto la mia recensione precedente del film “L’attesa” di Piero Messina
mi ha scritto su Facebook
e per fortuna non si è arrabbiato per tutti gli stupidi commenti che ho fatto sulla sua sala e i vecchi che la abitano,
ma anzi,
dice di aver apprezzato la mia recensione,
eravamo in disaccordo solo rispetto alla Chiesa del “Sacro cuore di Gesù” (accanto al cinema Portico di Firenze) che lui trova bella e io orrenda.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015

Forse ha ragione lui che la guarda tutti i giorni.
Se una cosa la guardi tutti i giorni è un po’ anche tua
e se una cosa è anche tua magari non la conosci meglio
ma hai una certa autorità per parlarne con gli altri.
Non so se è realmente brutta ma so di certo che non è bella.
Chissà Signor Proiezionista se ci incontreremo mai di persona?
Speriamo di sì.
Io sarò quello con l’ombrello di altri tempi.
Lei mi riconoscerà.
Io le darò la mano,
lei mi darà la mano,
ci diremo “piacere”,
lei mi spiegherà i segreti di quella Chiesa moderna e confusa,
io quelli del calcio totale dell’Olanda di Cruijff,
lei mi dirà che del calcio sa tutto e che giocava ala destra,
io le dirò di quando incontrai Conti, Garrincha, Lombardo e Fuser
insieme per mano,
a mangiare il gelato sul porto di Bari guardando le barche.
Solo a quel punto lei mi dirà dei segreti e dell’arte del suo magico e antico lavoro,
di quando il proiezionista nascosto dietro al suo proiettore
per amore del cinema rischiava di saltare per aria o di proiettare un film al contrario.


“Se una cosa la guardi tutti i giorni è un po’ anche tua e se una cosa è anche tua magari non la conosci meglio ma hai una certa autorità per parlarne con gli altri.”


E io capirò.
E dirò che sì,
quella chiesa è anche bella,
sì è bella davvero,
che ho giocato a calcio da giovane ed ero anch’io ala destra e col numero sette,
che l’Olanda di Cruijff,
sì, forse era peggio del Milan di Sacchi
ma anche meglio della Juve di Lippi
e che i film fino a qualche anno fa potevano esplodere e saltare per aria.
Lo raccontava Wim Wenders nel film “Nel corso del tempo” (1976),
ma non lo sanno poi tutti,
un film è di chi lo gira,
di chi lo paga,
di chi lo illumina,
di chi lo monta,
di chi lo guarda ma anche di chi lo proietta.
In molti dimenticano o forse non sanno che proiettare un film è un’arte
e che senza chi di quell’arte dispone il miracolo del cinema mai si sarebbe compiuto.
Del resto proiettare non è così diverso da riprendere,
sono uno parte dell’altro e non a caso nati gemelli e siamesi.
Arrivederci Signor Proiezionista.
Ci vedremo tra qualche giorno “Nel corso del tempo” (Wim Wenders 1976),
quel film è per lei.
E grazie ancora una volta per tutti quei film che nel corso di questi trentatre anni
lei ha illuminato per me.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015

Piove anche oggi.
Nemmeno una bici.
Manco un calesse.
Manco un cavallo.
Il solito ombrello.
Una camicia.
Niente cappello.
Piedi bagnati.
Passo veloce.
Sono un atleta.
Sono un atleta.
Uno scalatore mancato.
No,
sono un cowboy.
Sono un cowboy.
Ho gli speroni.
Un cinturone con le pistole e un fucile.
Devo mettere gli stivali più spesso.
L’ultimo film di Wim Wenders che non c’entra niente con i cowboy è un film in 3d,
come il terz’ultimo (“Pina”, 2011),
e non come il penultimo (“Il sale della terra”, 2014).
Io me lo guardo in 2d un po’ perché annuso che il 3d in questo film non serve a un tubo,
un po’ perché mettermi quegli occhialetti rossi e blu mi provoca un profondo fastidio,
mi stanno sempre grandi e ho il terrore di prendere la congiuntivite e l’orzaiolo.
E poi diciamocelo,
il 3d per me è una gran cavolata.


“Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film funziona di più? Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film ti coinvolge di più? Chi ha mai detto che un film debba essere un’esperienza di coinvolgimento totale? Chi ha mai detto che due dimensioni sono poche e tre sono meglio? Chi ha mai detto che è bello entrar dentro a un film o scansare asteroidi?”


È marketing,
solo marketing.
È spettacolo.
Solo spettacolo
E io non voglio vedere lo spettacolo,
io voglio vedere il cinema.
Fanculo alla spettacolarizzazione di tutto e di tutti.
Fanculo allo show must go on.
Fanculo allo showbitz.
Fanculo allo show.
Fanculo al fumo negl’occhi.
Fanculo all’intrattenimento.
Fanculo agl’occhialetti.
Fanculo i dinosauri e le astronavi.
Abbiamo bisogno di contenuti,
di emozioni e di nuovi linguaggi
non di patatine e cheerleaders.
Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film funziona di più?
Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film ti coinvolge di più?
Chi ha mai detto che un film debba essere un’esperienza di coinvolgimento totale?
Chi ha mai detto che due dimensioni sono poche e tre sono meglio?
Chi ha mai detto che è bello entrar dentro a un film o scansare asteroidi?
Beh qualcuno lo ha detto,
anzi in tanti,
ciò non toglie che io non la penso così
e non solo credo che il cinema sia in due dimensioni perché sono un conservatore
ma soprattutto perché il cinema è vita e morte
e la vita e la morte le vivi in tre, quattro, quattrocentocinquantamila dimensioni
ma le pensi,
le racconti e le ricordi in due.
E quello che conta è ciò che racconti a te stesso di quello che sei e di quello che fai più di quello che realmente sei e fai.
Quindi ancora una volta fanculo.
Calma.
Proverò a dire qualcosa adesso:
l’utilizzo del 3d aveva più senso in “Pina” (2011),
nel quale il suo uso aveva uno scopo ben preciso e cioè quello di sottolineare il dinamismo e la muscolarità dei corpi,
sembra quasi esserci un tentativo da parte di Wenders di far diventare lo spettatore stesso parte della coreografia.
In una parola: un ballerino.
E questa è una cosa che ha senso.
E questa è una legge che nel cinema spesso va a farsi fottere.
Perché usi quella speciale tecnica di ripresa?
Perché usi quel tipo di luce?
Perché metti la macchina da presa proprio li e non da un’altra parte?
Risposta:
Perché per dire quello che voglio dire devo e posso fare solo quello che sto facendo.
Ad esempio:
la macchina da presa deve stare li e non da altre parti,
ogni singola inquadratura di uno stesso soggetto ma da angolature diverse ha un senso e un significato differente.
Non ci devono essere movimenti di macchina,
la macchina a mano esprime una cosa,
la macchina fissa ne esprime un’altra,
il dolly un’altra ancora.
Voglio una luce fredda e di taglio e non un controluce…
Voglio questo perché solo in questo modo posso dire quello che intendo dire.
Questo è un ragionamento cinematografico che ha senso.
Questo è un uso consapevole della grammatica del cinema.
Questo è quello che si definisce linguaggio cinematografico.
A differenza dell’uso spregiudicato e privo di senso di droni,
telecamere volanti,
occhialetti rossi e blu,
terze dimensioni e stady-cam radiocomandate
buttate per aria senza una logica e senza alcuna esigenza narrativa ed espressiva.
E questa si chiama regia.
Devo sapere con quali parole (strumenti tecnici)
dire (mettere in scena) ciò che voglio dire.
Si può essere opulenti,
carichi,
dimostrativi e pacchiani
basta che tutti quegli orpelli abbiano senso di esistere.
Io comunque nel mio piccolo continuo a tifare per la sobrietà,
per i poveri e quelli magri e malmessi.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015

“Ritorno alla vita”(e non “Wim Wenders –Ritorno alla vita-“ come molti chiamano il film su siti web e carta stampata, che detto così sembra un film su Wenders che resuscita) è un film con James Franco e Charlotte Gainsbourg.
Non sapevo cosa aspettarmi.
Non sapevo niente,
tranne appunto chi fosse il regista e quali i due attori protagonisti,
entrambi a mio modo di vedere ormai un po’ troppo sovraesposti
e quando si sovraespone lo si sa,
c’è il rischio di bruciare.


