Regime e Accademia



Anche se è un tema poco conosciuto e sistematicamente sottovalutato il rapporto che ebbe l’Università italiana con il regime fascista è serio e importante, oltre che attuale.


In copertina opere di david driskell
 

di Leunkeu Laetitia

Nel panorama degli studi accademici italiani, un tema spesso evitato o poco esplorato è quello della compromissione con il regime fascista. “L’Italia non ha avuto un passato coloniale come gli altri stati Europei!” si dice. E questo, per gli amanti della mitizzazione degli Italiani brava gente, basta a scaricare qualsiasi responsabilità e a fingere che l’ideologia nazionalista e razzializzante dell’epoca non abbia affondato le radici di alberi che continuano a produrre frutti a distanza di un secolo.

Eppure sono numerose le fonti, tra documenti e mezzi di propaganda, che testimoniano come durante il periodo fascista gli studi antropologici furono resi servili alla politica culturale e coloniale del regime, e come l’eredità del colonialismo italiano – seppur morto quasi sul nascere – abbia avuto un impatto profondo sul mondo accademico, plasmando il modo in cui la conoscenza viene prodotta, insegnata e diffusa. Il regime fascista si preoccupò persino di creare una nuova figura professionale, quella dell’”etnologo”, che avrebbe dovuto studiare le popolazioni indigene delle colonie italiane e della Tripolitania, accompagnato dal lavoro degli antropologi che a loro volta furono chiamati a studiare le caratteristiche biologiche e culturali del popolo italiano (con tanto di specifiche sulle popolazioni rurali della penisola).

L’obiettivo era quello di creare una nuova élite culturale, che avrebbe dovuto sostenere la politica coloniale e diffondere l’idea di un’identità nazionale unica e omogenea, basata sulla cultura e sulla superiorità della razza italiana.

Il professor Fabio Mugnaini, nell’introduzione del saggio Folklore, razza, fascismo edito Leo S. Olschki Editore, evidenzia come questo periodo storico abbia influenzato profondamente non solo l’ambito etnologico e antropologico nel suo complesso, ma anche gli studi sulle tradizioni popolari, che stavano cercando di consolidarsi accademicamente. Gli studiosi si sono trovati ad affrontare una scelta inevitabile: adattarsi alle politiche e agli ideali del regime per ottenere riconoscimento accademico e sostegno istituzionale, oppure resistere e rischiare l’emarginazione e la repressione. Molti giovani studiosi furono formati all’interno di istituzioni accademiche fasciste, dove a regnare erano le ideologie razziste e nazionaliste del tempo. Alcuni di loro, affascinati dalle promesse del regime, abbracciarono con entusiasmo la propaganda di stato e contribuirono attivamente alla diffusione delle politiche fasciste nei loro scritti e nelle loro posizioni istituzionali. Una sorte che però non colpì solo i giovani studiosi in cerca di affermazione. Persino personalità accademiche più mature e consolidate si schierarono a favore del regime e promossero le sue teorie aberranti.

È interessante notare come la rimozione di questa compromissione abbia continuato per lungo tempo anche dopo la fine del regime fascista. Fino agli anni Ottanta, molti studiosi preferirono evitare o minimizzare la discussione: c’è stata “una tensione tra il bisogno di dire e la tendenza a tacere”, tuttavia rimane che “nelle sintesi di storia degli studi che abbiamo ereditato dalla generazione nata sotto il regime, di questa collusione non vi è traccia”. Questo atteggiamento solleva allora domande importanti sulla responsabilità degli intellettuali nel contesto politico in cui operano e l’urgenza di un recupero critico di questa pagina di storia diventa evidente.

Nel campo degli studi di Folklore il nome di Paolo Toschi si distingue per il suo ruolo di primo piano. È particolarmente noto per il suo significativo contributo all’approfondimento accademico della Storia delle tradizioni popolari. Ciò su cui porremo l’attenzione è la sua vicenda personale, che presenta molteplici aspetti di interesse per la relazione tra carriera individuale, opportunità di lavoro e rapporto con il regime fascista. Formatosi all’interno delle istituzioni accademiche fasciste, Toschi abbracciò con entusiasmo la propaganda di Stato, contribuendo alla diffusione delle politiche fasciste attraverso i suoi scritti e la sua posizione istituzionale. Le sue opere riflettevano l’adesione all’ideologia razzista e nazionalista del tempo, presentando una visione idealizzata e mistificata della cultura popolare, adeguata alla narrativa fascista. Toschi trovò nel regime un’opportunità per ottenere riconoscimento e prestigio accademico ed esemplifica “come si sia costruito il rapporto tra alcuni settori intellettuali e il fascismo durante il ventennio”.

