Riscoprire il riformismo

Storia di uno scritto di Carlo Denina, riformista per eccellenza, e della potenza della politica riformista. Perché essere riformisti non vuol dire essere “moderati”, ma cambiare il mondo con proposte concrete.


In copertina un’opera di Carlo Carrà, “Piazza del Duomo”

di Enrico Pitzianti

Accendiamo la TV, o leggiamo le news, sempre con un’idea in testa: speriamo che le cose migliorino. Lo pensiamo tutti, dall’anarchico al sovranista. Sentiamo l’urgenza di cambiare il presente, di migliorarlo. Certo, ognuno di noi ha idee diverse sul “come” andrebbe realizzato questo miglioramento ed è legittimo, ma le idee hanno una loro storia e sappiamo che non tutte hanno pari efficacia: un nazista potrà pensare che separando i “neri” dai “bianchi” le cose vadano meglio, ma i fatti dimostrano che si sbaglia. Può comunque pensarlo, ma si sbaglia ugualmente. Per citare esempi meno ovvi: parlando della regolarizzazione dei braccianti stranieri presenti in Italia Matteo Salvini potrà anche dire che «la sanatoria di massa porta altro sfruttamento», ma sappiamo che, stando ai fatti, le cose non stanno così.

Purtroppo è difficile dirsi fermamente convinti che tutte le opinioni sono legittime e, allo stesso tempo, sostenere che ce ne sono di più o meno sbagliate. Sembra una posizione ambigua, scivolosa, indecisa, ma è semplicemente rispettosa della realtà. Le opinioni più nette, sommarie, anche estreme, hanno un grande pregio: comunicativamente sono convenienti, attraggono attenzioni e dibattiti perché possono riassumersi in slogan, in poche frasi fatte, non necessitano di approfondimento, di fare distinguo e immaginare una propria applicabilità. La conseguenza più ovvia è che nella comunicazione queste idee, di destra o di sinistra che siano, fanno scalpore, invocano cambiamenti drastici, fanno parlare di sé e regalano lustro a chi se ne fa portatore. Nella pratica, invece,  funzionano poco o per niente. E non funzionano proprio perché non hanno nessun appiglio con la realtà, nessuna proposta concreta sociale economica e politica, non sono idee traducibili in fatti. Anche per questo oggi viviamo, politicamente parlando, un paradosso: è il grande momento dei populismi, ma, nonostante i voti, i populisti alla prova dei fatti (governare) tendono a perdere consenso. Il motivo è che la realtà è complessa e le soluzioni semplici non le si addicono.

Il cuore della questione è questo: nel variegato ventaglio di proposte politiche per migliorare la realtà, visto che tutti vorremmo migliorarla, ce ne deve essere una più efficace di tutti. Attenzione però, non ho detto attraente, interessante, acchiappa-voti o acchiappa-click, ma efficace, cioè che la realtà la possa cambiare per davvero. Qual è?

Il grado di applicabilità di un’idea è molto difficile da calcolare preventivamente, è vero. Eppure, sempre in una certa misura, le proposte è possibile “testarle” alla luce della loro applicabilità, della loro efficacia, della loro efficienza e della loro realistica possibilità di migliorare la società in cui viviamo. Facendo nostra un’idea che rientri in queste categorie dovremmo rassegnarci ad abbandonare gli slogan e discorsi più ideologici, dall’altra però la contropartita sarà particolarmente gustosa: le cose potremmo cambiarle davvero.

Questo modo “realistico” di pensare all’azione politica ha un nome, ma se ciò che vi viene in mente è “essere moderati” o “centrismo” vi sbagliate. Il nome è riformismo. Non è un termine che nell’Italia di oggi gode di appeal o di grandi attenzioni. C’è anche chi lo usa in senso spregiativo, come fosse il sinonimo di restare immobili, di accettare lo status quo, ma riformismo ha tutt’altro significato: Treccani lo definisce come “ogni metodo d’azione politica che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico sociale esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme.” Proprio come dicevamo prima, leggendo “graduali riforme” siamo tentati di storcere il naso e sbuffare ma se la rivoluzione è una speranza vana (e potrebbe persino peggiorare le cose), e le riforme una possibilità concreta, dobbiamo essere realistici e ammettere che sono quest’ultime il cavallo su cui puntare per migliorare il sistema politico, sociale ed economico in cui viviamo. E chi non ha la sincerità per ammetterlo, va detto, non fa politica, ma propaganda. E andrebbe bene, se non fosse che chi è povero oppure sfruttato, disoccupato, incarcerato o sofferente ha bisogno della prima, e non della seconda.

Anche se oggi non sembra, il riformismo, in Italia, ha una lunga e interessante storia. Una storia che non è fatta di posizione “moderate” o comode, ma di idee e azioni intrepide, rischiose, a volte così in controtendenza rispetto al pensare comune da attirare minacce, imporre licenziamenti, obbligare a esili e infliggere incarcerazioni. 

In Italia il riformismo ha una storia ricca di nomi, da Giolitti a Saragat e Matteotti. E quando si legge di riformismo si finisce soprattutto a indagare la storia del socialismo, le sue divisioni interne e le sue fratture (un altro dei significati che ha il termine riformismo è proprio quello di socialdemocrazia). Ma il riformismo italiano, di padri nobili, ne ha da ben prima, come Carlo Denina. Molti di noi non ne hanno mai sentito parlare, ma è un peccato: perché visse ben prima dell’avvento del socialismo, prima persino dell’unità d’Italia. Nel secolo delle rivoluzioni, il settecento.