“il cinema è vita e morte e la vita e la morte le vivi in tre, quattro, quattrocentocinquantamila dimensioni ma le pensi, le racconti e le ricordi in due.”


Chissà cosa si è inventato a questo giro il vecchio Wim ho pensato?
Intanto ha presentato il suo film al Festival di Berlino
e si è portato a casa un Orso d’oro alla carriera che male non fa.
Chissà se lo ha messo sopra la mensola del camino in salotto accanto al Leone,
anche lui alla carriera,
con il quale a Venezia nel ’95 lo abbiamo premiato?
Speriamo di sì,
almeno fanno amicizia.
Chissà se ha un camino?
Chi vince tra un orso e un leone?
L’orso senz’ombra di dubbio.
Il film in due parole racconta dodici anni di vita di uno scrittore, James Franco,
che si è rifugiato in mezzo alla neve per ritrovare l’ispirazione perduta.
Un giorno inavvertitamente,
a bordo della sua Jeep Wagooner con inserti in finta radica sulla fiancata,
investe e uccide uno dei due bambini di Charlotte Gainsbourg,
un’illustratrice un po’ triste e sola.
Passano gli anni e James Franco fa i conti con il senso di colpa,
la responsabilità e l’ispirazione,
metabolizza il trauma dell’incidente accaduto
sfogandolo nella scrittura.
Cambia donna,
cambia auto,
scrive tantissimi libri,
si compra una villa,
diventa felice e famoso.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015

L’ultimo film di Wim Wenders è un film inutile?
Credo di sì.
A cosa serve?
A niente.
Che senso ha?
Nessuno.
Magari è un film fatto per essere contemplato,
un film fatto per il cinema?
No.
È un film fatto così tanto per fare?
Potrebbe sembrarlo.
Cosa c’è nel film oltre la storiella dello scrittore?
Il senso di colpa.
Poi?
Una riflessione sull’arte e sulla creazione di essa.
Che senso ha il senso di colpa nella vita moderna?
Nessuno.
Il senso di colpa lo ha inventato la Chiesa cattolica
e questo lo sanno anche i muri.
Il senso di colpa è la più grande delle azioni “paracule” nelle quali siamo soliti nuotare: commettiamo errori che continuiamo a ripetere all’infinito e poi soffriamo per quel che abbiamo deliberatamente commesso.
Il senso di colpa non ha senso, è la colpa ad averne.
Infatti se al senso di colpa togli il senso che cosa rimane?
La colpa.
Il senso di colpa è il male del mondo di oggi.
Il senso di colpa è il male dell’uomo cretino.
Il senso di colpa spesso guida e determina la vita e gli eventi.
Il senso di colpa lasciamolo ai preti.
Grazie al senso di colpa puoi diventare un grande scrittore.