Giuseppe Cocchiara, un altro importante studioso del folklore rappresenta un caso complesso di compromissione e adattamento all’ideologia fascista. Pur avendo aderito con convinzione e militanza al regime, Cocchiara ebbe l’opportunità di rivedere e riconsiderare le sue posizioni nella fase successiva alla caduta del fascismo. La sua formazione intellettuale avvenne negli anni del regime, e si impegnò con convinzione e slancio nelle fazioni più radicali del fascismo, condividendo le sue scelte più tragiche, come la guerra d’Etiopia, l’adesione alle Leggi Razziali e l’uso dell’antisemitismo come arma culturale durante la Seconda Guerra Mondiale.

L’appoggio alle posizioni radicali di Cocchiara non era semplicemente un paravento per garantire la tranquillità del proprio lavoro, ma risultava da una combinazione di esigenze accademiche, percorsi individuali e affinità ideologiche. La sua figura si intrecciò con personaggi ed eventi strettamente connessi al regime fascista, come l’organizzazione del I Congresso Nazionale delle tradizioni popolari e le collaborazioni con le riviste “Critica fascista” e “Difesa della razza”.

In questo senso il Dottor Alessandro d’Amato sottolinea come la carriera di Cocchiara possa essere divisa in due fasi ben distinte, che possono essere associate alla dicotomia tra “intellettuali militanti” e “intellettuali funzionari”. Durante il primo periodo della sua esperienza, Cocchiara era vicino ad ambienti caratterizzati dalla presenza di “intellettuali militanti”, impegnati attivamente nell’opera di esportazione culturale dell’ideologia fascista. Successivamente, la sua posizione si trasformò opportunisticamente in quella di un “intellettuale funzionario”, più moderato e adattato alle esigenze del regime.

Questo esempio mette in luce le dinamiche di adattamento, opportunità e ripensamento che si verificarono nel periodo successivo alla guerra.

È interessante notare che, dopo la sconfitta del fascismo e la caduta del regime, Cocchiara vide valorizzata la sua statura intellettuale dagli inglesi, che aveva combattuto e odiato durante la guerra. La nuova Italia democratica gli consentì di godere di un’inarrestabile ascesa accademica e scientifica.

Il caso di Gaetano Pierracini solleva interrogativi più complessi. Pierracini si distinse per la sua partecipazione attiva nella creazione del “Fascismo Folklorico”, un’ideologia che cercava di valorizzare la cultura popolare italiana all’interno del quadro ideologico del fascismo. Egli si adeguò alle politiche razziste e nazionalistiche del regime, integrando la sua ricerca nel contesto ideologico dominante. Sebbene possa essere vista come una strategia per preservare il patrimonio culturale italiano, la sua compromissione con le politiche razziste del regime lascia aperta la questione dell’equilibrio tra adattamento e resistenza.

Questi casi offrono spunti profondi per riflettere sul ruolo degli intellettuali durante periodi di regimi autoritari e pongono l’accento sull’importanza di preservare l’indipendenza intellettuale e l’etica nella ricerca accademica. Costituiscono una sfida cruciale per una riflessione approfondita sulla storia accademica italiana e richiedono un’analisi critica e un recupero accurato di questa pagina oscura.

La decolonizzazione della sfera accademica implica una riconsiderazione dei presupposti teorici e metodologici delle discipline scientifiche, eliminando i pregiudizi e le ideologie che possono influenzare l’analisi e l’interpretazione dei dati. Risulta cruciale riconoscere come la scienza e l’istruzione si siano storicamente messi al servizio della politica, nonostante la loro spesso acclamata neutralità e oggettività. È evidente, invece, come antropologi e altri scienziati sociali difficilmente riescono a sfuggire all’influenza del contesto politico in cui operano. La conseguenza è una scienza che millanta rigorosità e al contempo serve da pilastro di sostegno per perseguire agende politiche e rafforzare le strutture di potere esistenti, anche quando si basano su idee fallaci e prevenute.

Questa comprensione diventa particolarmente rilevante nel contesto del colonialismo, in cui la scienza è stata utilizzata per giustificare la sottomissione dei popoli colonizzati. È fondamentale riconoscere ed ammettere come il colonialismo abbia plasmato la nostra comprensione di razza ed etnia, e in che modo tali concetti abbiano influenzato la ricerca accademica. 

“Decolonizzazione” è un termine complesso che in poco racchiude la drammaticità degli eventi che hanno dato inizio a uno dei processi più significativi della storia moderna: la fine dell’impero come forma politica e il declino dell’ideologia razziale come dominante e principio strutturante dell’ordine mondiale.

