
“Youth –La Giovinezza”
di Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Con: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda
Prodotto da: Indigo Film
Sto camminando.
Tutto diritto.
Mi guardo le punte delle scarpe.
Sono marroni.
Piove.
Ho i piedi fradici.
Saranno marroni penso.
Anche loro.
È fine maggio e ho un ombrello,
di quelli lunghi,
con il manico di legno,
di quelli che portano i signori anziani,
i nonni,
quegl’uomini d’altri tempi che quando non piove ma minaccia di farlo hanno l’impermeabile bege con l’interno scozzese,
il cappello simile al dentro del cappotto e le mani dietro la schiena.
Sembro un uomo d’altri tempi questo sì, ma non mi sento molto attraente.
Sarà perché l’ombrello che porto non si confà a uno degli anni ’80 come me che l’ombrello non lo ha mai avuto,
con il cappello sembra un fungo e che non ha
e mai potrà avere quell’impermeabile li.
Mio nonno sì che ce l’aveva,
e aveva anche degli ombrelli bellissimi,
il cappello come l’interno dell’impermeabile e se non pioveva ma minacciava di farlo si aggirava elegante e a testa alta con le mani dietro la schiena e,
diceva lui,
che tutte le donne per strada lo fermavano e gli facevano i complimenti.
Ma complimenti di che?
Complimenti per come era elegante diceva.
Nessuno mi guarda,
forse guardano tutti il mio ombrello,
forse tutti,
come me del resto,
stanno guardando in basso,
si osservano le scarpe marroni cercando di schivare le pozze
e stanno pensando che adesso i loro piedi saranno marroni.
Anche loro.
Continuo a camminare.
Continua a piovere.

È un anno e mezzo che non scrivo una recensione e non l’ho fatto per almeno tre buoni motivi:
Primo.
Sono diventato padre.
Questo spiega la mia andatura da uomo d’altri tempi.
E il mio ombrello.
Non spiega però lo smettere di scrivere recensioni.
No.
Questo no.
In realtà ho smesso di fare tutte le cose che mi affaticavano senza darmi la giusta soddisfazione.
Quindi anche scrivere recensioni.
Secondo.
Ho fatto un film che parla di uomini,
e di pesci,
e di uomini pesci.
Ho perso molto tempo.
E energie.
Poi non ho guadagnato un cazzo.
Terzo.
Odio quei pochi che recensiscono i miei film e quindi per dare coerenza e spessore al mio odio mi sembrava giusto smettere a mia volta di scrivere recensioni sui film degl’altri.
Ben detto.
Ho deciso adesso di riprendere a scrivere per altrettanti tre buoni motivi:
Primo.
Mi pagano.
Secondo.
Non ho più voglia di fare film.
Terzo.
Posso mettere delle fotografie negli articoli.

E adesso eccomi qui.
Vado a vedere “Youth –La Giovinezza-“ il nuovo film di Paolo Sorrentino.
Lo vado a vedere al cinema Fulgor,
uno dei pochi rimasti nel centro storico di Firenze.
Quando sono al Fulgor penso sempre alle ruspe.
Non so perché.
Forse perché in un futuro molto prossimo saranno loro che in un sol colpo spazzeranno via anche lui e mi costringeranno ad andare in treno al cinema.
A Bologna.
Penso alle ruspe mentre vado verso il cinema,
ci penso mentre guardo il film,
appena esco non più.
Immagino sempre di trovare un immenso cantiere davanti al cinema dove si abbattono i vecchi palazzi e se ne costruiscono di nuovi,
a forma di missile e lucidi,
ma non è così.
Quella è Londra e questa è via Maso Finiguerra, Firenze, Toscana, Italia.
Fuori comunque non succede un bel niente.
Piove e il Fulgor resiste.
Il Fulgor è un cinema moderno,
non è né una sala elegante e d’altri tempi né una piccola sala d’essai ancora imbevuta di tabacco e colli alti.
È un cinema moderno punto.
Un multisala ma nel centro storico.
Le sue sale sono tendenzialmente rosse,
hanno il nome dei pianeti e io penso che questo tema dell’universo per un cinema sia abbastanza di dubbio gusto,
come l’entusiasmo di quell’imprenditore che la notte prima di inaugurare il cinema si è svegliato con un’idea geniale,
quella di dare ad ogni sala un nome di un pianeta.
Visionario.

