Ci sono delle ragioni precise per cui a Hong Kong si prova nostalgia per il passato: esisteva la sensazione che tutto potesse migliorare, un processo che portasse alla democrazia e una società aperta. Oggi quello di Pechino è visto come un nuovo colonialismo, ma che non lascia immaginare miglioramenti, né rispetto per l’identità territoriale.
In copertina e lungo il testo: opere di Chow Chun Fai
L’8 Settembre 2022 è la data della morte della Regina Elisabetta II. Difficile da dimenticare: per quasi un mese i media ci hanno raccontato ogni possibile dettaglio legato alla sua figura, ritratti squisitamente biografici, come la sua passione per gli abiti con i colori pastello, l’amore incondizionato per i cavalli, i turbolenti rapporti con Lady Diana. Da parte della società civile esiste ancora un’incredibile fascinazione nei confronti della nobiltà, soprattutto quando conflittuale, in bilico tra antico e moderno.
Da queste parti del mondo, nonostante una grande quantità di storie nazionali che passano per l’abbattimento di una monarchia e della nobiltà (e a volte anche per qualche testa letteralmente fatta volare per aria), di cui si forgiano i patriottismi dei regimi democratici, rimane l’anomala fascinazione per quello che fanno i reali inglesi. Soprattutto quando mettono in crisi il loro status quo, come quando il principe Harry ha deciso di abbandonare il suo ruolo negli incarichi pubblici. Nella cultura popolare c’è, ancora oggi, qualcosa di mitico nei confronti dei reali inglesi.
Come direbbe Roland Barthes in un intervento di Miti d’Oggi, “È strano che tale carattere mitico dei nostri re sia laicizzato ma per niente scongiurato all’espediente di un vago scientismo”.
La morte della Regina Elisabetta ha scosso milioni di persone sotto tanti aspetti. Per quanto mi riguarda è l’ennesimo pezzo di Novecento che fa rumore, che presenzia e fa sentire la sua immanenza anche quando deve morire. Ma la dipartita di Elisabetta II è stata anche un momento di riapertura di analisi e discussioni sul passato coloniale inglese e della lunga ombra dell’impero che fu.
Il regno di Elisabetta è stato il regno della stabilità, ma anche dei colpi di coda della violenza di un impero che era ormai al suo epilogo, come la repressione degli indipendentisti Mau Mau in Kenya o dei Troubles Irlandesi. Come fa notare Il Post è difficile posizionare una figura formale come quella della Regina in dinamiche nelle quali chi prendeva le decisioni era esclusivamente la classe politica (e borghese) d’Inghilterra.
-->E per dirla con il giornalista Pierre Haski, Elisabetta è stata “la regina di un impero scomparso”. Scomparso dall’Africa ai Caraibi, passando per i territori asiatici.
Quando la regina Elisabetta è morta migliaia di cittadini di Hong Kong hanno riempito le vie depositando foto della regnante, accendendo candele, scrivendo preghiere. Il lutto, non è un eufemismo, aveva assunto i toni di un lutto nazionale. Admiralty è uno dei distretti centrali di Hong Kong, costruito dagli inglesi come porto militare nel diciannovesimo secolo. Come fa notare la BBC, lasciavano eseguire “God Save The Queen” dagli smartphone mentre con l’altra mano tenevano gli ombrelli per ripararsi dal sole. Chiamano la regina si tau por, che si pronuncia “see-tao-pohr” e in cantonese sta per “the boss lady”. A differenza di tante altre ex colonie, che hanno dato di poco conto alla notizia della morte della vecchia regnante, nella regione speciale di Hong Kong le cose sono andate diversamente.
