Per via della paura del virus ci stiamo riscoprendo paranoici e bramosi di controllo poliziesco. Questo, però, ci espone a un rischio: una società futura segnata dall’autoritarismo. La nostra democrazia reggerà il colpo?
In copertina un’opera di Daniel Rycharski, The Bed, 2016.
Per capire in che società vivremo dopo la pandemia è bene sapere che, nel come vanno le cose nel mondo, esistono oscillazioni che si ripetono sempre simili, risposte della psicologia collettiva uguali negli anni e nei secoli, errori compresi. Succede, ad esempio, in economia. E se facciamo gli stessi errori, singolarmente o in comunità, non è perché siamo stupidi: ma semplicemente perché è difficile emancipare i nostri gesti e ragionamenti dal passato, da ciò che ci è stato trasmesso con la cultura e con la genetica (la paura, ad esempio, spesso fa sragionare ma è un aspetto fisiologico del funzionamento delle nostre menti).
Fatta questa premessa, partiamo dal presente: cos’è successo in questi primi due mesi di epidemia globale? Beh, in un primo momento è successo che la pandemia ci ha uniti, ha spinto verso la solidarietà la popolazione (quella italiana, ma il meccanismo è simile in tutto il mondo) aumentando l’unità politica e la coesione sociale — cioè il grado di affiliazione e fratellanza tra appartenenti allo stesso gruppo sociale — ed è successo per via del nemico comune, il nuovo coronavirus. La coesione sociale, però, se è vero che ha grandi vantaggi (la propensione al mutuo soccorso in questo momento è il beneficio più lampante), ha anche un aspetto potenzialmente dannoso: gli eccessi del controllo reciproco. Per capirci: se siete stati in un piccolo comune dell’entroterra della Sardegna saprete sia che lì le persone si aiutano a vicenda con più facilità (meccanismi come quello del dono sono più vivi che in una grande città), sia che lì le persone si controllano tra loro con più insistenza (il pettegolezzo è molto più insidioso che in una grande città). Entrambi questi aspetti, sia quello positivo che quello negativo, sono effetti della coesione sociale. Una coesione che in questo periodo aumenta di intensità, come dicevamo poco fa, un po’ ovunque.
Ecco perché, in una situazione come la nostra, cioè una diffusione globale di un virus per cui non abbiamo né cure né vaccino, e la conseguente quarantena forzata per miliardi di persone in contemporanea, la coesione sociale è sia essenziale che rischiosa.
E non lo è più solo in teoria, ma anche in pratica: stiamo cercando, in chi va a correre o in chi porta a passeggio il cane, il capro espiatorio. Stiamo multando infermieri alla fine dei loro turni, o genitori che vanno a prendere i propri figli dagli ex coniugi, stiamo sorvegliando le spiagge con gli elicotteri, accerchiando con i quad della polizia municipale persone che prendono il sole completamente da sole, senza costituire un rischio per nessuno. Stiamo anche tenendo toni minacciosi con chi fa delle semplici foto in pubblico (è capitato alla scrittrice Michela Murgia), ma anche imponendo a chi va al supermercato di fare una spesa minima di 50 euro, e addirittura picchiando persone perché non mostrano immediatamente i documenti. E stiamo mostrando in diretta TV delle vere e proprie battute di caccia all’uomo commentate da Barbara D’Urso. Insomma stiamo sdoganando, verrebbe da dire, un collettivo istinto invadente che abbiamo nel nostro DNA culturale, quello di una nazione che ha bisogno del pugno di ferro per non collassare, perché in realtà è un puzzle fatto da 7904 comuni quasi sempre tanto piccoli quanto diversi tra loro, tanto culturalmente disomogenei quanto orgogliosi e tradizionalisti.
Ha ragione chi nota che questa tendenza non dovrebbe sorprenderci, perché oggi c’è qualcosa, cioè il nuovo coronavirus, a farci (giustamente) paura e “la paura è il principale incentivo alla richiesta di maniere forti, di regimi autoritari, di limitazioni delle libertà individuali in favore di regolamentazioni e interventi più severi da parte di autorità di vario genere”. Tutto vero, ma non è che se una cosa è nota diventa trascurabile. Questa nostra, crescente, tendenza sbirresca è pericolosa: ed è pericolosa perché tende a un futuro preciso: un futuro di politica autoritaria.
Se una democrazia è ben consolidata quando le forze che la mettono in discussione sono estremamente minoritarie, la nostra è, e dispiace dirlo perché nel farlo ci si sente dei disfattisti, un po’ immatura. Costituzione e garanzie sulle libertà individuali non mancano, ma il lavoro di divulgazione e riflessione sulla storia dell’Italia coloniale e dittatoriale non ha coinvolto a sufficienza intere sacche di popolazione, anche da qui viene un sentimento sbirresco e questurino che si manifesta nella mancanza di senso civico, nella presenza di personaggi indegni di ricoprire incarichi istituzionali, fino al tono paternalista tenuto in quest’ultimo periodo da alcuni organi governativi.