Il film è noioso.
È noiosissimo.
Non ci sono colpi di scena,
non ci sono cambi repentini,
in due parole non succede un tubo:
passano gl’anni.
Si assiste semplicemente al cammino verso il successo di uno scrittore un po’ troppo bello per essere vero, che è riuscito a incanalare il suo senso di colpa e la sua sofferenza nella creazione e nell’arte.
Dobbiamo fargliene una colpa o forse rendergli merito?
Non credo.
Ognuno nei propri romanzi ci mette quel cavolo che gli pare.
Ognuno i propri traumi li metabolizza come meglio crede.
Ognuno il proprio senso di colpa lo estingue a modo suo o se lo tiene per tutta la vita.
Se qualcuno si sente in colpa non ce ne importa poi tanto,
sono affari suoi,
come è giusto che sia.
Noi cowboy la pensiamo così.
La vita è un rodeo
e le mie gambe son cavalli.
Il senso di colpa è un movimento dell’animo abietto e bigotto,
stupido e basso.
Fa bene lo scrittore James Franco ad anestetizzare il dolore
e a trasformare le sue pene in best seller
piuttosto che passare la vita a piangersi addosso.
Il personaggio di James Franco da questo punto di vista è onesto:
è interessante che Wenders ci racconti questa prospettiva piuttosto che quella scontata e banale del tizio che annaspa nel dolore per tutta la vita senza trovar via d’uscita.
Lo scrittore raccontato da Wenders non chiede perdono,
non si crogiola nel dolore,
si sente in colpa ma reagisce e torna alla vita grazie allo stesso trauma che da voragine diventa una molla;
nuota nel senso di colpa,
ci annaspa e lo mastica,
lo assapora e digerisce
poi lo sputa e rifiuta.
Poi c’è il personaggio di Charlotte Gainsbourg,
la madre sola e triste alla quale viene a mancare un figlio.
Un personaggio tetro,
noir,
catatonico,
avvolto in una strana atmosfera che scema tra la depressione,
la schizofrenia e la tizia di “Misery non deve morire” (Rob Reiner, 1990).
A un certo punto del film scompare nel niente e festa finita.
Dove è finita quella musona della Gainsbourg?
Boh.
Non ho ben capito che funzione debba avere questo personaggio:
è la madre del figlio che viene a mancare e fino a qui tutto bene,
è anche lei un’artista e questo probabilmente serve a fare da specchio a James Franco,
a sottolineare il forte legame che c’è tra dolore e creazione.
Poi?
Non lo so.
Serve a poco.
Infatti scompare.
Il film ,
come tutti i film di Wenders,
come del resto il Cinema stesso,
è anche una riflessione sul tempo e il suo scorrere.
L’opera per altro fotografa dodici anni di vita.
Ritorna una posizione ormai consueta dell’autore tedesco sull’ineluttabilità del tempo, sul suo correre e trascorrere e portarci via con lui,
un po’ come il vento ma senza aumentare o fermarsi,
senza la bora e il maestrale,
un vento costante,
una brezza leggera.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015

“Noi uomini immobili e inermi con le facce nel vento
spalancate sul tempo e su i treni che passano e corrono,
rincorrono il tempo,
e chissà dove vanno quei treni nel vento?” (cit. da “Treni blu” di F. Sokolov)
Il film ha una bella fotografia (Benoit Debie),
è interessante la scelta di contrapporre in maniera nitida gli interni bui e scarsamente illuminati,
agli esterni nevosi,
luccicanti e ben illuminati,
contrapposizione che sembra sottolineare metaforicamente la condizione esistenziale dell’artista:
il suo ambiente interiore,
scarsamente illuminato,
intimo,
soggettivo e creativo
nel quale l’artista si rifugia
contrapposto al mondo esterno,
degli altri,
all’oggettività,
il freddo,
il ghiaccio,
la neve,
il pericolo.
Cose che mi sono piaciute di questo film?
Una.
Le macchine del protagonista.

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(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015

All’inizio del film James Franco si aggira nel deserto di neve su una bellissima Jeep Wagoneer che anche io avrei tanto voluto
e che mi ha fatto ricordare la mia cara e ormai defunta “Sandrona”,
una Jeep Cherokee Laredo bordeaux del 1985 con interni crema,
che per qualche anno ho avuto l’onore di cavalcare nei deserti e nelle praterie,
su gli Appennini,
le Alpi,
le Ande,
la Sierra Nevada,
l’Italia,
l’Europa e la Azzorre.
Nella seconda parte del film James Franco,
ormai scrittore di culto,
abbandona il Wagoneer (errore imperdonabile) per passare a un classico della storia dei classici tra scrittori, professori e intellettuali con le toppe:
la Volvo Polar station wagon.
Bella, non c’è niente da dire
ma niente a che vedere con la mia “Sandrona”.

Non ho nient’altro da aggiungere.
Per oggi è tutto.
Viaggio in mezzo alla neve a bordo della mia Jeep.
Ho una camica a quadri,
un paio di jeans,
uno stivale di pelle.
Il cappello sul sedile al mio fianco.
Nella macchina risuonano i Creedence.
Sotto il cappello la mia nuova pistola,
si chiama Susanna è argentata e lucente,
ha incisa sopra la canna una donna nuda e sdraiata.
Adesso non piove.
Nevica forte.
È tutto bianco.
Sento un rumore.
Nello specchietto cromato vedo spuntare dalla bauliera la testa di un cervo.
Mi fermo.
Sposto il cappello, accarezzo Susanna.
Mi volto di scatto.
La faccia della Gainsbourg è parecchio allungata.

Veniamo alle pagelle:
Una palletta
Una stelletta.
È un quattro e mezzo per il vecchio Wim.

Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)