Come ci si libera dei difetti dei ragionamenti, degli errori, delle fallacie? Beh, innanzitutto dobbiamo sapere da dove vengono. E vengono da molto lontano.
In copertina un’opera di Christopher Dresser
Questo è articolo un estratto di “Argomentare è diabolico“, pubblicato da effequ editore.
di Roberta Covelli
Ed ecco a voi le fallacie logiche. Nel costante duello dialettico in cui siamo immersi, tra infotainment televisivo polarizzazioni da Social, le fallacie rappresentano uno strumento astuto e assai diffuso per prevalere sulla posizione altrui e ingannare chi assiste. Proprio sul concetto di inganno si basa l’etimologia dell’espressione, così come il suo significato: fallacia deriva dal verbo latino fallere, che significa appunto ingannare, far cadere. L’inganno altrui può costituire l’intenzione o anche soltanto il risultato di un ragionamento fallace, che è diverso dal semplice discorso falso: mentre la menzogna è la negazione della verità sul piano sostanziale, la fallacia è invece un’argomentazione con vizi sul piano logico, formale, di costruzione del ragionamento. Ora è il caso di chiarire che le nostre argomentazioni sono ancora in parte legate alla logica aristotelica e al ragionamento dimostrativo detto sillogismo. Si tratta essenzialmente di un percorso concatenato di enunciati, che si qualificano come premesse e conclusioni. Le premesse saranno pertinenti rispetto alla conclusione, la conclusione sarà plausibile rispetto alle premesse, tra loro collegate attraverso un termine medio che di norma non compare nella conclusione. Un esempio classico di sillogismo è: “Tutti gli uomini sono mortali. Tutti gli ateniesi sono uomini. Tutti gli ateniesi sono mortali”. Le due premesse, rispettivamente maggiore e minore, sono collegate dal termine medio ‘uomini’, da cui discende la logica conclusione che gli ateniesi, in quanto uomini (come da premessa minore), sono mortali, caratteristica degli uomini (come da premessa maggiore). Questo sillogismo resta formalmente valido anche se poniamo delle premesse false: “Tutti gli uomini sono biondi. Tutti gli ateniesi sono uomini. Tutti gli ateniesi sono biondi”. Le fallacie logiche non sono sillogismi con una o più premesse false, da cui discendono conclusioni non rispondenti al vero, quanto piuttosto ragionamenti che “sembrano essere sillogismi senza essere tali”. Caratteristica essenziale della fallacia logica è quindi il suo vizio formale, logico, che si accompagna però a una verosimiglianza argomentativa. Le fallacie sono “intese come l’analogo raziocinativo delle illusioni percettive: l’intuizione suggerisce che il ragionamento sia corretto, ma a una più attenta analisi si scopre che esso è in realtà erroneo”; sono dunque “quegli argomenti che, pur essendo scorretti, appaiono psicologicamente persuasivi”.
Il problema del partire da Aristotele per studiare le fallacie, oltre all’analisi essenzialmente formale della logica, è che i paradossi che emergono dai sillogismi validi ma falsi sono tanto palesi da illuderci che accorgersi di altri errori di ragionamento sia un esercizio semplice. Esistono invece dei meccanismi percettivi che ci inducono a cascare in questi tranelli argomentativi con molta più facilità di quanta ci si aspetti, specie se non ci troviamo di fronte a fallacie linguistiche o a fallacie formali, ma dobbiamo confrontarci con fallacie informali, come quelle di pertinenza, che vedremo nello specifico più avanti. Se infatti il nostro modo di discutere somiglia a un duello, in cui lo scopo è l’esibizione della prevalenza di un cavaliere sull’altro, sarà comodo per l’interlocutore più scorretto (o, come spesso accade, per i diversi partecipanti all’assalto) sfruttare i trucchi che un buon prestigiatore utilizzerebbe per lasciare gli spettatori a bocca aperta, convinti di aver assistito a una magia invece che a uno spettacolo di astuta destrezza.
È quel che accade ogni volta che si prende la tesi altrui e la si stravolge, come avviene con la fallacia dell’uomo di paglia o strawman argument. Si tratta di un argomento fantoccio, con cui si estremizza o si distorce l’enunciato altrui, per renderlo più semplice da confutare o intrinsecamente sciocco, tanto da non necessitare nemmeno di troppi sforzi per smontarlo. Come farebbe un prestigiatore, allora, si fa apparire un fantoccio e quello si sconfigge, mentre l’argomento reale sparisce, o perché l’altra persona è cascata nella trappola della fallacia o perché questa, reagendo con irritazione, finisce per risultare poco credibile, come se venisse colta in fallo. Non molto diversa dallo stratagemma dell’ampliamento con cui Schopenhauer consiglia di condurre la tesi dell’avversario al di fuori dei suoi limiti naturali, la strategia dell’argomento fantoccio è tanto semplice quanto efficace, e si possono trovare casi di uso di questa fallacia un po’ ovunque, nella vita quotidiana come nel dibattito pubblico. Se ne trovano esempi perfino in letteratura e nei confronti tra studiosi, da cui, più che altrove, ci si aspetterebbe correttezza dialettica e onestà intellettuale.