È il primo spettacolo.
È fine maggio.
Non è tempo di cinema.
Siamo una ventina.
C’è qualche uomo da solo proprio come me e alcune signore di quelle li,
quelle che incontri sempre al cinema di pomeriggio,
quelle che parlano dei nipoti fino al terzo minuto del film,
poi commentano ad alta voce ogni singola scena e alla fine sui titoli di coda dicono di non aver capito nulla.
Io parlo sempre delle vecchie nelle mie recensioni,
un po’ perché sono le uniche che incontro al cinema,
un po’ perché mi divertono.
Un po’ perché non rileggo le vecchie cose e mi scordo cosa avevo scritto.
Comunque a questo giro le vecchie ci stanno parecchio bene.
Non sono seduto al posto assegnatomi dal computer in sala Mercurio bensì nel centro perfetto della sala.
Me ne frego dei posti numerati proprio come in curva Fiesole.
Io e Tiziano.
Lui col cappello a forma di becco,
io senza perché con i cappelli sembro un fungo.
Le vecchie si siedono davanti a me.

Veniamo al film.
La prima cosa che mi viene in mente è la stessa che mi viene sempre in mente tutte le volte che vedo un film di Sorrentino:
Sorrentino è un ritrattista.
Sorrentino è un grande ritrattista.
La sua speculazione parte sempre da UN personaggio,
da UN essere umano,
da UNA condizione psicoemotiva,
e la sua sensibilità,
il suo sguardo,
la sua fantasia,
il suo amore verso le derive umane sono notevoli.
Adesso una provocazione:
secondo me Sorrentino potrebbe essere un grande documentarista.
Proprio per i motivi di cui sopra.
Ho fatto questo preambolo per chiarire quello che io penso del cinema di Sorrentino, ovvero che,
al di là degli innumerevoli pregi che sono noiosi da elencare,
abbia un grande limite:
quello di non godere della nobile arte della sottrazione.
Se dai suoi film togliessimo tutti i fronzoli e addirittura le storie che lui appiccica sui suoi personaggi, ecco che avremo l’essenza di un cinema altissimo,
un cinema dell’uomo
e sull’uomo.
Sorrentino non è un raccontatore di storie e pecca di debolezza nel voler a tutti i costi costruire strutture narrative che contengano i suoi eroi al tramonto.
Teme evidentemente di essere tacciato “dall’uomo della strada” di non saper raccontare
e per non correre questo rischio costruisce mondi che traballano.
Ma chi ha detto che un film deve raccontare una storia?
Chi ha detto che un film è bello se racconta una bella storia?
Chi ha detto che un film debba essere bello o brutto?
Un film non può essere bello e non può essere brutto.
Un film non deve raccontare una storia ma uno sguardo,
un mondo.
Un film si deve donare allo spettatore perché ciò che si dona sono gli occhi dell’autore.
Il cinema esiste dopo che un fascio di luce illumina una pellicola
e nel buio di una sala,
su un grande schermo bianco appaiono una serie di immagini in movimento.
Si celebra un rito magico.
Un’allucinazione collettiva.
Un’esperienza condivisa.
E se tale rito riesce a imprimersi e a lasciare qualcosa negl’occhi e nell’esperienza di chi guarda,
a fargli fare uno spostamento,
se lo spettatore riesce a guardare attraverso gli occhi del regista,
allora l’esperimento potrà dirsi riuscito.
Magia.
Ecco il cinema.
Il film esiste.
La messa è finita,
e il regista può credere di aver chiuso un cerchio.
Amen.

