La storia delle ricette, dall’antica Mesopotamia al food blogging contemporaneo, ha molto da dirci non solo sulla nostra relazione col cibo, ma anche con la scrittura, l’immagine, l’insegnamento e i rapporti con le altre culture.
In copertina e nel testo: Enrico Baj, Natura morta (1946) – Tempera su tavola Asta Pananti in corso
Come scrivere un longform
Ingredienti
1 Articolo di ispirazione, da testata preferibilmente estera
7-8 Articoli di argomento collegato
4-5 Libri sul tema
3 Citazioni
2 Riferimenti ad autori che apparentemente non c’entrano nulla
QB Conoscenze e competenze pregresse
Un pizzico di ironia
Procedimento
Imbattersi casualmente nell’articolo che fa da innesco: l’articolo è lì, in mezzo a decine di altri che leggete (che aprite per leggere) tutti i giorni, ma bisogna saperlo riconoscere. Farsi ispirare innanzitutto dal titolo: spesso quello che i titoli promettono e suggeriscono è molto più vasto del contenuto dei pezzi. Iniziare a sviluppare l’idea, cercare altri articoli in tema, mettere da parte gli spunti più interessanti, tagliarli a cubetti piccoli e mescolarli.
Confezionare un pitch che è già una scaletta del futuro longform, con un profilo aromatico abbastanza marcato, modellarlo sulle caratteristiche delle rivista cui lo si va a proporre, convincere la redazione della bontà dell’idea.
Leggere o rileggere i libri più strettamente collegati al tema, e qualche altro più distante, condire con le conoscenze acquisite e con altre che torneranno alla mente. Lasciare a marinare in freddo il tutto per varie settimane: questa fase di maturazione è essenziale per la riuscita del piatto, perché in certi momenti vi sembrerà di esservi dimenticati tutto, in certi altri avrete l’impressione di essere bloccati, ma intanto la fermentazione prosegue senza che ve ne accorgiate.
Trascorso uno o due mesi, ricevere un sollecito e rendersi conto che il longform è pronto per la cottura: mescolare ancora, controllare che non siano usciti nuovi articoli in tema, aggiungere i pezzi più freschi e scartare quelli più grossolani. Scrivere a fuoco lento, anche in più riprese, inserendo qua e là le citazioni e i riferimenti stravaganti. Una spruzzata di ironia è consentita, se vi piace, ma non è obbligatoria. È possibile utilizzare una forma mimetica: saggio a bivi se si sta parlando di romanzi a bivi, disposizione labirintica se l’argomento è il dedalo; ma non si esageri con tali barocchismi.
Il risultato finale dovrà essere superiore alle 10mila battute spazi inclusi, ma inferiore alle 30mila, per non appesantire il lettore. Consegnare, aspettare con fiducia che la redazione passi in abbattitore, segnalare l’eventuale presenza di elementi deperibili. Accettare le osservazioni dello chef-redattore, discutere quelle che non vi convincono, dare insieme gli ultimi ritocchi al piatto, mandare online. Controllare la presenza di eventuali intrusi (refusi, link non funzionanti). Servire sui social, tra le 12:00 e le 15:00 di un giorno feriale infrasettimanale.
Che cos’è una ricetta
Nella ricetta c’è tutto, tranne l’essenziale
(Gualtiero Marchesi)
È passato un anno dall’inizio della pandemia – e non se ne vede la fine; anche perché, lo sappiamo, le pandemie non finiscono. Un anno in cui abbiamo cucinato come mai prima: ho visto gente incapace di aprire una busta di surgelati, ora mettersi a disquisire con competenza di fermentazione lattica e fermentazione alcolica in panificazione; ho visto pentole di coccio e attrezzature per la lunga cottura sottovuoto rispuntare fuori dal fondo delle dispense; ho visto siti di ricette stracciare nella battaglia del traffico i più blasonati quotidiani d’informazione.