“L’Union Jack venne piegata solennemente alle 23:59:48 da una guardia d’onore, mentre la banda suonava God Save the Queen. Al termine delle ultime vibrazioni dell’inno britannico ci furono dodici secondi di silenzio, perché Pechino non voleva rischiare che le note dei due inni si mescolassero. Così, a mezzanotte precisa, mentre la bandiera rossa cinese veniva issata, la Marcia dei volontari erompeva nello spiazzo a fianco del Convention Centre, al cui interno si preparavano altre cerimonie, il banchetto solenne e i giuramenti al nuovo potere sovrano. Dodici secondi di silenzio fra una bandiera e l’altra e fra un inno e l’altro, un insignificante lasso di tempo divenuto indelebile: dodici poetici secondi in cui Hong Kong fu esclusivamente sé stessa.”
Questo è un estratto di una delle prime pagine de L’Eclissi di Hong Kong. Topografia di una città in tumulto, saggio edito da add editore, uscito da qualche mese, scritto da Ilaria Maria Sala, che ad Hong Kong ha vissuto e vive tutt’ora, scrittrice e giornalista (collaboratrice con The Guardian, Hong Kong Free Press e Internazionale).
Quando ho cominciato a interessarmi della nostalgia britannica ad Hong Kong, l’Eclissi è stata una lettura benefica; che va a strati, attraversa macro e micro storia, che riesce a tenere uniti puntini apparentemente distanti. Inoltre è un libro scritto con affetto e intimità nei confronti della regione ed è la conseguenza del fatto che Sala vive lì da tanti anni.
Ne l’Eclissi di Hong Kong l’elemento coloniale è toccato più volte, ed è ovviamente legato alla composizione della sua popolazione: la città e i suoi territori sono stati per tanto tempo un luogo nel quale rifugiarsi quando si doveva scappare dal proprio paese. Per lo più cinesi che già a fine Ottocento erano attratti dalla quiete della Pax Britannica. Doverosa breve parentesi storica: c’è stato un momento durante il quale l’Impero britannico aveva raggiunto il suo apogeo e picco di espansione, e per circa cento anni avrebbe instaurato un rapporto economico, culturale e sociale (ovviamente in un contesto di dominazione militare) su una popolazione di 400 milioni di abitanti. Durante quel periodo, che fu interrotto con la Prima Guerra Mondiale, l’Inghilterra aveva instaurato il libero scambio e primeggiava in tecnica grazie ai risultati della rivoluzione industriale. Hong Kong si fece inglese nel 1841, quando l’esercito della regina Vittoria vinse la prima Guerra dell’Oppio combattuta contro la dinastia Qing. Ed è da queste parti che comincia a nascere una forma di cosmopolitismo cinese ad Hong Kong, che come fa notare Sala è in parallelo ai cosmopolitismi britannici o francesi. La città cantonese esporta e importa continuamente, modulando sincretismi e meticciati culturali. Nella cultura popolare le derivazioni sono tentacolari: vanno dalla musica Cantopop (un genere pop in cantonese) al cinema citazionista di Wong Kar Wai. Nella produzione artistica di Hong Kong sembra che la nostalgia sia un denominatore comune, una nostalgia ossessionata dalla perdita del tempo.
Molti di quelli che hanno manifestato dolore sono persone di sessanta o più anni, che hanno vissuto i migliori anni della loro esistenza quando Hong Kong viveva quello che definiscono come “il periodo dell’oro” del paese, sviluppando per quel passato una forma di nostalgia.
Ci sono foto di cani e bambini avvolti dalla Union Jack e qualche intervistato espressamente rivela che è una forma di manifestazione di avversione nei confronti del governo cinese. Ed è curioso come la nostalgia sia anche quella di un passato coloniale nemmeno vissuto: a dimostrarlo ci sono i ventenni cresciuti con i libri di testo che raccontano una storia di Hong Kong rivisitata, di un territorio solo meramente occupato e non una colonia britannica.
Quello che è successo a Hong Kong negli ultimi anni, dal 2014 ad oggi, ovvero una lunga serie di manifestazioni pro-democratiche che si sono concluse con scontri con la polizia e violenze subite dalla parte civile, spesso anche per mano delle triadi mafiose, mette sempre più in crisi quella visione politica che doveva essere una promessa.