Tornando al film:
Siamo in un centro termale sulle Alpi svizzere,
lo stesso in cui Thomas Mann ha ambientato il suo romanzo “La montagna incantata” che non ho letto.
I due protagonisti sono due personaggi al tramonto,
come del resto tutti i personaggi di Sorrentino,
ma questi sono anche vecchi:
uno è un direttore d’orchestra (Michael Caine),
l’altro un regista cinematografico (Harvey Keitel).
Sono entrambi alla fine delle loro carriere:
uno ci vuole provare ancora ed è circondato da un’equipe di sceneggiatori un po’hipster alla disperata ricerca di un finale per il suo ultimo film “L’ultimo giorno della mia vita”;
l’altro ha chiuso con la musica,
rifiuta un ingaggio dalla regina d’Inghilterra e si immagina a dirigere un coro di mucche.
Entrambi si scontrano con il loro essere padri,
si confrontano con la giovinezza perduta che ha le sembianze di una miss mondo strafiga (Madalina Ghenea) e tutta nuda che si fa un bagno in piscina sotto gli occhi inebetiti dei due vecchi;
si confrontano con la morte.
È un film sulla vita e sulla morte.
La vita finisce quando inizia la morte e in mezzo che c’è?
La morte inizia quando finisce la vita e in mezzo che c’è?
La vita e la morte sono la stessa cosa perché l’una necessaria all’altra,
l’una parte dell’altra e in mezzo che c’è?
In mezzo ci sono i figli e l’amicizia.
E il ricordo.
Siamo stati quello che ci diciamo di essere stati.
Siamo quello che ci diciamo di essere.

Quelli di Michael Caine e Harvey Keitel sono due tra i personaggi peggio riusciti di Sorrentino perché si reggono solo sul banale conflitto tra vita e morte,
giovinezza e vecchiaia,
senza un ulteriore approfondimento psicologico quale quello di altri personaggi del regista napoletano (si pensi su tutti a Titta de Girolamo interpretato da Servillo ne “Le conseguenze dell’amore”)
L’autore non scava nelle pieghe di quei due volti anziani,
non ci racconta,
non evoca l’importanza di quelle vite ormai trascorse,
e pensare che quelle due facce ne avrebbero di cose da dire.
Nel ritratto di questi due vecchi uomini non si rintracciano tic,
ossessioni,
lampi;
non si rintraccia la vita che nella sua interezza si mostra proprio mentre si spenge lasciando la sua impronta sul viso.
Il rischio al netto di tutto questo è di ritrovarsi con due macchiette davanti alla macchina da presa. Due personaggi vuoti,
inconsistenti,
privi di autorità e dunque poco credibili.
Niente da dire sulla prestazione attoriale da un punto di vista puramente tecnico dei due vecchi ma è evidente uno scollamento tra il peso e il lirismo che l’autore intende trasferire sui due personaggi e la mancanza di approfondimento psicologico.
Gli attori sono bravi,
sono i personaggi che non sono scritti bene.
Poi ci sono Paul Dano nella parte di un giovane attore, Jhimmy Tree, che ha raggiunto la notorietà grazie a un ruolo in un film blockbuster di bassa lega, intento a preparare un nuovo personaggio che finalmente gli renderà merito delle sue grandi capacità artistiche (Hitler);
Rachel Weisz nelle vesti della figlia di Michael Caine, Lena, che viene lasciata dal marito, il quale è per l’appunto il figlio di Mick (Harvey Keitel), che rinfaccia al padre varie cose tra le quali quella di essersi scordato della moglie alla quale da anni non porta manco un fiore.
Poi c’è una grandissima Jane Fonda (Brenda), nel ruolo dell’attrice feticcio di Mick (Keitel), Diego Armando Maradona obeso (Roly Serrano), con Marx tatuato sulla schiena e un respiratore sempre al suo fianco.
A un certo punto Diego palleggia con una pallina da tennis
e il cinema che è vita ma anche morte si palesa in tutta la sua grandiosità.
Infine c’è un tizio che fa lo scalatore,
il mio personaggio preferito (dopo Diego),
che dondola in bilico tra il metaforico, il surreale e l’assurdo.