Perché la cucina durante i lockdown è stata antidoto contro la noia, distrazione dalla tetra realtà, ricerca di comfort food. Ma soprattutto è stata scoperta di nuovi piatti, o riscoperta di quei piatti che volevamo imparare ma non avevamo mai osato (io per esempio a Pasqua dell’anno scorso ho fatto per la prima volta la pastiera napoletana, una cosa che richiede tre giorni di preparazione e l’utilizzo di procedimenti che non si usano in nessun altro piatto, come la cottura del grano in chicchi). D’altra parte, la tendenza è di lungo periodo: nel 2021 Masterchef ha compiuto 10 anni, e sono stati 10 anni che hanno cambiato il nostro modo di guardare al cibo, diventato sempre più centrale nelle nostre vite. Dieci anni in cui ci sembra di non aver fatto altro che guardare ricette, parlare di ricette, immaginare ricette, e in qualche caso addirittura cucinare ricette.
Ma che cos’è, di preciso, una ricetta? Sembra una domanda sciocca finché non si prova a rispondere. È un po’ come la storia del buco: che cos’è un buco? Una domanda banale, a cui però non si può che fornire una risposta complessa.
Questo articolo inizia con una ricetta: al di là dell’effetto straniante dato dal contenuto, anzi nonostante quello, l’avete subito riconosciuta come tale. E ciò grazie al format, alla sequenza codificata e visivamente riconoscibile, che corrisponde al modo in cui pensiamo debba essere fatta una ricetta: una lista di ingredienti, seguita da un procedimento. Ma non è stato sempre così, nella storia, e non è sempre così, nel mondo. Se si dà un occhio ai ricettari di una volta – quelli antichi ma anche quelli più recenti, diciamo fino a metà ottocento – la prima cosa che si nota è l’assenza della parte iniziale: non ci sono gli ingredienti tutti comodamente messi in fila e soprattutto non ci sono le quantità. D’altra parte, anche negli ultimi anni una trasformazione è avvenuta sotto i nostri occhi: la ricetta del blog ha uno svolgimento diverso rispetto a quella che si trova nei libri o sui giornali. La differenza principale, ma non l’unica, sta nel fatto che la bipartizione è diventata una tripartizione: prima degli ingredienti e del procedimento, compare un paragrafo discorsivo/narrativo (nella maggior parte dei casi irritante e noioso, almeno per me). Si dirà che ciò avviene per motivi legati alla competizione algoritmica, per inserire chiavi di ricerca che rendano la pagina visibile da Google; e certo è vero, ma non è tutto.
-->Perciò se vogliamo capire davvero cos’è una ricetta, dobbiamo studiare la sua forma. Come se fosse un oggetto di ricerca teorico, immateriale. Scrive Massimo Montanari in Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi: “La cucina è stata paragonata al linguaggio: come questo, essa possiede vocali (i prodotti, gli ingredienti) che si organizzano secondo regole di grammatica (le ricette, che danno senso agli ingredienti trasformandoli in vivande), di sintassi (i menù, ossia l’ordine delle vivande) e di retorica (i comportamenti conviviali)”. E sempre il grande storico dell’alimentazione, in un libro scritto insieme a Alberto Capatti, La cucina italiana. Storia di una cultura, ricostruisce lo specifico caso italiano mettendo in parallelo l’evoluzione e la nascita di un’identità nazionale che è linguistica e culinaria. Per indagare la forma, dobbiamo indagare le forme, e quindi fare un tuffo nella storia.

Ricettari antichi…
…e metti le dicte fave in scodelle agiungendovi sopra uno pocho di brodo di carne chaldo con uno pocho di petrosillo tagliato minuto con uno pocho di cipolla fritte e tagliate minute e dipoi uno pocho di spetie dolce et a cui non piaceno le cipolle non le porre.
(Martino de Rubeis, Libro de arte coquinaria)
Proprio come le più antiche attestazioni di scrittura si trovano in Mesopotamia, anche le prime ricette scritte vengono dalla stessa zona: risalgono al 1700 a.C. e appartengono alla civiltà babilonese, a quella che l’assiriologo francese Jean Bottéro ha definito “la più antica cucina del mondo”. Sono 35 ricette, su 3 tavolette in scrittura cuneiforme: si tratta già di una gastronomia molto avanzata e raffinata, e di un modo di presentarla molto preciso; scrivere le ricette è chiaro segno di una volontà “politica” volta a cristallizzare una tradizione ben consolidata, considerandola come un vanto. Vale la pena riportarne un pezzo, tolto dal bellissimo libro Linguistica e cucina di Anna Martellotti (Olschki editore), che mi è stato di supporto fondamentale per tutta questa parte storica.