“Un paese, due sistemi”, formulata da Deng Xiaoping, capo del partito comunista e presidente della RPC dal ‘79 al ‘92. Ad aggravare la situazione di chi desidera in casa un sistema democratrico si sono messe di mezzo una legge sulla sicurezza nazionale entrata in vigore nel 2020 – ha fatto perdere dodici posizioni nel report annuale di Freedom House – e l’epidemia di coronavirus, che ha permesso al governo centrale di Pechino di impedire le veglie memoriali che ogni anno venivano fatte per ricordare i fatti di Piazza Tienanmen.
Ho fatto qualche domanda a Ilaria Maria Sala, a partire dal suo libro, per cercare di capirci un po’ di più su quello che sta succedendo a Hong Kong.
Il tuo libro è attraversato da una scrittura che evoca nostalgie diverse, di una Hong Kong che vive un presente sempre più precario – socialmente e politicamente parlando. Scrivi, “Nostalgia di un tempo in cui la speranza per il futuro era ancora forte e si prova a sognare di poter un giorno usufruire di quello che si stava costruendo”.
Vorrei partire da questa parola chiave per esaminare le manifestazioni di affetto e lutto nei confronti della regina Elisabetta nei giorni successivi alla sua morte. Mi piacerebbe scoprire di più sulla nostalgia nei confronti del dominio inglese, di come sia stato possibile far nascere nei ventenni e nei trentenni la nostalgia per un’epoca mai vissuta.
La nostalgia fa parte del DNA di Hong Kong, perché è un territorio popolato, in gran parte, da rifugiati fuggiti dalla Cina per sottrarsi a convulsioni epocali o al rischio di persecuzione politica. Prima ancora di quello che vediamo oggi, infatti, i genitori, o i nonni e bisnonni della generazione che piange per la perdita della Regina Elisabetta erano spesso sedotti dall’ideale della Shanghai di prima della guerra da cui dovettero fuggire, o di una Canton (Guangzhou) in cui non c’erano slogan comunisti ma una fedeltà alla terra e alla famiglia considerata ideale: nostalgia di quello che si è lasciato indietro per forza, scegliendo la sicurezza per sé e le proprie famiglie, ma non per questo disprezzando, o sfuggendo, il quotidiano a cui si era attaccati.
Questo per dire che il sentimento nostalgico è molto forte a Hong Kong, prima ancora che per la perdita costante dell’oggi, anche come modo di vivere la propria identità, costantemente cullata da un senso di qualcosa di sfuggente che si sposa però con l’ipermodernità.
Quello che è successo davanti al lutto per la Regina Elisabetta mostra diversi atteggiamenti, che è importante guardare come un insieme, a mio giudizio: fra le primissime foto che hanno circolato sui social a Hong Kong ci sono state quelle di una giovane Elisabetta che andava in giro per Hong Kong, guardando interessata, facendo domande, sorridendo alle persone che le si avvicinavano e stringendo mani. Il paragone con Xi Jinping che si presenta alla stazione di Hong Kong il 30 giugno 2022 per fare il suo discorso “alla popolazione” davanti a quattro membri del governo locale, tenuti a distanza, per poi fare il viaggio di andata e ritorno in modo da non dormire a Hong Kong ma essere comunque presente il giorno dopo è stato immediato: il leader che ci comanda ora, che dice che Hong Kong è rientrata all’abbraccio della madre patria, non osa nemmeno camminare per le nostre strade. E poi, il Regno Unito è comunque un Paese democratico, e la democrazia è l’aspirazione che è stata soppressa. Prima, quando il Regno Unito si modernizzava politicamente, e ampliava i diritti per i suoi cittadini, accedeva a convenzioni internazionali per la protezione dei diritti sociali, politici e civili, ciò riguardava automaticamente anche Hong Kong. Quanto più democratica avrebbe potuto essere Hong Kong sotto la Gran Bretagna? E’ una domanda senza risposta, sulla quale è dunque possibile fantasticare con nostalgia di un futuro impossibile.
