Rifondare la causa per il merito

Il dibattito sul merito, e la meritocrazia, avanza da anni tra idealismo e realismo. Trovare un compromesso tra i due poli, però, è l’unica soluzione accettabile.


In copertina e lungo il testo illustrazioni di Emil Schachtzabel

di Vittorio Ray

 

È partita una nuova ondata di dibattito sul merito. Pochi altri temi vengono trattati nel mainstream con una tale idiozia, malafede, mantenendosi sempre a un livello di sterile disputa nominalista e senza mai voler dipanare la matassa. Si azzuffano posizioni apodittiche, che non comunicano tra loro, e che addirittura rivendicano di parlare lingue diverse proprio al fine esplicito di non capirsi e non farsi capire. Proviamo a sciogliere qualche nodo.

Che cosa intendiamo per “merito”? Sorprendentemente si sono accavallati nell’italiano (e soprattutto in questo dibattito) due concetti indipendenti e ben separabili nella mente: da un lato il “merito” cioè il risultato di un processo in cui ci si è impegnati, un traguardo che ci si è faticosamente – appunto – meritati, frutto del sudore, etc.; dall’altro, il mero risultato finale, incurante di tutti i passaggi di fase precedenti. La fotografia di una situazione in un dato momento, senza ulteriormente specificare come ci si è arrivati. È quella che in termodinamica si definirebbe una variabile di stato, cioè una misura che non dipende dalla storia particolare del processo ma solo dal risultato finale: in questa sede la chiameremo “valore”. 

Al merito abbiamo già accennato; ma come si forma il valore negli individui? Proponiamo qui un modello semplice e basato sull’intuizione, in cui il valore è frutto di tre variabili: dedizione/impegno personale; ambiente di crescita (benessere affettivo ed economico, da cui stimoli intellettuali, conoscenze, etc.); predisposizioni naturali (bellezza, intelligenza, carisma, forza di volontà, etc.) (la forza di volontà, si sarà già notato, è il trait d’union o la ghiandola pineale cartesiana che lega il primo e il terzo elemento, cioè dono e merito; ma non complichiamo troppo). Queste tre variabili, ognuna in proporzioni che ci guardiamo bene dal volere indagare, concorrono alla formazione del valore intellettuale, spirituale o estetico di un filosofo, un artista, un medico, un pilota, Miss Italia, Mister Italia, il capitano della nazionale, il presidente del consiglio.
Come è evidente, solo la prima di queste variabili può essere strumento di merito lungo un percorso. Le altre due sono tragicamente, puntualmente e iniquamente assegnate dal caso.

Risolta l’ambiguità del termine “merito” e separati nei due significanti – valore e merito – i suoi numerosi significati, proviamo a tradurre le posizioni esistenti sul tavolo del dibattito nei termini appena chiariti.

In ottica conservatrice, dietro un superficiale paravento argomentativo che cerca di nascondere il ruolo del censo nella formazione del valore, c’è un sincero e malcelato disinteresse per la mobilità sociale: non c’è nessun problema nell’ereditarietà del potere, del ruolo, del prestigio o della ricchezza; la mobilità sociale non è un valore in sé.
Secondo la prospettiva progressista e oggi egemone (almeno nella ammissibilità del dibattito pubblico), bisogna invece premiare solo il merito sudato, legandolo il meno possibile al valore oggettivo e misurando invece solo l’impegno, l’ampiezza del salto tra due stati. Un esempio paradigmatico di questa egemonia ci viene da una mente trasversalmente apprezzata e riconosciuta, il prof. Alessandro Barbero, che in un’intervista a Repubblica di due anni fa disse testualmente: «se proprio vogliamo usare la parola merito, ne ha di più la matricolina uscita dall’alberghiero che strappa il 25, rispetto a chi sapeva già le cose prima di arrivare all’università». Se siamo d’accordo sul fatto che il merito (da cui meritocrazia) è solo quello sudato, quest’ultima affermazione è lineare e ineccepibile. 