“Poi sceglierai un tegame abbastanza grande da contenere gli uccelli della ricetta; foderalo con la pasta che hai appena impastato, lasciandola sporgere di qualche centimetro, stendendo la pasta in una sfoglia sottile. Devi quindi scegliere un altro tegame che copra totalmente la superficie occupata dagli uccelli della cottura; e vi stenderai la pasta che hai tenuto da parte, dopo averla cosparsa di menta, per usarla come coperchio. Quando sarà cotta e l’avrai tolta dal fuoco, toglierai il coperchio di pasta dal recipiente e lo ungerai, ma lascerai il contenitore inferiore nel tegame fino al momento di servire”.
Come potete intuire si tratta di un piatto complesso e scenografico, una specie di pasticcio di carne in crosta, dove la pasta viene usata come pentola commestibile. Alcuni particolari sono perduti per sempre perché fanno riferimento a termini sconosciuti, ma non è difficile immaginare nel complesso l’aspetto del piatto: che tra l’altro ha una lunga storia e una continuità incredibile, fino ad arrivare ai giorni nostri nella forma del timballo di maccheroni.
Seguiranno le ricette dell’antica Grecia, il famoso De re coquinaria del romano Apicio, fino alla rinascita e alla formalizzazione della cucina tardomedievale. In tutto questo tempo però, e pur nella grande differenza di forme (per non parlare degli ingredienti e dei piatti) una costante caratterizza i ricettari e l’essenza stessa della ricetta scritta: quella di essere una forma ex post, volutamente vaga e imprecisa. Ex post perché prima di entrare in un ricettario, un piatto deve essere ben consolidato nell’uso quotidiano, sulle tavole della gente comune, o più probabilmente dei ricchi. Vaga, perché di fatto i ricettari antichi non sono dei manuali – enciclopedici o settoriali – come quelli odierni, ma più dei memo, delle raccolte di appunti con un grado di elaborazione appena più elevato, a uso e consumo di chi già cucinava. Questo perché la cucina, come la fiaba, è uno dei campi in cui il passaggio da oralità a scrittura è avvenuto più lentamente, e ancora oggi non può definirsi completo: pensate ai piatti che cucinate, quanti ne avete appresi perché li avete visti fare da altri (o vi siete arrangiati da voi) e quanti invece li avete imparati dai libri? Questi ultimi saranno senz’altro la minoranza.
Il passaggio da tradizione orale a trasmissione scritta è un momento delicato e topico, in letteratura è avvenuto millenni fa, all’altezza dell’Odissea. Scrive Giuseppe Martella su Nazione Indiana:
“L’Odissea era in origine solo la rapsodia orale capace di richiamare alla memoria e di trasmettere i contenuti di una cultura comune, le forme di un ethos condiviso. Essa poi man mano divenne una polytropia, una molteplicità di figure del discorso e dell’azione, raccolte in un unico per quanto sfilacciato intreccio e trasmesse dal nuovo media della scrittura in virtù del quale soltanto le ghirlande dei miti, l’innumerevole messe di varianti e di formule, di toni e di timbri, di registri e dialetti, poterono essere ‘logicamente’ raccolti e fissati infine in una unica versione canonica, attribuita all’ultimo rapsodo-redattore: Omero”.
Una cultura comune, uno sfilacciato intreccio: se al corpus di miti sostituiamo quello delle ricette, il parallelo regge. La prevalenza dell’oralità determina una serie di caratteristiche dei ricettari antichi: essi sono imprecisi e incompleti, perché descrivono solo o prevalentemente la cucina dei (per i) nobili. Si confondono poi volentieri con i libri scritti a uso terapeutico/salutare: la dieta, in quei tempi come in questi, è sempre a cavallo tra gastronomia e medicina. Tra l’altro il concetto stesso di ricetta era multidisciplinare nell’antichità più che adesso: c’erano le ricette mediche, le ricetta alchemiche… Oggi restano per lo più residuati nominali: il termine “ricetta” è diventato sinonimo generico di “metodo” (“La ricetta di Draghi su tasse ed evasione fiscale“). E chiamiamo ancora ricetta ciò che non lo è da un pezzo: l’impegnativa del medico consta oggi solo in un elenco di medicinali confezionati; fino a pochi decenni fa invece era una vera e propria sequenza di prescrizioni e dosaggi, a uso del farmacista che doveva assemblare i farmaci.