Terzo punto, la leadership locale e quella di Pechino vedono come il fumo negli occhi quella che leggono solo come una nostalgia coloniale: il che la rende davvero attraente per giovani manifestanti che hanno, come tutti i giovani, il gusto della provocazione.
E bisogna anche pensare che di nuovo i trentenni e ventenni parlano con i loro genitori, e traggono da loro la sensazione che prima si andasse in avanti. Oggi c’è una battuta d’arresto allo sviluppo politico di Hong Kong dal momento che deve essere integrata con la Cina continentale – un Paese che molti a Hong Kong reputano essere meno avanzato sia politicamente, che socialmente e culturalmente.
Sempre a proposito di nostalgia per gli anni del periodo britannico. Che tu sappia, possiamo considerarlo come qualcosa di unico nel contesto delle ex colonie britanniche o è qualcosa che vive in sottofondo anche altrove? Penso all’India e alla crisi alimentare del Bengala degli anni quaranta, che causò milioni di morti. Per dire, avrei dubitato che da quelle parti esistesse una forma di nostalgia per il dominio britannico, e invece ho scoperto che sì, esiste anche lì una forma di nostalgia per l’impero (lo dimostrano alcune opere pop come le serie TV).
Certo che esiste. Il colonialismo è un tema molto spinoso, e il sopruso inaccettabile che comporta fa sì che sia difficile affrontarne le sfumature, le quali presentano anche legami più ambigui. Io stessa sono rimasta diverse volte esterrefatta ed in imbarazzo davanti a incontri occasionali con Etiopi ed Eritrei che provavano una simpatia a priori verso di me per il mio essere italiana… un passato condiviso, anche se è un passato più che problematico, o nel caso italiano un passato chiaramente criminale, sempre imposto a forza, evidentemente crea anche sentimenti che sono difficili da analizzare perché il rischio di cadere nel revisionismo, o nell’apologia, o essere accusati di “Sindrome di Stoccolma” è enorme e repellente. L’impronunciabile nostalgia dell’impero però ci mostra anche che non tutte le liberazioni sono tali – che non tutte le fini del colonialismo sono davvero risolutive. In alcuni casi a un colonialismo sconfitto o tramontato se ne sostituisce uno nuovo: molti, a Hong Kong, reputano di essere oggi sotto un nuovo colonialismo cinese, e che fra i due colonialismi… preferivano quello di prima, perché non pretendeva di impossessarsi della loro identità e dei loro cuori e aveva al suo centro anche promesse di democratizzazione (più o meno veritiere, non è questo il punto).
Più in generale mi chiedo se non si tratti anche, almeno in parte, di una semplice nostalgia per il passato, con tutti i suoi misteri e le sue atmosfere irriproducibili, quando tutto – noi stessi inclusi – era più giovane, e poteva far finta di essere più innocente.
Dal tuo libro si evince che l’anticolonialismo di matrice cinese (tanto forte ai tempi di Mao) e, di conseguenza, il patriottismo, ad Hong Kong non hanno funzionato. Possiamo dire che l’anticolonialismo sia stato visto come propaganda calata dall’alto? Leggendo il libro ho pensato che la complicatissima storia a strati di Hong Kong, fatta di migrazioni, etnie, sincretismi, ha creato una società impermeabile ad una forma così integralista di patriottismo cinese.