Uno dei problemi delle figure filosofiche che predicano massime di virtù e di etica risiede nella scarsa aderenza tra i loro discorsi e la loro condotta. Alcuni illuministi, su questa ipocrisia, si sono distinti, e il citatissimo Voltaire ne è un fulgido esempio: ma non lo propongo come modello di incoerenza per le sue convinzioni sull’inferiorità razziale degli africani o per l’antisemitismo (nonostante il Trattato sulla tolleranza e gli aforismi estrapolati in base a cui “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”), quanto piuttosto per il chiarissimo caso di argomento fantoccio che permea un volumetto che pure mi piacque molto, Candide, ou l’Optimisme. Il romanzo è a suo modo spassoso e si legge voracemente: il protagonista, Candido, istruito dal precettore Pangloss, viene cacciato dal barone presso la cui corte è cresciuto e deve affrontare varie peripezie. Con l’espressione “varie peripezie” intendo una serie di sfortune, via via sempre più incredibili, inanellate dal protagonista e da chi l’accompagna. Sullo sfondo, prepotentemente smentito dalla realtà della trama, resta l’insegnamento di Pangloss secondo cui viviamo nel migliore dei mondi possibili. Al di là della godibilità della lettura, il testo è una evidente polemica, in chiave parodistica, delle tesi di Leibniz. Quando Voltaire scrisse il Candido, Leibniz era già morto da una cinquantina d’anni: considerato genio universale per la versatilità del suo sapere – matematico, giurista, filosofo, linguista… –, Leibniz sostenne che quello in cui ci troviamo sia il migliore dei mondi possibili. L’argomentazione, su cui si può ovviamente concordare o dissentire, è un po’ più approfondita (e convincente) del fantoccio panglossistico dipinto da Voltaire: il Dio secondo Leibniz è sì onnipotente ma rispetta la logica, il suo creato è infinito ma non slegato dai principi generali, come quello di non contraddizione. Dio però è sempre Dio, è perfetto e, nella creazione, applica questa sua perfezione attraverso la scelta:
-->Nell’infinito campo del possibile, che egli conosce intellettualmente, Dio sceglie la migliore tra le infinite combinazioni, ossia quella che contiene la minore quantità di male per le creature. E dal momento che Dio di fatto ha creato un mondo, questo è quindi senz’altro il migliore tra tutti quelli che avrebbe potuto creare: per quanti mali contenga agli occhi degli uomini, la somma totale di essi è inferiore a ogni altra possibile.
Un mondo senza violenza, ad esempio, sarebbe senz’altro un’opzione possibile nell’onnipotenza divina, ma al prezzo di rinunciare al libero arbitrio umano, dunque, a conti fatti (da un dio sommamente saggio e buono), creando un mondo peggiore dell’attuale. Quanto invece ai mali del mondo, siano essi malattie o catastrofi naturali, vale l’argomento secondo cui, al contrario di Dio, gli uomini “non conoscono se non parti limitatissime del creato (che per Leibniz si estende all’infinito) e quindi non sono in grado di comprendere che ciò che, isolatamente considerato, appare come un difetto, concorre in realtà all’armonia e alla perfezione del tutto, al pari di una dissonanza nel complesso di un brano musicale”.
È questa la tesi metafisica di Leibniz, sebbene descritta in maniera estremamente semplificata: pure così, non ha attinenza con l’argomento fantoccio che Voltaire attribuisce agli ottimisti creando il personaggio di Pangloss, con il suo costante ripetere che ci si trova nel migliore dei mondi possibili, precisazione beffardamente ribadita a ogni sfortuna che càpita nelle vicende del povero Candido. Quello di Voltaire è insomma un uso letterario della fallacia dell’uomo di paglia.
Questa fallacia, che si ritrova molto spesso anche nel dibattito politico, fa leva su un meccanismo di distorsione e distrazione: si presenta una tesi con qualche attinenza con quella che si vuole attaccare ma stravolta, ingigantita, esagerata, ridicolizzata, così da distrarre, da portare la discussione sulla versione di comodo dell’argomento avversario.