Infine, i ricettari antichi erano incompleti: non contenevano indicazioni su pane e affini, niente sulle conserve, e men che meno sulla pasticceria. Soprattutto, mancava il cibo quotidiano. Perché? Come accennato prima, nei ricettari medievali e rinascimentali, e ancora fino a tutto il ‘700, l’interlocutore era un collega: si trattava di libri scritti da cuochi per cuochi. Un grande esempio, che rappresenta una prima svolta nel genere, è il Libro de Arte Coquinaria scritto da Martino de’ Rossi o Martino de Rubeis, detto Maestro Martino o Martino da Como. Un primo vero ricettario, con una sistematizzazione logica interna, che rappresenta il passaggio dalla cucina medievale a quella rinascimentale. Martino si rivolge a dei professionisti, testimone ne sia il frequente uso di espressioni quali “secondo el gusto del tuo signore” o simili. Eppure si dilunga anche in preparazioni semplici come le frittate, dove invece ad esempio il precedente ricettario noto come Anonimo Toscano liquida le uova così: “de l’ova fritte, arrostite e sbattute è si noto che non bisogna dire d’esse”.
Certo anche Martino a volte è tranchant, guardate come si libera del polpo: “Per quocere polpi. Li polpi è pesce vile e da non farne stima concialo adunque come ti pare”. Ma questo ha più a che fare con il mutamento dei gusti nel corso dei secoli: oggi il polpo è riconosciuto protagonista di raffinate ricette, oltre che animale noto per la sua intelligenza (tra un po’ insomma esce dalla cucina, ma dall’altra parte, non perché troppo vile ma perché troppo nobile). Libro modernissimo per altri versi: voglio qui riportare una ricetta – tratta come tutte le informazioni precedenti dal libro Cucina italiana del Quattrocento di Claudio Benporat, edito da Olschki – sia per la lingua meravigliosa e che farà rabbrividire i meschini grammar nazi odierni, sia perché costituisce l’esempio di un genere che noi siamo molto abituati a vedere oggi: quello della sostituzione, del “senza” qualcosa. Diversi i motivi, all’epoca si faceva a causa degli obblighi religiosi che imponevano giorni di magro, cioè senza prodotti di origine animale; oggi si fa lo slalom tra allergie, intolleranze, scelte etiche e dietetiche. Ma guardate se non vi sembra di sentire le sirene dei contemporanei clicbait, “Il trucco per fare il burro senza burro!”.
“Per contrafare butiro di quatragesima
Prendi similmente come e dicto di sopra una libra di mandorle nette e peste molto bene e con mezo bichieri dacqua rosata le passera per la stamigna che siano bene strette e per fare che si stringano bene forte li agiugnerai uno pocho di farina damido ho vero che sera meglio uno mezo bichieri di brodo di luccio con quattro once di zucharo e zafarano pocho per farlo giallo passando ogni cosa come ho dicto quanto piu stretto potrai poi li darai la forma amodo dun pane di butiro il metterai aprendere la sera per la mattina in luogo freschissimo.”
Un’altra particolarità piuttosto divertente dei ricettari antichi, in parallelo con l’assenza di pesi e misure, è la vaghezza delle indicazioni temporali: cuoci per 10 minuti? No, per la durata di due padrenostri (così unisci l’utile al dilettevole). Peculiari e sintomatiche del passaggio dei tempi sono anche le cosiddette formule conclusive: vi possono comparire annotazioni estemporanee, come quella di un ricettario arabo del 1200 che chiude una ricetta specificando: “Questo piatto è degno di essere posto di fronte a re” – la cui lettura mi ha particolarmente commosso perché è molto simile a una frase che diceva mio padre, nel presentare una pietanza che riteneva gli fosse venuta particolarmente bene. Ma c’è una grande differenza tra “servi in tavola”, o addirittura “manda in tavola” che fa immaginare un vasto stuolo di servitori addetti a ogni diversa funzione; e dall’altra parte un semplice “mangia”. Ancora una volta, poche semplici parole indicano chi cucina, e per chi.