Il modello proposto oggi dalla Cina fa poca presa sia a Hong Kong che a Taiwan, perché è un modello nato dall’alto verso il basso nella mancanza di dibattito o dialogo, è un’identità imposta e che non accetta declinazioni: un’unica versione dell’essere “cinesi” che non lascia spazio alle infinite diversità che si incontrano sia nella Cina continentale, che su territori come Hong Kong e Taiwan. Un anticolonialismo come quello cinese è visto come ideologico, dal momento che è incapace di autoriflessioni. E questo patriottismo è escludente: Joshua Wong, nel 2014, quando aveva deciso con alcuni suoi compagni di andare a Pechino per intentare il dialogo con il governo centrale, si vide negare la salita a bordo dell’aereo. E disse: “Come vogliono che amiamo un Paese nel quale ci proibiscono di andare?”. Buona domanda. Il patriottismo proposto oggi è un patriottismo che rifiuta, per esempio, la lingua di Hong Kong, il cantonese, reputando che solo il mandarino (creato un secolo fa) sia l’unica lingua cinese. Un patriottismo che deve essere non amore per la Cina, ma amore per il Partito Comunista Cinese, completando così un’identificazione fra le due entità che sta bene solo ai membri, o forse solo ai leader, del Partito stesso, e a pochi altri. Non è in sé un messaggio che possa sedurre così facilmente.
C’è un’altra cosa che mi ha incuriosito molto, leggendo L’eclissi. Il fatto che i manifestanti pro-democrazia avessero scelto tra le canzoni simbolo della protesta Sing Hallelujah To The Lord. Sono andato a cercare le origini della canzone, è stata scritta negli anni ’70 come, a tutti gli effetti, una canzone da cantare in chiesa. Nelle manifestazioni del 2019 la cantavano sia i manifestanti cristiani che non. Sai come nasce l’utilizzo di questa canzone e sai dirmi se esiste un peso specifico dato dalla comunità cristiana all’interno delle proteste?
Il peso della comunità cristiana all’interno del dissenso, sia cinese che a Hong Kong, è molto forte – dobbiamo pensare a un cristianesimo che si rifà più direttamente al messaggio iniziale di Cristo sulla pari dignità di tutti gli uomini e donne. Questo, almeno, è quello che attrae molti dissidenti – insieme alla forza che la fede sa dare a tutti quelli che la sentono (non a caso è chiamata “un dono”). La chiesa Cattolica, in particolare sotto al Cardinale Zen (ora in pensione, e mostruosamente isolato in Vaticano) a Hong Kong si è battuta per i diritti, cosa che non hanno fatto né i buddisti né i taoisti – che sono quelli che invece hanno una relazione migliore con il governo, tanto a Hong Kong quanto in Cina. In alcuni casi dei pastori protestanti hanno effettivamente guidato alcuni di questi canti, in particolare nelle notti più pericolose: un modo per pregare che i ragazzi fossero protetti, e che la polizia fosse dissuasa dall’usare forza eccessiva, tramite un’ intercessione divina.
Un motivo meno devoto invece è che per le parate religiose a Hong Kong non c’era bisogno di ottenere un permesso della polizia, come succede invece per le manifestazioni pubbliche, politiche e non. Quindi, anche se si trattava di ragazzini con l’elmetto, le braccia e le gambe ricoperti di cellophane per proteggersi dai lacrimogeni, e gli occhialoni anti-gas, cantando Sing Alleluja to the Lord potevano fingere di essere una parata religiosa, esente da permessi e da cariche poliziesche.
Nel libro racconti dei fatti di Yuen Long e Prince Edward. Nel 2019 nella stazione metropolitana di Yuen Long un attacco di stampo mafioso ha mandato al pronto soccorso 45 cittadini in modo più o meno grave (una donna incinta a causa delle bastonate ha perso il bambino). Sappiamo che è stato un atto di rappresaglia nei confronti dei manifestanti che avevano sporcato con lo spray l’Ufficio di rappresentanza della politica cinese.
Tempo dopo in un’altra stazione della metro, Prince Edward, è successo qualcosa di simile. La polizia ha lanciato dei lacrimogeni, ha chiuso le entrate alla fermata ed è entrata a picchiare civili, senza lasciare scampo, colpendo a casaccio.
Come fai notare sono stati i due eventi principali che hanno creato la vera rottura tra i pro-democrazia e i filo-cinesi. Evidenziano anche il livello di corruzione e i rapporti (nemmeno così oscuri) tra forze dell’ordine di Hong Kong e le triadi mafiose. Esiste un dibattito ad HK su una crisi morale delle forze dell’ordine, di come operino nei confronti della popolazione o di come possano essere viste ormai come uno strumento in mano al governo cinese?