La strategia di distrazione, attraverso cui distogliere l’attenzione dal confronto sui temi per buttarla su altro, è piuttosto diffusa ed è anche il meccanismo alla base del benaltrismo. La definizione di questa fallacia è già nel suo nome: si utilizza quando, per non affrontare un tema, si ricorda all’interlocutore che i problemi sono ben altri. Politicamente, in Italia, la principale vittima del benaltrismo è la legge sulla cittadinanza: tuttora regolata da una legge del 1992, l’adozione della cittadinanza italiana avviene ancora soltanto per ius sanguinis, ossia per discendenza, o per iure communicatio, all’interno del nucleo familiare, quindi attraverso matrimonio, riconoscimento, filiazione o adozione, o infine per naturalizzazione, comunque alla maggiore età e al termine di una procedura di ottenimento della cittadinanza, al sussistere di particolari requisiti. Nell’ultimo decennio sono state presentate diverse proposte di riforma per introdurre lo ius soli o lo ius culturae, ossia l’ottenimento della cittadinanza italiana rispettivamente per nascita nel territorio nazionale o al termine del percorso scolastico. In dieci anni, però, nessuna di queste riforme è stata approvata: spesso, anzi, le proposte non sono nemmeno state discusse. Anche in questo caso le opinioni sono opinioni, quindi ci sarà chi afferma che la persona nata o cresciuta in Italia non debba essere italiana, sia per ragioni demografiche, per convinzioni di razza, per retoriche meritocratiche (sì, esiste il filone di chi sostiene che la cittadinanza vada meritata, e io tuttora mi chiedo che cosa abbiamo fatto noialtrə natə da genitori italiani per meritarci una carta d’identità che indichi automaticamente l’italianità senza bisogno di richieste o carte bollate). Non basta il razzismo, consapevole o meno, a spiegare come mai nemmeno le più blande tra le proposte presentate abbiano ottenuto successo parlamentare e la spiegazione di questa ignavia civile arriva proprio da quella fallacia, con cui puntualmente, ogni volta che una qualunque proposta di riforma sulla cittadinanza viene avanzata, si ricorda ai promotori che non è il momento, perché i problemi sono ben altri: “Col maltempo che flagella l’Italia, il futuro di undicimila lavoratori a Taranto in discussione, qui si parla di ius soli: io sono sconcertato”. Il benaltrismo squalifica la tesi che (non) si vuole affrontare senza entrare nel merito: non ci si schiera sul contenuto, non si afferma la propria contrarietà al tema, ma ci si limita a mettere in ordine le priorità. Così, peraltro, chi usa benaltrismo si pone al riparo dai rischi di critiche e dalle accuse di razzismo: ogni soggetto politico che spiega che non è il momento di garantire la cittadinanza italiana a chi nasce da genitori stranieri, e lo fa attraverso il benaltrismo, usa lo stratagemma sottraendosi a un giudizio di valore. E così pare di rileggerla a ogni dichiarazione, quella frase fatta con evoluzione fallace: “Non sono razzista, ma i problemi sono ben altri”.
Incredibilmente, il trucco funziona. Resto stupita come ogni volta in cui Guybrush Threepwood, il temibile pirata della serie di videogiochi di Monkey Island, per trarsi con successo d’impaccio da una situazione scomoda, urla a chi ha di fronte: “Guarda dietro di te… una scimmia a tre teste!”. Stessa strategia, solo che Monkey Island non era un confronto politico sui diritti delle persone.
La stessa logica di distorsione del discorso altrui per renderlo più debole e, dunque, più facilmente avversabile, risiede in altri tipi di fallacia come ad esempio la falsa dicotomia, che aumenta i livelli di polarizzazione e semplifica il conflitto in due soluzioni distinte ma presentate come le uniche possibili. È una fallacia che può esprimersi su diversi livelli, talora sul piano personale, in altri casi riferendosi allo schieramento su un tema, ma comunque sempre presentando due elementi come alternativi, in un costante aut aut che impedisce la scelta argomentata. Sul piano personale si ricorre a questa fallacia ogni volta che si aggregano due fazioni in maniera arbitraria imponendo una scelta dicotomica: o con me o contro di me. Ed è una dicotomia che contagia il dibattito, svuotandolo di senso, privandolo dei temi e concentrando l’attenzione sulle etichette. È quel che accadde alla politica italiana tra l’aprile del 2014 e il dicembre del 2016. Sia chiaro, quel periodo non è certo l’unico caso di applicazione della falsa dicotomia al dibattito pubblico: abbiamo vissuto intere fasi politiche con l’estremizzazione di un bipolarismo che nel panorama partitico italiano non c’è mai davvero stato (e non è un dramma, è semplicemente una caratteristica di un dato contesto elettorale). Eppure mi concentro su quella recente fase storica perché è un esempio da manuale di estremizzazione della fallacia in questione, rispetto a un tema che avrebbe richiesto maggiore attenzione nel contenuto, ossia il tentativo di riforma costituzionale.