… e ricette moderne
PISELLI. Acquistate piselli precotti in scatola. Una scatola da 250 g sarà sufficiente per due o tre persone. Aprite la scatola. Versate il contenuto in una ciotola. Scolate il liquido; ve n’è sempre in eccedenza.
(Edouard de Pomiane, La cuisine en dix minutes, ou l’adaptation au rythme moderne)
Un momento di passaggio le ricette lo vivono nella prima metà dell’Ottocento, a Napoli. Iniziano a uscire libri, come La cucina casareccia, che non riportano il nome dell’autore. E che sono manualetti agili, pieni di ricette semplici, proprio quelle che prima non si trovavano; veicolano “una cucina sana, economica e moderna” come fa notare Luca Cesari nel suo recente Storia della pasta in dieci piatti (il Saggiatore). Non sono scritti da grandi cuochi per altri cuochi, ma da compilatori anonimi, e destinati alle famiglie. È una piccola rivoluzione. Che troverà conferma, sempre a Napoli, con la Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, nel 1837. La semplicità di questa ricetta, per oggetto (pasta al sugo), presentazione (poche righe), scrittura (il dialetto, che Cavalcanti usa per le ricette popolari, riservando l’italiano ai piatti elaborati), merita la citazione integrale:
“Vermicielli co le pommadore. Quann’è lo tiempo, pigliarraje tre rotola de pommadore, le farraje cocere, e le passaraje; po piglia no terzo de nzogna, o doje mesurelle d’uoglio, lo faraje zoffriere co na capo d’aglio, e lo miette dint’a chella sauza. Doppo scauda doje rotola di vermicielli, e vierdi vierdi li levarraje, e nce li buote pe dinto: falle chini di pepe, miettence lo sale, e poi vide che magne!”.
E a proposito di formula conclusiva, che poesia è questa?
Nella seconda metà dell’800, poi, iniziano a comparire le misure degli ingredienti: già Cavalcanti come si è appena visto lo faceva, ogni tanto; uno dei primi a inserirle in maniera sistematica è Giovanni Vialardi nel suo Trattato di cucina, anche se grammi e numero di ortaggi da usare sono posti direttamente nella parte discorsiva. Dovrà arrivare l’Artusi, per codificare questo come tanti altri aspetti della cucina italiana: La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è una sorta di summa del passato e fondamento del futuro, di excursus tra le cucine locali e costruzione di una identità nazionale. Pur se sarebbe arrivato il momento di riconoscere quello che Anna Martellotti ha il coraggio di scrivere chiatto e tunno, come si dice a Napoli: “i piatti regionali, specialmente del sud, erano stati emarginati e quasi cancellati dal geniale e fortunato manuale di cucina ‘italiana’ tutto orientato a nord di Pellegrino Artusi”. Comunque, sua è la definitiva tripartizione della ricetta, che arriva fino a oggi; una presentazione storico-pratica, la lista degli ingredienti in colonna con tanto di pesi, il procedimento.
Ultimissima cosa da dire sugli elementi costitutivi di una ricetta, e che riguarda le sue più contemporanee evoluzioni: l’apparato iconografico. Manco a dirlo, nei ricettari antichi non compaiono riproduzioni a uso pratico. Quando nel corso del ‘900 iniziano ad apparire le foto, sembrano avere più una funzione scenografica, per lustrarsi gli occhi, che prescrittiva: l’immagine era più legata all’arte, evocativa. Ricorderò sempre le strane sensazioni che mi metteva addosso il tomo che campeggiava nella cucina di casa mia quand’ero piccolo, con il contrasto tra l’aulico titolo Il talismano della felicità, e la riproduzione del Mangiatore di fagioli in copertina. Le foto attuali sono da un lato degli inviti (guarda che bello, cucina questo!) dall’altro delle prescrizioni intimidatorie (deve venirti così!): Julian Barnes nel suo Il pedante in cucina (Einaudi) mette in guardia contro questa trappola, da un lato la lusinga del piatto invitante, dall’altro l’inevitabile delusione.