La storia di Denina è interessante perché lo storico piemontese visse proprio quando il riformismo nacque e di conseguenza ci aiuta a definirlo. Erano tempi in cui la storia subiva enormi scossoni, tra tutti la rivoluzione francese, su cui Denina si informerà con molta attenzione, da studioso già affermato e oramai sessantenne, capendo le ragioni storiche e materiali di quel sommovimento, ma rimanendo basito dal Terrore giacobino.

Carlo Carrà, “Stazione a Milano”

Una delle opere più interessanti e “dirompenti” di Denina esce solo oggi, è un trattato inedito risalente al 1777, titolato “Dell’impiego delle persone” e lo pubblica la casa editrice Olschki). Di questi tempi capita di leggere, su qualche testata alla ricerca di click facili, articoli presentati con “Ve lo tengono nascosto…” o “Ecco la verità su…”, e viene da sorridere perché sono bufale, o cose che in realtà nessuno ci tiene nascoste (tant’è che vengono pubblicate). Ma di testi nascosti, ostacolati e bruciati in piazza, per poi essere pubblicati con decenni di ritardo ne sono esistiti davvero, ed è proprio il caso dello scritto di Denina. Un testo che avrebbe potuto influenzare la politica e il pensiero economico del suo tempo, ma che fu sequestrato e distrutto prima che le stampe fossero diffuse. “Dell’impiego delle persone” fu una proposta coraggiosa, che auspicava, tra le altre cose, la messa a disposizione delle ricchezze della chiesa in favore dei più poveri: «i monasteri delle vergini, che già servir sogliono all’educazione delle figlie di famiglie nobili e ricche, potrebbero anche servire all’istituzione delle povere fanciulle del paese». 

Qui sta il punto: Denina non scriveva in modo astratto che “i poveri vanno aiutati”, ma ipotizzava da chi, come e con quali soldi andava fatto. E per molti questo dito puntato, questa concretezza delle proposte politiche, era oltraggiosa, soprattutto se pensate che veniva da un presbitero come Denina.

La stessa concretezza riformista la si legge in molti degli scritti di Denina, come quando fa paragoni e continue comparazioni tra ruoli e categorie della società — quelle che più di un secolo dopo col socialismo presero il nome di “classi”. Un esempio su tutti di questa pragmaticità è quando fa notare gli errori di fondo della selezione dei prelati da parte della chiesa, scrivendo: 

«Molti prelati credono di giustificare la lor condiscendenza alle petizioni de’ chierici e de’ giovani desiderosi d’essere iniziati negli ordini, dicendo che nel gran numero è più facile di trovarne de’ buoni. Questa ragione sarebbe, se non plausibile, almeno accettabile, quando i chierici che ci fanno cattiva riuscita, potessero passare ad un altro genere di vita, ma ne’ termini in cui stanno le cose, un giovane chierico imprudentemente ordinato, o ricevuto alla professione religiosa, è un cattivo soggetto introdotto nella Chiesa, e forse un buon cittadino tolto allo Stato».

Insomma, dice Denina, se voi non permettete ai prelati di cambiare idea, e di abbandonare la Chiesa una volta presi i voti, rischiate di avere tra le vostre fila delle persone che non credono, e che avrebbero fatto meglio a non indossare mai la tunica. Nel settecento, frasi simili, non erano senza conseguenze: quello del libro “Dell’impiego delle persone” fu l’ultimo rogo di libri prima della Rivoluzione francese.

Denina, scrive Carlo Ossola che ne ha curato il volume per Olschki, propone “una visione radicalmente ergonomica della società”. Tutti, nella società auspicata da Denina, partecipavano al benessere di tutti. Il principio è quello della cittadinanza tra pari, pur riconoscendo i diversi ruoli. Secondo lo studioso anche nobili, sacerdoti, monaci e monache devono lavorare, e devono farlo per «rendere possibile il conseguimento della pubblica e privata prosperità».

Usare il termine “prosperità” è un gesto che dimostra grande senso di realtà da parte di Denina. Tempo dopo si dirà che il liberismo mira al profitto e il socialismo alla dignità, Denina, anticipando i tempi, sa che le cose vanno calibrate: tra i due poli la strada più giusta è liberarsi della povertà riconquistando la dignità, e per far questo serve la partecipazione collettiva all’economia e la società.

Denina offre un’ottima occasione per riprendere una vecchia definizione del riformismo: “la politica volta al benessere delle persone”. Né mero individualismo né il tuttuno del collettivismo: ma un realistico connubio di singolo e pubblico il cui legante sono le responsabilità.

Al tempo, comunque, per intervento del governo sabaudo e del papa, lo scritto venne confiscato e tutte le copie bruciate. Denina venne sospeso dall’inegnamento universitario e confinato. Il libro, però, è arrivato fino a noi.


Enrico Pitzianti, si occupa di estetica, società e reportage. È caporedattore de L’Indiscreto. Collabora con Il Foglio, Esquire Italia, Forbes e cheFare.

1 comment on “Riscoprire il riformismo

  1. vincenzo costantini

    Talmente chiaro da palesarsi ovvio. Ma la politica viene praticata dai singoli per interesse personale, a volte nobile a volte indecente. È la maschera che nasconde il perseguimento e l’esercizio del potere. Certe cose le dicono i preti (quelli veri) e gli idealisti. Purtroppo la democrazia è diventata quella maschera, per cui la media delle aspirazioni umane si livella molto molto in basso.

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