Il cammino della riforma istituzionale iniziò nell’aprile 2014, con la presentazione presso la commissione Affari Costituzionali del Senato del testo da parte dell’allora ministra Maria Elena Boschi. Non è questa la sede per discutere di prassi parlamentari e prerogative costituzionali, ma si può dire, senza timore di smentite, che il percorso di approvazione di quel testo fu ben poco argomentato: in giugno furono sostituiti tre membri potenzialmente dissenzienti della commissione, cui seguì l’autosospensione per protesta di altri senatori dal gruppo parlamentare del Partito Democratico. Come risposta a questo atto, e più in generale alle critiche alle modalità d’azione delle forze di maggioranza, arrivò una dichiarazione come “Noi non lasciamo a nessuno il diritto di veto: conta molto di più il voto degli italiani che il veto di qualche politico che vuole bloccare le riforme. E siccome contano di più i voti che i veti, vi garantisco che noi andiamo avanti a testa alta”. Nonostante la delicatezza della materia e l’ampiezza delle modifiche alla Carta, la riforma costituzionale renziana fu approvata senza che ne fossero intaccati i punti nodali e le previsioni di profonda revisione istituzionale: la mancanza della maggioranza qualificata permise però la richiesta di un referendum confermativo di quanto approvato da Camera e Senato. È in questa fase che la fallacia della falsa dicotomia viene riproposta, sia riguardo agli schieramenti, sia, soprattutto, in ottica personalistica.
Quanto al primo profilo, nella comunicazione di chi sosteneva la riforma costituzionale la fazione opposta, benché composita, era accomunata in un unico gruppo, a prescindere dalle diverse ragioni e dalle differenti storie politiche. La fallacia in questione era piuttosto prevedibile, visto che è nella natura di un referendum la scelta dicotomica tra due alternative. Ma un referendum, a differenza delle elezioni in cui la componente personale e partitica ha una sua importanza, richiede l’approvazione o la bocciatura di un testo di legge: quello su cui il popolo deve pronunciarsi non è la bontà dell’una o dell’altra parte, né quale dei due schieramenti sia meno peggio dell’altro, ma ci si dovrebbe limitare a valutare, nel merito, la riforma oggetto del quesito. Il fatto che le opzioni siano solo due non implica che le ragioni delle diverse parti siano le medesime, che siano aggregabili differenti visioni della questione. C’è un tweet di un esponente della maggioranza dell’epoca che mostra l’utilizzo di questi stratagemmi logici: “Alla fine il partito della nazione lo hanno fatto Landini e Zagrebelsky con Brunetta, Meloni e Salvini. Contro le riforme, contro il futuro”. Operando un’implicita generalizzazione indebita, si accomunano personalità estremamente diverse tra loro (un sindacalista di sinistra, un costituzionalista, tre esponenti di partiti di centrodestra e di destra) per renderle una formazione omogenea nemica, l’altro termine di paragone della falsa dicotomia. Questo meccanismo logico è formalmente fallace anche quando ha un fondo di verità di merito, ad esempio nel caso in cui si accomunino dei soggetti sulla base di un’adesione a una stessa campagna, quando insomma il tema comune sia declinato in positivo. È invece quasi sempre falso anche nel merito, oltre che fallace, quando il punto di contatto è l’opposizione a qualcosa. Essere contro l’ergastolo, ad esempio, può essere un’istanza comune ai sostenitori di due tesi opposte: quelli che ritengono sia una misura disumana ed eccessiva, da una parte, e, dall’altra, quelli che lo ritengono troppo blando perché vorrebbero la pena di morte. Sono due posizioni inconciliabili, ma attraverso la combinazione tra generalizzazione indebita e falsa dicotomia si potrebbero retoricamente accomunare; avremmo dunque una frase come: “Alla fine il partito della nazione l’hanno fatto i Beccaria con i Bush: contro l’ergastolo”. Si coglie il paradosso?
Era evidente che costituzionalisti come Alessandro Pace e Stefano Rodotà non avessero, nel contesto, nulla a che fare con esponenti di partiti populisti e di destra, che le obiezioni dei primi fossero critiche approfondite, informate e argomentate al contenuto della proposta renziana, mentre i secondi si limitassero a fare opposizione al governo in carica. Ma fu proprio il governo in carica, attraverso la falsa dicotomia declinata in chiave personalistica, a favorire suo malgrado una polarizzazione simile. Tanto convinto della giustezza della riforma, quanto forse illuso dai precedenti risultati elettorali, Matteo Renzi era giunto a scommettere sul tavolo del referendum, puntando il suo ruolo sulla vittoria del sì: alla conferenza stampa di fine anno, il 29 dicembre 2015, prima ancora dell’approvazione parlamentare definitiva, l’allora presidente del Consiglio annunciò che avrebbe considerato fallita la sua esperienza politica in caso di bocciatura della riforma al referendum, promettendo le sue dimissioni qualora avesse vinto il no. La falsa dicotomia ‘o con me o contro di me’ aveva così raggiunto il suo culmine. E fallì.