Siti e blog gastronomici hanno messo in atto un ulteriore passaggio: ora non si fotografa più il piatto finito, o certi passaggi particolari, ma tutto il procedimento nella sua completezza, a partire dagli ingredienti grezzi, ben disposti in maniera artistica sul tavolo, e illustrando ogni minimo dettaglio, non sia mai il cuoco in erba non sappia come porre le uova in una ciotola. Elemento così essenziale, sono diventate le foto, che alcuni siti di cucina durante il primo lockdown, quello duro della primavera 2020, a un certo punto hanno semplicemente smesso di pubblicare ricette, perché non si potevano fare gli shooting dei procedimenti.
Oggi il panorama delle forme di ricetta è vasto e vario: si va dalla corazzata web Giallozafferano (decimo sito nella classifica generale, per capirci) alle divagazioni di Aldo Buzzi e Tommaso Melilli. Per finire con quel particolare tipo di ricette che sono i disciplinari: nati per proteggere le specificità regionali, i disciplinari rappresentano l’estremo grado del formalismo. Presentano tutti gli elementi essenziali di una ricetta, dagli ingredienti al procedimento, ma la loro finalità è più che prescrittiva, è normativa. Il disciplinare è fatto per essere usato come una clava in un’aula di tribunale, non come una cucchiarella in cucina; e in questo modo spesso finisce per soffocare di un amore troppo oppressivo i suoi figli, le specialità che vuole salvare.

Come si usa una ricetta
Cucinare è la trasformazione di un’incertezza (la ricetta) in una certezza (la pietanza) facendo un sacco di storie.
(Julian Barnes, Il pedante in cucina)
Fino ad ora abbiamo indagato cosa è una ricetta dal punto di vista teorico, oggettivo, statico: com’è, che forma ha, in che modo la intende chi l’ha scritta. Ma c’è tutto un altro versante, il punto di vista pratico, soggettivo, dinamico: come si fa, come si utilizza una ricetta?
Possiamo dividere il mondo cucinante, quindi il mondo, in due grandi categorie, due vere scuole di pensiero: i formalisti e i sostanzialisti, i letterali e gli interpreti, i classici e i jazzisti, i pedanti e i fanfaroni, i platonici e gli aristotelici. Insomma, quelli che ritengono che la ricetta sia un copione da seguire alla lettera, e quelli che la considerano un canovaccio su cui improvvisare. Il dibattito ferve, oggi più che mai.
Il capofila dei letterali è, naturalmente, Barnes. Il romanziere de Il senso di una fine si autodefinisce pedante, e ha scritto un intero libro dedicato ai ricettari e al modo in cui approcciarli. Barnes è quello che quando trova i tre passaggi di una ricetta numerati 1, 2 e 4 va così in panico che telefona a casa dell’autrice del libro. È quello che dedica un intero capitolo al “problema della cipolla”: cipolle piccole medie e grandi, un’indicazione talmente generica da risultare paralizzante, per non parlare del fatto che si possono poi tritare o affettare, e finemente o grossolanamente. È quello che vorrebbe ricette più precise e complete, che includano anche “il know-how del fare la spesa”. La nemesi del pedante è scoprire che nessuna ricetta è immutabile, non solo nei secoli ma anche nei mesi: è comico ma comprensibile il dolore ontologico che Barnes affronta quando viene a sapere che lo chef autore di una rubrica settimanale non segue più (non ha mai seguito?) le sue stesse indicazioni su come versare il brodo nel risotto. E questo, en passant, fa capire ancora una volta quanto sia inutile accapigliarsi sulla “vera” ricetta di un piatto noto, o peggio ancora sulla ricetta “tradizionale”, sulla ricetta “originale”. Discorso enorme, e che per fortuna esula dal presente pezzo.
Come tutti gli apodittici, Barnes non è un prepotente, ma un insicuro. Vorrebbe essere coccolato dalla ricetta, se non dal suo autore in persona. Parla di Pomiane, che oltre a scrivere delle provocatorie ricette da 10 minuti, come quella sopra riportata, ha elaborato anche ricette serie.