Mossi dalla comodità del limitarne i confini e l’influenza all’interno di un tempo storicamente passato, si è soliti associare il termine esclusivamente ai processi politici che hanno portato alla dissoluzione dei diversi imperi intercontinentali, alla creazione di stati-nazione nelle ex colonie, segnando la fine del rapporto di sottomissione formale con le élite di potere occupanti.

Congelata in una sfera remota, lontana da noi, ci si può permettere di ignorare varie ed eventuali ripercussioni presenti che richiederebbero un lavoro di decostruzione a cui molti non sono disposti a sottostare, tanto per un a evidente misconoscenza o malinterpretazione della propria storia, che per scelta consapevole, seppur guidata da malafede.

Eppure, per quanto alcuni si ostinino nella loro cecità selettiva, la relazione del colonialismo e dei nazionalismi con la costruzione dei sistemi che la reggevano suggerisce che un’analisi focalizzata esclusivamente su una geopolitica in senso stretto avrebbe degli evidenti limiti.

Il suo significato va allora esteso in un quadro storico più ampio, con confini temporali meno definiti e per comprenderlo dobbiamo basare la nostra analisi su un presupposto fondamentale: riconoscere che la realtà attuale è il risultato di molteplici processi storici, tra cui la colonizzazione stessa. In tal senso, le disuguaglianze presenti nella società, le mentalità, i rapporti con la realtà e persino le nostre culture sono influenzati dalla eredità coloniale. Pertanto decolonizzare richiede un approccio che superi il mero processo politico ed economico, per comprendere e affrontare la complessità delle strutture culturali: entro i confini del nostro contesto specifico e al di là del negazionismo che vuole eludere le responsabilità del nostro passato storico nello sviluppo dell’immaginario attuale.

In tale contesto, la decostruzione della conoscenza e la riflessione sulla pedagogia come arma di dominio emerge come un tema critico e fondamentale.


LEUNKEU LAETITIA (1998): AUTRICE FREELANCE CON INTERESSE NEL CAMPO DELL’IMMIGRAZIONE, DELL’ANTI-RAZZISMO E DEL FEMMINISMO IN OTTICA DECOLONIALE. HA PUBBLICATO SU VALIGIA BLU, VICE E L’ESSENZIALE.

1 comment on “Regime e Accademia

  1. Alberto

    «Eppure sono numerose le fonti, sul web, tra i social, nelle testate giornalistiche, che testimoniano come durante il periodo di declino culturale in cui l’Occidente è soggiogato dall’ideologia Woke e progressista che gli studi “pseudo-storici” sulla fluidità di genere e sul femminismo furono resi servili alla politica culturale e coloniale del capitalismo, e come l’eredità del progressismo americano – seppur morto quasi sul nascere – abbia avuto un impatto profondo sul mondo accademico, plasmando il modo in cui la conoscenza viene prodotta, insegnata e diffusa. Il regime americano e capitalista si preoccupò persino di creare nuovi corsi di studio nelle facoltà umanistiche, “storia del genere”, “storia del femminismo” “storia dei generi e della sessualità in età moderna” imposti ai giovani studiosi nella Penisola mediterranea colonia della NATO, accompagnato dal lavoro di influencer e accademici che a loro volta furono chiamati a propagandare le caratteristiche biologiche, naturali e scientifiche di una travisazione naturale (con tanto di studi scientifici di Yale per dimostrare che l’omosessualità è iscritta nel DNA).
    L’obiettivo era quello di creare una nuova élite culturale, che avrebbe dovuto sostenere la politica progressista e consumista e diffondere l’idea di una fluidità di genere incondizionata, basata sull’assoluta libertà di espressione e sul principio dell’uguaglianza del consumatore davanti al Mercato, inteso come Verità assoluta di stampo ontologico».

    La decolonizzazione della sfera accademica implica una riconsiderazione dei presupposti teorici e metodologici delle discipline scientifiche, eliminando i pregiudizi e le ideologie che possono influenzare l’analisi e l’interpretazione dei dati. Risulta cruciale riconoscere come la scienza e l’istruzione si siano storicamente messi al servizio della politica, nonostante la loro spesso acclamata neutralità e oggettività. È evidente, invece, come antropologi e altri scienziati sociali difficilmente riescono a sfuggire all’influenza del contesto politico in cui operano. La conseguenza è una scienza che millanta rigorosità e al contempo serve da pilastro di sostegno per perseguire agende politiche e rafforzare le strutture di potere esistenti, anche quando si basano su idee fallaci e prevenute.

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