Forse il fallimento di una strategia politica basata su una dialettica fallace, o, almeno, il fallimento di una delle parti che decise di utilizzare tali stratagemmi, si sarebbe potuto evitare concentrandosi sul merito delle questioni, fin dal principio; tuttavia ignorando, sbeffeggiando o tacitando il dissenso interno, si è invece sottovalutato il potere dell’argomentazione, e circondando i vertici delle sole alleanze plaudenti si è finito per sopravvalutare il consenso, per immaginare che sussistesse anche al di fuori del selezionato circolo osannante.
C’è da aggiungere che la falsa dicotomia di cui ragioniamo non si applica solo sul piano personale, ma anche rispetto ai temi. In ambito socioeconomico, il ricorso più diffuso a questa fallacia avviene con la presentazione di una bipartizione tra salute e lavoro. Normalmente, la disgiunzione tra questi due diritti è implicita: chi lavora senza tutele, a rischio di infortuni o di malattie professionali, potrebbe e dovrebbe opporsi all’assenza di misure di sicurezza, potendo legittimamente rifiutarsi di prestare servizio e denunciare la violazione delle norme che impongono determinati strumenti a garanzia di salute e sicurezza. Ma questa è la teoria. Nella pratica, specie quando lo squilibrio contrattuale è grave, come in caso di lavoro nero, o in situazioni di particolare povertà, o quando l’impiego è lo strumento attraverso cui garantirsi un permesso di soggiorno, le preoccupazioni per la propria salute vengono spesso tacitate per evitare di perdere il lavoro. Raramente il discorso emerge in questi termini: il ricatto occupazionale è sotteso, non necessita di essere esplicitato. Talora, però, la falsa dicotomia tra salute e lavoro viene posta anche dialetticamente. È quel che accade a Taranto e in tutti quei casi in cui l’inquinamento ambientale o l’insalubrità degli stabilimenti vengono posti in contrapposizione con i livelli occupazionali. L’artificio dialettico è fallace perché salute e lavoro non sono alternative escludenti, anzi, sono diritti complementari e l’uno funzionale all’altro, specie quando riguardano le individualità di lavoratori e lavoratrici. Il testo della nostra Costituzione, forse proprio perché elaborato grazie all’argomentazione autentica e aperta tra le diverse componenti dell’Assemblea, è particolarmente utile nell’individuare con chiarezza i concetti, ponendo definizioni, limiti e priorità. Così, ad esempio, nel sancire la libertà di iniziativa economica privata, che comprende anche la libertà d’impresa, si stabilisce chiaramente che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Lo stesso lavoro non esiste, come elemento virtuoso e come fondamento sociale, se non è dignitoso. D’altra parte la salute, intesa come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, rappresenta un presupposto per altri diritti: lo svolgimento della persona, singolarmente intesa e nelle formazioni sociali, la partecipazione, la rimozione degli ostacoli socioeconomici, così come il diritto stesso di lavorare, sarebbero frustrati qualora il diritto alla salute non fosse tutelato o, ancor più, qualora fosse posto in pericolo dall’attività produttiva presso la quale si svolge la propria prestazione professionale.
La falsa dicotomia tra lavoro e salute, spesso affermata perfino a livello normativo e giudiziario, oltre che politico, si nutre dell’allargamento del concetto di lavoro, che è un diritto, comprendendo nella nozione anche la libertà di impresa, che è invece una libertà e che, come si è visto, dovrebbe essere intrinsecamente limitata da sicurezza, libertà e dignità umana (nelle quali può ben comprendersi anche il diritto alla salute e alla salubrità dell’ambiente, a maggior ragione dopo la recente riforma costituzionale che ha reso esplicita nel testo questa interpretazione). Il lavoro contrapposto alla salute, inoltre, è implicitamente presentato come l’unico possibile: la fallacia in questione, infatti, lo pone come alternativa a un ambiente sano, mentre abbandonando questo semplicistico binarismo di pensiero possiamo comprendere come la riconversione produttiva e la riqualificazione ambientale ed energetica delle imprese sono possibilità che non implicano necessariamente la perdita di posti di lavoro o che, qualora la impongano, devono essere previste forme di assistenza e ricollocamento.