-->Ecco che, questo nostro difetto politico e culturale in un momento come questo, può emergere con particolare forza. E il rischio che il sentimento popolare (chiamiamolo così, per capirci) sia tipico degli stati autoritari, è concreto.
D’altronde la ricerca del nemico interno, dell’alleato (immaginario) e del nemico (molto concreto) è una prassi politica propria dell’autoritarismo. Cercare le spie, gli informatori, i traditori, coloro che rendono vano il sacrificio del resto della società è un comportamento collettivo tipico di questo tipo di governi. Attenzione bene, non sto dicendo che oggi viviamo in un regime — in passato lo si è detto fin troppe volte a sproposito — sto dicendo invece che la forma mentis che rischiamo di adottare per via della mala gestione della pandemia e della paura è quella tipica dei regimi autoritari, che è enormemente diverso.
Ecco, non ci siamo ancora, ma oggi, qui da noi, nel mezzo della crisi sanitaria ed economica più grave dalla fine della guerra e della dittatura, l’embrione di questa tendenza paranoide sembra cominciare a farsi largo in quel sistematico riflesso “sbirresco” di cui parlavo poco fa, quello della ricerca del runner, dell’untore, del libero sfogo della paranoia sul prossimo come mezzo collettivo di affrontare un problema reale.

Chiariamoci, so bene che parlare di autoritarismo dal tepore di una democrazia di norma ci avrebbe stancato, che farlo ormai suona solo come l’ennesima esagerazione giornalistica. E avete ragione, ma questo, pensateci bene, è un momento eccezionale in cui le categorie con cui abitualmente pensiamo la politica e la società possono rivelarsi inappropriate. Quindi: se la regola di ogni leadership autoritaria è di trovare nemici esterni per coprire problemi interni, e di trovare nemici interni per coprire responsabilità esterne, puntare l’indice dell’astio collettivo verso problemi minori, o che non sono affatto problemi, in modo da scongiurare lo scontento popolare rivolto ai governanti stessi, non corrisponde forse a un passo verso l’autoritarismo?
Si potrebbe anche dire che questa tendenza autoritaria c’era anche prima, che oggi ha solo trovato un canale di sfogo grazie alla paura collettiva. Può essere vero, ma rimane il fatto che davanti a una situazione simile — quella di una società in cui una tendenza autoritaria rimane sottopelle come una spina mai estratta — l’unica salvezza per non far riaffiorare mai il problema è che i problemi non ci siano. E invece, ci è andata male, i problemi ci sono, eccome se ci sono. Non era vero che “andrà tutto bene”.
Quindi eccoci a un bivio.
Il tessuto sociale, davanti a un pericolo come l’ascesa del pensiero filo-autoritario, può reggere il colpo, ma anche crollare. Da cosa dipenderà? Sicuramente da come andranno le cose, dalla crisi economica che dovremo affrontare e dalla madre di tutte le paranoie politiche e sociali, la propaganda.
Per dirla molto in breve, due aspetti definiranno la società che verrà. Da una parte gli sviluppi della pandemia lasceranno ampio spazio alle famose correlazioni spurie: ci sarà chi dirà (o farà intendere), per esempio, che se la democrazia non ha funzionato nel far fronte alla tragedia sanitaria, allora bisognerebbe indurirla, questa democrazia parlamentare pensata dai costituenti, “velocizzarne” o automatizzarne i processi. Il sottotesto sarà che forse una società più controllata (la tecnologia per farlo non manca di certo), più ubbidiente (ubbidiente, non responsabile) è preferibile. Due esempi retorici di questo retropensiero li sentiamo ripetere da settimane: “non c’è spazio per le polemiche!” e “tutti uniti!”.
Ma oltre le correlazioni spurie, madri nobili del fraintendimento politico e della tendenza autoritaria (basta pensare alla celebre equazione aumento degli immigrati=aumento della criminalità, una menzogna su cui si sono fondate molte delle campagne politiche degli ultimi decenni europei) c’è, per l’appunto, la propaganda. Prendiamo uno degli ultimi campanelli d’allarme, il più discusso e, a giudicare dalle reazioni, scabroso: la conduttrice Barbara D’Urso che, dal suo illuminatissimo salotto pomeridiano targato Mediaset, assiste all’inseguimento di un corridore da parte della Guardia di Finanza in diretta TV. Che non sembri eccessivamente catastrofista a chi legge ma, bisogna ammettere che atti comunicativi simili un po’ attualizzano il futuro autoritario che temiamo. In un lampo lo fanno apparire all’orizzonte.
La comunicazione e i media riflettono e codificano, in forma propria, il sentimento popolare, e in un loop ricorsivo danno forma a ciò che pensiamo. È normale che sia così. Ma se questo riflesso concentra e propaga, in questa misura, la (legittima, ci mancherebbe) paura generalizzata allora la coesione sociale di cui parlavamo poco fa, quella che ci ha fatto cantare Azzurro e applaudire tutti insieme, per qualche giorno, dai balconi, rischia di farci un dispetto enorme, spingerci un passetto più vicini al fascismo che abbiamo abbandonato giusto 75 anni fa.
Apprezzo e condivido, per quel che può valere.