Arriviamo finalmente al cuore del problema: a quale società può servire un criterio così morale, soggettivo e progressista di meritocrazia, cioè di selezione e assegnazione dei posti al vertice della piramide?
Forse alla società che abbiamo sognato di essere negli ultimi decenni, una società del primissimo mondo che si pone ormai esclusivamente problemi morali, di chi ha raggiunto il plateau del benessere e pensa durerà in eterno e senza ulteriori sforzi; una società che ha la coscienza pulitissima (perché ha addirittura appaltato la gestione della sicurezza esterna ad altri eserciti) e ha rimosso dal dibattito i problemi materiali e oggettivi propri dei paesi che competono, in modo più o meno aggressivo, più o meno violento. Lo vediamo già in tanti ambiti, compresi quelli dello sport e della bellezza: la competizione non è più una dinamica a cui ci sentiamo chiamati, né dalla necessità contingente né dalla nostra natura; anzi, è una dinamica che fa soffrire perché implica vincitori e sconfitti, e ovunque possibile va rimpiazzata da attività meno traumatiche e criteri più irenici. Una società che cerca di premiare il meno possibile, oppure – se proprio un premio va dato – premia chi è partito da pochissimo, “dall’alberghiero”, e si è sforzato – senza metterci poi col pallottoliere a contare il risultato. Una società da fine della storia.
Se le premesse fossero ancora vere o almeno condivise, è importante notarlo, una società del genere – tolti i gusti di qualche irriducibile amante della lotta – sarebbe davvero una società molto desiderabile. E d’altronde, se siamo arrivati più o meno qui, un motivo ci sarà stato.

Proviamo però adesso a capovolgere il paradigma delle condizioni al contorno, immergendole nell’iperrealismo di un mondo in cui la guerra è uno scenario possibile, la competizione esiste e con le gerarchie qualitative di ogni ente reale bisogna fare i conti, negoziando piuttosto che negando. Difendiamo quindi l’altro caso, basato non sul merito ma sul valore (conieremmo volentieri “valorocrazia”, se non fosse così orribile). Perché il valore?
Alcuni spunti, senza pretesa di esaustività. Per aumentare il benessere materiale e spirituale della società, che è storicamente dato e va riconquistato ogni giorno. Per progredire, che molto prima che una nobile ambizione è una necessità del genere umano. Per gestire le risorse in modo più efficiente e “giustificabile verso l’interno”, perché il meno possibile vada sprecato, e quello che c’è venga moltiplicato. Per gestire le risorse in modo più efficace e “giusto verso l’esterno”, cioè per competere meglio con gli Altri (civiltà, blocchi geopolitici, eserciti). Per uscire quindi dalla “fine della storia” nella quale siamo immersi ancora oggi (anzi, forse un po’ meno negli ultimi mesi), cioè l’idea per cui il risultato finale dei nostri sforzi non abbia che un valore morale e interno alle nostre coscienze. E invece no: ha anche un valore oggettivo, storico, e prima o poi questo valore dovrà misurarsi con quello degli altri. Tradotto in esempi banali e pratici: se i manager di una nazione o di un’alleanza diventano sistematicamente più bravi dei nostri perché noi non valutiamo più i risultati a valle ma solo le caratteristiche a monte (ad es. la composizione secondo il genere, gli orientamenti sessuali, le etnie, etc.), se il loro apparato militare diventa più forte, se usiamo sempre più piattaforme e tecnologie sviluppate da loro, se la loro musica è più bella, se la loro produzione filosofica è più profonda e aderente alla realtà, a un certo punto, dobbiamo dircelo, si pone un problema.
Infine, e lo abbiamo tenuto fino a qui per introdurre poi un discorso più strettamente politico: per non intralciare e frustrare chi, secondo il modello di sopra, è nato o ha sviluppato qualità che in certi ambiti sono superiori agli altri, e piuttosto potenziarlo e aiutarlo a realizzare le sue ambizioni personali. Perché solo investendo a nome e nell’interesse di tutta la società nella formazione delle élite, un giorno si potrà rivendicare una equa socializzazione del frutto del lavoro dei singoli. Se il successo personale (e sappiamo che, almeno nella vulgata, è spesso il caso) può avvenire nonostante lo stato, nonostante il tentativo di appiattire le eccellenze e boicottare chi prova a emergere, quando il singolo sarà davvero riuscito a spiccare il salto non sentirà nessuna riconoscenza verso il gruppo, e il suo naturale, umano egoismo non sentirà alcun freno al momento di stabilire la residenza fiscale. Non vogliamo scoprire l’acqua calda, nei fatti è sicuramente più complicato di così, trattandosi, in fondo, dell’eterno problema di controllare i controllori, ma anche solo nella teoria sembra che ci siano solo due poli ammessi a dibattere: da un lato chi vuole redistribuire, e dal lato opposto chi crede nel merito (cioè nel valore, ormai dovremmo capirci). Manca quindi una sacrosanta posizione di sintesi, che voglia investire nel valore degli individui proprio per essere legittimata a godere collettivamente del prodotto di quel valore. Ed è qui, alla fine della vendemmia che va giocata la battaglia politica: non cercando di bruciare le viti migliori.