I gruppi della criminalità organizzata nel contesto di Hong Kong, e in quello cinese in modo più ampio, sono storicamente molto legati al governo: in epoca dinastica, si davano il compito di proteggere l’imperatore da rivolte e tradimenti, o di re-instaurare sul trono un sovrano a loro giudizio ingiustamente spodestato (in particolar modo nel periodo Qing, dal 1636 al 1911, dato che i Qing erano mancesi, e molte società di arti marziali erano fedeli alla dinastia precedente, quella dei Ming, del 1368-1644, considerati “cinesi” e non invasori stranieri mancesi). Dunque, non dobbiamo vederlo come un fenomeno nuovo o qualcosa che stupisce gli hongkonghesi. Addirittura nel periodo precedente il passaggio di sovranità Deng Xiaoping disse “anche le triadi possono essere patriottiche”. Ovvero, se sono pronte a schierarsi per proteggere il governo, sono patriottiche. Se sono pronte a non avere regolamenti di conti in momenti in cui il governo ha bisogno di ordine e stabilità, sono patriottiche. La cooptazione dei gruppi legati a scuole di arti marziali e attività tradizionali (danza del leone, parate varie) è una storia non certo recente, e che garantisce, fra l’altro, uno zoccolo duro di sostegno al governo nelle aree rurali e in alcune aree a forte connotazione regionale (vedi la presenza di gruppi di arti marziali pro-Pechino provenienti dal Fujian nel quartiere centrale di Wan Chai)
Negli ultimi tempi si è parlato di come l’invasione russa in Ucraina possa aver dato slancio ai cinesi nei confronti degli interessi di Taiwan. Abbiamo assistito, durante il mese di Settembre, ad un momento di crisi con tre protagonisti: Taiwan e Cina appunto, più Stati Uniti d’America. L’eco dell’invasione dell’Ucraina può aggravare la situazione di Hong Kong? Ho letto che per la prima volta nella storia la legge di sicurezza interna è stata applicata per arrestare dei minorenni.
L’arresto di minorenni per motivi politici e non purtroppo non è cosa nuova e in parte qui va incolpata Londra, che ha lasciato sul codice penale una responsabilità penale piena per i bambini oltre gli 8 anni: in tempi andati era così anche in Gran Bretagna, ma hanno fatto le valige lasciandola sul codice a Hong Kong (insieme ad altre leggi che avrebbero dovuto eliminare, quali quella sulla sedizione, l’offendere la Regina, etc). I minorenni sono stati arrestati tramite la NSL solo ora solo perché è una legge relativamente nuova. E’ grave, ma purtroppo in linea con il sistema.
L’invasione dell’Ucraina direi che non ha grossi impatti su Hong Kong: la Russia vuole annettere una democrazia che le dà fastidio, mentre Pechino è già sovrana su Hong Kong, per cui non ha bisogno di farsi ispirare da Mosca. Taiwan, secondo alcuni, potrebbe essere una realtà con alcuni paralleli, ma non dobbiamo lasciarci trasportare dall’immaginazione: Taiwan non è riconosciuta dalla comunità internazionale o dalle Nazioni Unite, il che rende la situazione completamente diversa. L’ambiguità dello status di Taiwan è quello che fino ad oggi ne ha garantito l’autonomia, ed è quello che gli Stati Uniti hanno promesso di voler difendere (anche se Biden ha ora espresso intenzioni militarmente più forti, a cui la Cina ha risposto intensificando la sua presenza militare nelle acque e nello spazio aereo taiwanesi). Credo che la Cina sia stata a lungo reattiva nei confronti di Taiwan, diventando più bellicosa quando sentiva minacciato lo status quo, ma non so prevedere se questo atteggiamento si appresti a lasciare spazio a una maggiore assertività, che provocherebbe una serie di pericolose reazioni a catena nella regione.
Complimenti, molto bello
Bellissimo articolo!!