Oltre alla distorsione degli argomenti altrui attraverso la fallacia dell’uomo di paglia, oltre alla distrazione del benaltrismo, oltre alla dicotomia che polarizza temi e posizioni, e mette in contrapposizione diritti tra loro complementari come fossero alternativi, esistono altre raffinate formule per distogliere l’attenzione, facendo sì che il confronto si focalizzi sull’illusione dell’argomentazione. Troviamo infatti delle particolari fallacie che si caratterizzano per una originale – e scorretta – concezione dell’onere della prova. Senza addentrarci in particolarità ed eccezioni, basti citare il principio generale: il compito di provare un’affermazione grava su chi la sostiene. Le fallacie che vedremo di seguito si caratterizzano per una distorsione di questo percorso dimostrativo: ne sono un esempio le false analogie, con cui si fanno passare per simili elementi tra loro diversi, o la selezione di dati a proprio piacimento, con il cherry picking, o ancora il sostenere che una tesi sia vera solo perché mancano prove che sia falsa, attraverso l’argumentum ad ignorantiam, o infine la fallacia detta plurium interrogationem, che consiste nel porre domande complesse con le quali operare delle presupposizioni, affermando implicitamente qualcosa che l’interlocutore non ha sostenuto.
Di false analogie son piene le analisi politiche ed economiche: spesso, per fare un esempio, con la scusa della governabilità, si è parlato della necessità di leggi elettorali che garantissero “il sindaco d’Italia”. In innumerevoli casi si vedono proporre parallelismi tra Stato e azienda, ad esempio spiegando come sia sempre e comunque necessario il pareggio di bilancio, paragonando la gestione della spesa pubblica alla contabilità di un’impresa. Ancora, la fallacia della falsa analogia si ritrova, sul piano dei diritti, ogni volta che si confondono i doveri sociali con il prezzo di una prestazione, o quando in discorsi più o meno razzisti e più o meno nazionalisti il territorio nazionale diventa ‘casa mia’ o ‘casa nostra’, confondendo il pubblico e il privato, la nazione con la proprietà. Questi paragoni sono fallaci: le regole elettorali comunali sono più snelle, con sistemi marcatamente maggioritari, specie nei comuni più piccoli, ma le prerogative di amministrazione locale sono relativamente limitate, il rapporto tra cittadinə e rappresentanti è più stretto e, in un certo senso, più partecipato con modalità informali. Sul piano istituzionale, inoltre, la carica di sindaco rappresenta un organo monocratico. Al contrario, a livello nazionale, il nostro sistema è parlamentare, spiccatamente collegiale: le pretese di valorizzazione delle leadership degli ultimi anni, sia in ottica di riforme istituzionali, sia tramite forzature politiche, si servono dell’analogia con sistemi di elezione che, per la natura monocratica degli organi o per il modello costituzionale di riferimento, non sono paragonabili alle esigenze di equilibrio tra forze che l’impianto programmato dai costituenti ha inteso garantire. Parimenti, è fallace parlare di politiche pubbliche paragonando la gestione dello Stato e di enti locali al funzionamento delle aziende, perché lo scopo di un’impresa è il profitto, la remunerazione di soci e finanziatori attraverso la produzione di beni o servizi, obbiettivi certo rispettabili ma ben diversi da quelli istituzionali, che risiedono nella garanzia di un contesto sociale in cui si possano esprimere diritti e libertà, in certi casi limitandosi a non intervenire nelle scelte degli individui, in altri casi favorendo le dinamiche di comunità, in altri casi ancora occupandosi di garantire tutele e assistenza a tuttə, attivandosi soprattutto in favore di chi ha più bisogno. Si tende invece ad applicare il modello più semplice, quello utilitaristico delle imprese lucrative, a un sistema complesso come quello delle istituzioni e delle comunità, in cui fini e mezzi spesso si intrecciano.
La confusione tra pubblico e privato c’è anche nella falsa analogia con cui, in ottica ora razzista ora securitaria, in senso escludente o come forma di sfida beffarda, si accosta la nazione in cui si vive alla propria casa, e la propria casa viene intesa come luogo di sovranità assoluta: rientrano in questa fallacia le diverse declinazioni degli inviti a farsi carico privatamente di migranti (“se ci tieni tanto, portateli a casa tua”), così come la pretesa di essere “padroni a casa nostra”. Si paragonano contesti tra loro diversissimi, assimilandone le caratteristiche a proprio comodo: la proprietà privata di un’abitazione acquistata o il diritto di godimento di una casa in affitto concedono senz’altro a chi ci vive il diritto di scegliersi il colore dei divani così come di escludere il dirimpettaio antipatico dagli inviti per un caffè, e anche fisicamente basta chiudere una porta per garantirsi la solitudine che si desidera. Un territorio, oltre a essere tendenzialmente aperto e meno esclusivo di un edificio, non è un posto sul quale esercitare un arbitrio assoluto: i diritti vanno assicurati pure a chi è antipatico, le vittime dei naufragi devono essere soccorse, le persone profughe accolte, coloro che migrano devono poter circolare: questo, almeno, è quel che si afferma con gli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Di contro, la propria casa è sede dei propri affari privati, che comunque non possono arrivare a un arbitrio assoluto, né all’esercizio di prerogative statali come la privazione di libertà: lo Stato, a determinate condizioni e con certe tutele, può detenere persone, un privato cittadino che lo facesse commetterebbe il reato di sequestro di persona.