La regia di Sorrentino si alleggerisce.
Le macchine da presa non volteggiano più nel cielo come aironi impazziti per tornare posate con i piedi per terra.
Ci sono due scene su tutte: un videoclip trash;
e una scena onirica in una piazza San Marco sott’acqua.
Sono due scene che funzionano.
La fotografia è ottima come sempre e come sempre è firmata da Luca Bigazzi,
autore della fotografia di tutti i film di Sorrentino e non solo.
È una fotografia sobria.
La musica è ingombrante e non solo aggiunge ma spesso copre.
È una colonna sonora poco sobria.
Mi sono innervosito più volte in accordo con le vecchie della fila davanti.
“Youth” a tratti pare un musical.
E io odio i musical.
Sorrentino torna a scrivere da solo e abbandona Contarello.
Povero Contarello.
In alcuni frangenti si nota in modo inequivocabile il desiderio spasmodico di colpire lo spettatore con dialoghi assurdi e surreali che non sono però sorretti da un sistema interno che li possa contenere e lasciar scivolare via liberi, risultando in tal modo pretenziosi e pretestuosi cosa che spesso capita quando si scrive un film in solitudine soffrendo l’assenza di qualcuno che smorzi,
suggerisca,
bilanci e possa anche solo rendere coerente lo slancio dell’altro.
Un film è fatto di scene.
Questa è la prima cosa che viene insegnata a chi intende fare del cinema e questo Sorrentino dimostra di saperlo bene al punto che questo film,
più ancora di quanto già accaduto con “La grande bellezza”,
appare un insieme di scene autonome e indipendenti montate una accanto all’altra senza una soluzione forte di causa effetto e continuità,
tanto da chiedersi perché mettere prima quella scena piuttosto che un’altra.
Non trovo che questo sia un difetto tantomeno un pregio,
avrei soltanto voluto capirne il perché.
Se una scena non serve che se ne vada a quel paese.
Se una scena deve stare li è perché può stare solo li.
Questo è un postulato, quindi inappellabile.

Una volta in una trasmissione in televisione ho sentito dire una frase a Sorrentino che mi fece pensare di avere davanti un grande uomo:” Io amo l’odore delle case dei vecchi”.
Ecco per me questa frase è un capolavoro del cinema ed è quello che manca a “Youth” per essere un grande film. E mi chiedo come sia possibile che chi pensa e pronuncia una frase del genere possa poi fare un film come questo a proposito del tempo che passa.
Prendete il film e poi rileggete questa frase “Io amo l’odore delle case dei vecchi” e pensateci. Sembra impossibile ma sono tante le cose che mancano a “Youth” per raggiungere le altezze cinematografiche di quella frase.
L’odore delle case dei vecchi.
I divani dorati.
Le cornici d’argento.
I mobili lucidi.
Le notizie alla radio.
Una mano liscia,
bianca,
affusolata,
che toglie la polvere.
Alcuni bei gialli.
L’odore di bagno.
Il rumore di barba.
Torta e candele.
Le millelire.
Due dita di profumo sul collo.
Leggere i numeri.
Imparare a fischiare.
Coda di lupo.
L’orologio all’ingresso.
L’orologio in cucina.
L’orologio del nonno.
I quadri e le mucche.
L’agenda dorata.
L’Ovomaltina.
I cerini di alberghi lontani.
Televisore.
Le Generali.
Colesterolo.
Il novo Sal.
I cioccolatini in salotto.
Un pacchetto di Lark.
Cristi e Madonne.
I catarri del nonno.
I fucili del nonno.
L’ascensore che arriva.
Il portaocchiali.
Le scivolate.
I corridoi.
Aiutarsi col pane.
Il pavimento di marmo.
Un fagiano impagliato.
La pasta al ragù.
Dalla bici esce fumo.
Le parole crociate.
Il dito alla crema.
La lingua di gatto.
Le scarpe pulite.
Mi sbuccio un ginocchio.
Il mercurio cromo.
Naftaline e cassetti.
I giornali nel cesto.
Giochiamo a scartino.
Il portafogli di pelle.
Un portacandele.
L’odore di ciò che conservi si mantiene nel tempo, invecchia e si perde con noi.

Vorrei solo aggiungere un’ultima cosa:
ho notato che col passare degli anni il volto di Sorrentino è sempre più somigliante a quello di Fellini.
Fateci caso.
È strano.
Veniamo alle pagelle:
due pallette
due stellette
È un bel 5 per il vecchio Sorrentino.
Sì ma… «l’odore delle case dei vecchi» viene dalla sceneggiatura de La grande bellezza, non da una semplice dichiarazione in tv.
Hai ragione è vero ma lo dice anche in un’intervista da uno tipo Fazio o da Fazio in persona, non ricordo precisamente!
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