“Bœuf à la ficelle (filetto di manzo immerso in acqua bollente con uno spago). Una volta cotto, vi viene detto: «Estraete il manzo dalla pentola ed eliminate lo spago. La carne si presenta grigia all’esterno e non molto appetitosa. In questo momento potreste sentirvi un po’ avviliti». Non è forse una delle frasi piú incoraggianti e a misura di pedante che un cuoco abbia mai scritto? «Potreste sentirvi un po’ avviliti». Chissà, magari oltre al tempo di cottura e al numero delle porzioni, le ricette dovrebbero includere anche un indice di probabilità di avvilimento. Da uno a cinque nodi dell’impiccato”.
Seguire una ricetta alla lettera può essere anche una scelta culturale, politica: non espressione di rigidità, ma di apertura mentale. È quello che sostiene Genevieve Ko sul New York Times: “il mio buon proposito per il 2021 è seguire le ricette”. Il ragionamento è questo: chi cucina, il professionista come il dilettante di grande esperienza, padroneggia una serie di tecniche generali, si affida a dei pattern; così, facilmente, nell’eseguire un piatto nuovo tenderà a metterci del proprio, a utilizzare i suoi trucchi e ad assecondare i suoi gusti. Il risultato sarà buono, perché le competenze di base ci sono, ma non sarà mai sorprendente, non sarà mai nuovo. “Le ricette esistono per essere seguite”, scrive Ko, e conclude con una meravigliosa mise en place, scusate volevo dire mise en abyme, dando “la ricetta per seguire le ricette”.
Il campione dei jazzisti, sorprendentemente ma non troppo, è lo storico Massimo Montanari, che addirittura auspica il superamento della ricetta. Scrive ne Il riposo della polpetta (Laterza):
“La cucina è fatta soprattutto di libertà, di differenze, di varianti. Lo sapevano bene i cuochi del passato, quando, mettendo per iscritto le loro ricette, non si sognavano neppure di pensare che fossero quelle “vere”, da eseguire per filo e per segno: lasciavano, invece, alla pratica e all’inventiva di ciascuno la libertà di «variare sapori e colori» (come leggiamo in un testo italiano del Trecento), ovvero di rispettare il gusto dei commensali, o le abitudini del luogo. Anche i più grandi professionisti (un Bartolomeo Scappi, autore del più importante ricettario del Rinascimento italiano) si limitavano a ‘raccontare’ le loro ricette, mettendone insieme più di una per ciascun tipo di vivanda, proprio per suggerire la non-esistenza di un codice obbligatorio da seguire. (…) il mio manuale di cucina preferito è un aureo libretto scritto da Gualtiero Marchesi un po’ di anni fa, dove non si trova nessuna ricetta, ma solo la spiegazione delle tecniche di base per conservare tenera la carne, per rendere croccante il risotto, per non far perdere sapore alle verdure… Dopo di che, liberi tutti”.
Simile ragionamento fa un pezzo di Navneet Alang su Eater, intitolato What Is a Recipe, Really? (Che cos’è, davvero, una ricetta? Sì esatto, è quello che mi ha dato l’ispirazione, anche se non parla di quello che credevo): ci sono persone che trattano le ricette come gli ortodossi le sacre scritture, prendendole alla lettera, e senza metterle in discussione.
“Un approccio intertestuale al cibo consiste nel trattare la cucina come tante unità da distribuire in modi diversi: una base caramellata per aggiungere sapore, una tecnica o un ingrediente per aggiungere l’umami, un’erba o un sottaceto per aggiungere una nota alta, speziata. È l’idea del gusto come una sorta di melodia – le note basse dell’umami, gli acuti dell’acido o del calore o dell’amaro, la gamma media della terrosità – ma anche della cucina come abilità che emerge da come metti i pezzi di tecnica e ingredienti insieme. È una sorta di differenza tra un libro di cucina come raccolta di ricette e Salt, Fat, Acid, Heat di Samin Nosrat, che l’Atlantic ha definito più una filosofia di cucina che una guida passo passo”.