Al di là dei singoli esempi, l’uso di false analogie è particolarmente insidioso perché, come e più di altre fallacie, dall’errore formale, dal paragone superficiale, l’equivoco si insinua in profondità, nei concetti, e se questi concetti riguardano i diritti, i bisogni, allora lo stratagemma dialettico smette di essere soltanto uno strumento scorretto di prevalenza nel dibattito e si tramuta nel grimaldello in grado di scardinare paradigmi dello stato sociale. La falsa analogia, peraltro, rientra nelle cosiddette fallacie di ordine, o strutturali, fondandosi sul valore che riconosciamo all’ordine, alla simmetria: come si è visto nel capitolo precedente, la nostra percezione valorizza determinate caratteristiche, visive ma anche concettuali, favorendo percorsi chiusi, componenti simili, fattori rivolti verso la medesima direzione o elementi tra loro simmetrici, come per le analogie, fondate o fallaci che siano.
Ulteriore insidiosa fallacia che illude i partecipanti al confronto di assistere a una argomentazione corretta è la presentazione di dati e informazioni a supporto della propria tesi, tralasciando qualunque elemento di segno opposto. Peraltro, in molti casi, si tratta di una fallacia posta in atto inconsapevolmente: come si è visto, la nostra percezione spesso ci inganna, e siamo portati a valorizzare le convinzioni acquisite, ignorando i dati che le smentiscono, attraverso meccanismi di pregiudizi cognitivi, noti in psicologia come ‘bias di conferma’. Così descritto, il cherry picking (nominalmente la ‘raccolta di ciliegie’) potrebbe sembrare una normale forma per perorare la propria causa. Certamente è così in molti casi: non ci aspettiamo che in un tribunale chi difende l’imputato faccia notare i punti deboli della ricostruzione del suo assistito o sveli le prove della sua colpevolezza, ma è naturale al contrario che ponga in evidenza solo gli argomenti in grado di scagionarlo, o quantomeno di ridurne le responsabilità. Ma un avvocato non è considerato imparziale, è apertamente schierato a favore di una parte, le sue memorie e le sue arringhe concorrono alla ricostruzione della verità processuale, senza però rappresentarne l’unica fonte, né vantando una neutralità che non ha.
Lo stesso non può dirsi in altri àmbiti, in cui pure chi argomenta è schierato, ma propone i suoi discorsi ammantandoli di un’aura di imparzialità.
Diversi anni fa, in piena campagna per le elezioni politiche, mi capitò di intervenire a un confronto con un candidato per la web-tv di un giornale. Me ne stavo in una stanzetta grande quanto uno sgabuzzino, sola con una telecamera accesa, dritta davanti a me, in collegamento da Milano con lo studio di Roma, in cui erano presenti altri due giornalisti e un politico. Avevo letto il programma elettorale del suo partito, avevo diverse domande da porgli nel merito ma riuscii a pronunciarne solo una, che bastò a farlo inalberare. Il mio scopo tuttavia non era farlo arrabbiare, era solo corredare la sua selezione di dati con informazioni che potessero dare una visione di insieme: nelle pagine del programma, infatti, si parlava di criminalità sostenendo che in carcere fosse detenuto un alto numero di persone straniere. L’affermazione era corredata di cifre e percentuali, ma ometteva alcuni dettagli: ad esempio, non teneva conto della differenza tra chi scontava una condanna e chi era in attesa di giudizio – che dunque è, fino a sentenza definitiva, presunta persona non colpevole – né del fatto che la quota di persone straniere ammesse alle misure alternative alla detenzione è decisamente minore rispetto a quella di persone italiane che scontano la pena fuori dal carcere: “Gli stranieri fruiscono di meno delle misure alternative, poiché molto spesso non posseggono i requisiti di accesso alle misure stesse (un ambiente familiare idoneo, un’attività lavorativa che permetta di sostenersi autonomamente fuori dal carcere, un alloggio)”. Il candidato era schierato con un partito di destra, ed era iscritto all’ordine dei giornalisti; ci tenni dunque a ricordargli che restava pur sempre un giornalista, e che nella mia visione ingenua e idealistica della professione era tenuto a mostrare una certa onestà intellettuale verso chi lo leggeva. Non la prese bene, pretendendo che mi scusassi per avergli dato del disonesto (e questa, come già ha capito chi ha letto le pagine precedenti, era una banale fallacia dell’uomo di paglia: io avevo rimproverato la scarsa onestà intellettuale rispetto alle informazioni contenute nel programma, non avevo dato del disonesto al candidato).