Provando a sintetizzare quanto detto, ridurre i criteri di gestione della -crazia allo stretto recinto del merito-meritato è una fantasia perversa e moralista, inutile o più spesso controproducente. Bisognerebbe invece allargare lo schema, riconoscendo che più del merito conta il valore finale, ed è quel valore lì (il fine e non il mezzo) che va rimesso al centro al centro della politica, eventualmente ridistribuendone i frutti, mitigando le differenze sociali, etc. Per usare un esempio noto: il medico lo fa chi nasce più portato e si impegna di più negli studi – come si diceva una volta, lo fa chi è più bravo; poi stabiliamo chi cura, a quali prezzi, quante tasse paga e ai figli di chi daremo i soldi di quelle tasse – cioè cerchiamo di ridurre le distanze iniziali che hanno provocato ambienti di crescita (secondo punto dello schema di sopra) iniqui e probabilmente hanno impedito a molti talenti di emergere. Ma se innanzitutto non riconosciamo la struttura differenziata della natura, e non assecondiamo le inclinazioni naturali di ognuno (“da ognuno secondo le proprie capacità” diceva il dimenticato poeta), allora questo sarà il modo migliore per: raccogliere un decimo del raccolto; incattivirci e abbrutirci internamente, e lentamente perdere terreno nella competizione con l’esterno; infine, concedere a chi riesce a sfuggire alle maglie dell’egalitarismo di facciata la giustificazione perfetta per scappare col bottino senza voltarsi indietro.


Vittorio Ray è nato a Roma. Giornalista freelance, si interessa soprattutto di cultura e società.

4 comments on “Rifondare la causa per il merito

  1. Il discorso sul valore è fallace: siamo d’accordo che preferiremmo tutti essere curati oggi dal dottore che ha preso 30 venendo dalla famiglia ricca che dal dottore che ha preso 25 venendo dall’alberghiero. Ma se a parità di background il secondo avrebbe preso 30 e lode, allora stiamo costruendo una società sub-ottimale e, utilizzando la “valorocrazia”, la stiamo mantenendo e le diamo continuamente linfa. Il modo migliore per progredire è invece a) uguagliare le condizioni di base dei due dottori e b) se possibile, portare entrambi al livello del primo, massimizzando le loro potenzialità.

  2. Claudio Foresti

    Desidero dare il mio contributo alla discussione sul merito. Senza dilungarmi aggiungo che a mio parere la riflessione va arricchita mettendo l’accento sul valore sociale del merito. Nel senso che il valore del merito in una società liberista è ormai solo economico. O rende soldi o non vale nulla. Ovviamente salvo eccezioni che di solito vengono riconosciute dopo morti. Quindi vanno aggiunti altri elementi che devono equilibrare questa stortura. Sono l’opportunità e l’uguaglianza. Penso perciò che si deve sì discutere di merito. Aggiungendo che il parametro dovrebbe essere “Merito e uguali opportunità”.

  3. Articolo di valore, si merita un commento positivo ed una lettura attenta. I miei complimenti.

  4. Rita Magri

    Non sono d’accordo. Esiste una variabile che è la discriminazione che colpisce certe persone, povere, donne, etc. Di solito chi giudica (parlando di merito o valore bisogna pensare anche a chi lo deve goudicare) appartiene sempre ad un élite sociale ed è affetto da bias. Per fare un esempio, perché l’alberghiero dovrebbe prendere 25? Potrebbe prendere 30 lode anche lui. Ma vada a vedere quanti ordinari all’università vengono dallo strato sociale più basso. La mia vita ne è un esempio. Nessuno credeva che avrei potuto arrivare a certi livelli e non ho di conseguenza avuto quello che mi serviva per arrivarci. Ci sono arrivata lo stesso, da sola. Peccato mortale. Oggi sono ignorata da tutti e ovviamente sono i figli dei ricchi e istruiti che sono stati considerati meritevoli e promossi (mio padre analfabeta, non parlava italiano, anche mia madre ha fatto solo fino alla seconda elementare, poverissimi). Se vuole le mando informazioni e CV. Sono stanca di tutte queste discussioni che non considerano il privilegio, che non è solo essere nato nella famiglia che ti può offrire molto (e questo ha un gran peso) ma soprattutto avere tutte quelle relazioni sociali “giuste” con chi ha potere nella società.

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