Il paragone con la musica è ricorrente: non a caso la citazione posta all’inizio del primo paragrafo è una frase che il grande chef e teorico della cucina Gualtiero Marchesi ha mutuato dal grande compositore e direttore d’orchestra Gustav Mahler (i due condividono anche le iniziali, oibò): “Nella partitura c’è tutto, tranne l’essenziale”. In scia, Sam Sifton sul New York Magazine, teorizza esplicitamente: la ricetta è come uno spartito, un pezzo di carta muto, se non viene letto e interpretato da una persona. E parla di jazz, con un parallelismo perfetto: da un lato una sequenza di istruzioni (gli accordi, la ricetta), dall’altro una conoscenza generale delle regole (le scale, le tecniche di cucina), dall’incontro nasce la musica, la pietanza.
E per quanto riguarda la cucina come modo per scoprire le culture “altre”, l’apertura mentale che si diceva sopra, attenzione, perché tra la scoperta e il colonialismo il passo è breve. Lo scrive Alicia Kennedy nella sua sempre interessante newsletter: va bene cucinare piatti esotici, ma non ci illudiamo che sia una scorciatoia per conoscere una cultura diversa, o peggio ancora per immedesimarsi, entrarci dentro. A questo proposito, per dire quanto sono intimi e scivolosi questi temi, un’altra lettura interessante è il dialogo tra due cuoche e scrittrici sulle pagine di Bonappetit: Priya Krishna e Yewande Komolafe sono rispettivamente indiana e nigeriana, e parlano del whitewashing nelle ricette dei loro paesi, ovvero di come il discorso sul cibo diventi euro-americano-centrico anche quando parte per avvicinarsi a tradizioni differenti. Uno “sbianchimento” che riguarda gli ingredienti (con la frequente richiesta di sostituti), il dilungarsi in spiegazioni su procedimenti e cibi che sono ovvi per chi appartiene alle culture di origine, la semplificazione (“facile”, “veloce”), fino all’imposizione del corsivo per allontanare e rendere esotico un nome (perché “macaroni” va bene e “riso jollof” deve andare in corsivo?).
Alla fine – pensavo qualche giorno fa mentre tentavo di preparare una babka, una brioche ebreo-polacca che non avevo mai provato a fare, e però neanche mai provato tout court – alla fine il mio esperimento non è meno pretenzioso e fantascientifico delle cene medievali imbandite da simpatici matti in costume: sono entrambi piatti lontani, in un caso nel tempo, in un altro nello spazio. Facile ironizzare sulla riproduzione delle cucine estinte: l’archeologia alimentare può definirsi una branca della letteratura fantastica al pari della teologia o dell’esobiologia. Ma se invece cucinare ricette medievali fosse l’unico modo per studiare la gastronomia del passato? È quello che sostiene Enrico Carnevale Schianca nell’introduzione a La cucina medievale (Olschki). Torna il paragone con la musica, quella classica stavolta.
“Forse che ai tempi di Mozart gli strumenti musicali non erano diversi dai nostri? E non erano diverse le cognizioni di acustica, la sensibilità degli esecutori, il gusto degli spettatori e le stesse modalità di approccio ai concerti? (…) Soltanto al principio del secolo scorso, le rare testimonianze fonografiche di esecuzioni liriche rivelano maniere non più condivise ai giorni nostri; e quando andiamo all’opera, assistiamo (che ce ne rendiamo conto o non) al ‘rifacimento’ di una creazione artistica pensata ai tempi di Carlo Alberto e resa attualmente fruibile con una ennesima interpretazione, grazie allo spartito sopravvissuto; e sono sopravvissuti anche gli spartiti dei polifonisti del Duecento, che vengono del pari eseguiti, anche se la fedeltà alle esecuzioni medievali è tutta da immaginare”.
Ora mi ci vorrebbe un’uscita elegante, una formula conclusiva che vi lasci un buon retrogusto. Ma sono già andato oltre il limite, pur amplissimo, che io stesso mi ero prescritto. E non vorrei proprio che il piatto vi risultasse indigesto.
Articolo molto bello, apprezzato particolarmente essendo una collezionista di ricette di cucina