Con il cherry picking, insomma, il gioco di prestigio consiste come sempre nella distrazione, facendo sparire ogni elemento di disturbo, inteso come ogni dato o informazione che possa smentire o porre in dubbio la propria tesi. In aggiunta, il trucco lascia presupporre che si stia veramente argomentando: si appare competenti, disponibili a fornire prove di quel che si afferma, quando invece quel che si sta proponendo nel discorso non è altro che una selezione interessata delle informazioni.
Lo stesso avviene con altre fallacie, dette pseudodeduttive, che si fondano su domande tendenziose, con cui si presuppongono enunciati come fossero già acclarati, attivando così meccanismi inferenziali superficiali, tramite cui si giunge a deduzioni scorrette. Sono complesse e composte, dunque possono essere tendenziose e fallaci, quelle domande che nascondono affermazioni: rispondere a una domanda come “Hai smesso di comportarti male?”, fermandosi all’apparenza, all’interrogativo esplicito, implica la conferma di quanto chi pone il quesito sostiene implicitamente. “Hai smesso di comportarti male?“ significa evidentemente affermare che in passato hai tenuto un pessimo comportamento, senza che l’affermazione sia resa evidente: plurium interrogationem è quindi una fallacia tramite cui si conferma una tesi implicita attraverso la risposta a una domanda complessa. Chi usa questo stratagemma non prova la sua affermazione, ma la dà per scontata e si giova della mancata contestazione di chi risponde alla domanda.
Sulla prova – o meglio, sulla mancata prova – si fonda anche la fallacia dell’argumentum ad ignorantiam: si sostiene una tesi basandosi sull’assenza di prove contro di essa. È un trucco a cui, consapevolmente o inconsapevolmente, si ricorre spesso nel presentare le teorie del complotto, come accennato anche in precedenza: siccome mancano prove sull’inesistenza della notizia, allora la notizia è vera. Siccome non si possono escludere effetti collaterali dei vaccini a lungo termine, allora senz’altro ci sono effetti collaterali a lungo termine; o ancora, siccome nessuno ha mai dimostrato che non esistono fantasmi, alieni, rettiliani, coccodrilli bianchi nelle fogne di New York, nargilli, allora tutte queste creature esistono senz’altro. Sono ragionamenti fallaci, che non significa che sottintendano notizie necessariamente false ma che, fino a prova contraria, non possono considerarsi vere: la dimostrazione spetta infatti a chi afferma qualcosa, non a chi ne dubita.
L’argumentum ad ignorantiam non è un’esclusiva del mondo complottista, è anzi una fallacia piuttosto diffusa e che in determinati periodi storici ha perfino permeato contesti sociali e sistemi giudiziari. Nei primi capitoli di un qualunque manuale di procedura penale, ma anche sulla relativa pagina di Wikipedia, si spiega che il nostro processo penale, come quello degli ordinamenti che prevedono tutele per indagati e imputati, si basa sul rito accusatorio: si instaura un contraddittorio tra accusa e difesa, con giudice tendenzialmente neutrale. L’onere della prova spetta a chi esercita l’azione penale: si arriva in tribunale perché, al termine delle indagini, il pubblico ministero è convinto che un reato è avvenuto e di sapere chi è colpevole; non si limita a formalizzare l’accusa, ma presenta le prove che ha raccolto, che saranno valutate da un giudice secondo un percorso che non è il caso di affrontare in queste pagine, ma che ci conferma che non basta affermare la colpevolezza di una persona per condannarla, serve piuttosto portare materiale a sostegno della propria tesi, consapevoli peraltro che si instaurerà un contraddittorio con l’imputato. Non è sempre stato così: un tempo il sistema penale era inquisitorio, e chi soggiaceva a un’accusa doveva fronteggiare un’entità che era insieme giudice e accusatrice, e restava solo di fronte a una fallacia istituzionale, l’argumentum ad ignorantiam elevato a massima giudiziaria. Se in democrazia si è innocenti finché non viene dimostrata la responsabilità dell’imputato, ci sono state epoche in cui si era colpevoli fino a prova contraria.
Interessante la spiegazione del sillogismo