Rospi psichedelici e paté allucinogeno

Cosa hanno in comune rospi, streghe e antichi culti amazzonici?


In copertina: Utagawa Yoshitora, dettaglio da Nikushi the Frog Spirit Conjures up a Magical Battle of Frogs at Tateyama in Etchu Province

di Federico Di Vita

Un po’ di tempo fa mi sono imbattuto in un libello intitolato Rospi psichedelici, edito da Nautilus nel 1995 e firmato da Albert Most (e da altri autori anonimi). Non essendo l’edizione sottoposta ad alcun tipo di copyright, la via più diretta per diffonderne l’interessantissimo contenuto sarebbe quella di copiarla integralmente, ma temo che i miei amici dell’Indiscreto avrebbero qualcosa da ridire riguardo a un approccio tanto radicale. Provvederò dunque a sintetizzarne i passaggi principali, integrandoli con una serie di studi scientifici che ho consultato, non senza prima segnalare che le ricerche circa la principale delle molecole (la 5-MeO-DMT) contenute nel veleno di alcuni rospi le cui secrezioni contengono sostanze psicotrope, hanno fatto qualche progresso solo negli ultimissimi anni. Inoltre il libretto non si occupa solo di questo aspetto, e anche gli studi antropologici, vero fulcro della trattazione, non sono progrediti poi troppo (del resto le tribù amazzoniche non stanno passando un buon momento, considerata la congiuntura politico-economica che spinge per la distruzione del loro territorio consegnandolo alle compagnie petrolifere, al pascolo e allo sfruttamento agricolo). In conclusione di questa premessa mi sento dunque di poter affermare, con Rospi psichedelici, che «i Matses, in fatto di rospi, possiedono conoscenze superiori a quelle dei farmacologi e tossicologi occidentali». Se però vi aspettate di leggere nient’altro che una serie di trip report atti a descrivere gli effetti di qualche strana sostanza, resterete stupiti: c’è molto di più.

Alcuni popoli indigeni dell’Amazzonia, come i Matses e gli Amahuaca, utilizzano il veleno di un particolare tipo di rana per ottenere, di fatto, dei superpoteri. I membri della piccola tribù Amahuaca, un gruppo etnico che abita le montagne coperte di foreste tra Perù e Brasile, e di cui si stimano non restare che 220 individui (erano più del doppio negli anni ’90), individuano il principale rito magico-animistico per propiziarsi fortuna nella caccia nell’utilizzo di un potente veleno ricavato da una particolare (e lì molto comune) specie di rana, la Phyllomedusa bicolor. Il siero viene raschiato dalla schiena dell’anfibio e quindi spalmato su delle abrasioni provocate appositamente sugli arti o sul petto di un aspirante cacciatore. Pochi istanti dopo l’assorbimento del veleno arrivano i sintomi: un violento attacco di vomito, diarrea e convulsioni che portano a perdita di coscienza, legata a una serie di visioni in cui il cacciatore incontra gli spiriti della foresta, che gli suggeriscono come e dove cacciare. Rospi psichedelici racconta di come, già a inizio anni ’90, Peter Gorman, al tempo giovane antropologo statunitense, ha avuto l’occasione (e, c’è da dire, il coraggio) di provare gli effetti del sapo (rospo, in spagnolo) – così i Matses chiamano la secrezione della pelle di una rana utilizzata nei loro riti per la caccia. (I resoconti di Gorman, ampliati ma sostanzialmente invariati, sono riportati anche in Sapo in my soul, pubblicato nel 2015). I Matses catturano la piccola rana, che chiamano davkiet, e la tengono in trappola per alcuni giorni, evitando di maltrattarla. Durante la prigionia, dalla schiena dell’anfibio viene più volte prelevato il veleno con un bastoncino di bambù. La secrezione successivamente viene essiccata e conservata, e prima di essere introdotta nelle piaghe procurate al cacciatore, viene allungata con della saliva. Peter Gorman descrive in questo modo la sua esperienza col sapo:

L’effetto è sbalorditivo: nel momento in cui la droga viene posta sopra la tua pelle il corpo comincia a scaldarsi. In pochi momenti ti senti come se bruciassi dall’interno; inizi a sudare. Il polso diventa più veloce: il cuore martella velocissimo! Diventi consapevole di ogni vena e arteria presente nel tuo corpo e le senti aprirsi per permettere la corsa precipitosa del sangue. Avverti crampi allo stomaco e vomiti violentemente. Perdi il controllo delle funzioni corporali: puoi urinare o defecare e sbavi incontrollatamente. Cadi al suolo e perdi conoscenza: poi all’improvviso ti senti spinto a fare cose che mai avresti sospettato di arrivare a fare: puoi ritrovarti a ringhiare o a latrare o a graffiare. Ti senti come se un animale stia passando attraverso il tuo corpo […] Per quindici minuti il ritmo diventa sempre più veloce: sei in agonia. Il dolore diventa così insopportabile che desideri di poter morire, purché cessi, ma non muori. […] Finalmente ti addormenti. Non ci sono sogni o visioni con il sapo; puoi anche meravigliarti di cosa vi sia dopo tutto in esso, fino a quando ti svegli; quando lo fai, sei diventato un dio! Ogni cosa attorno a te è più grande che nella vita normale: puoi vedere nel buio senza sforzo e la tua forza fisica è esplosiva. Puoi restare senza cibo per alcuni giorni e correre nella giungla per ore senza stancarti. Puoi vedere gli animali prima che essi vedano te, sentire quali piante sono benevole e quali no; ogni senso che possiedi viene accresciuto in sintonia con la foresta, come se il sapo avesse messo il ritmo della foresta stessa nel tuo sangue.    

La conoscenza delle virtù psicotrope delle secrezioni di rospi e rane è un patrimonio diffuso e fondativo non solo per le tribù amazzoniche ma per molte di quelle che popolavano il continente americano prima della scoperta europea (e non solo, come vedremo tra poco). In particolare era noto il portato visionario delle secrezioni dei rospi appartenenti al genere Bufo. Tra questi spiccavano il Bufo marinus e il Bufo alvarius, molto in auge nelle pratiche e nell’immaginario simbolico-rituale di alcuni di questi popoli. Il primo è diffuso in tutto il continente americano, il secondo invece è presente solo nel Deserto del Sonora, al confine tra Stati Uniti e Messico. Questi due rospi secernono infatti notevoli quantità di indolalchilamine (dei derivati triptamminici), composti che, analogamente al DMT (la diemetiltriptammina), costituiscono i principi attivi delle polveri da fiuto allucinogene (yopo) impiegate dagli Yanoama e da alcune tribù amazzoniche. Il DMT è inoltre il principio attivo alla base degli effetti dell’ayahuasca, il noto infuso psichedelico preparato bollendo piante amazzoniche come la liana Banisteriopsis caapi e le foglie dell’arbusto Psychotria viridis. Conosciuto anche come “liana dei morti” o Yage (a riguardo vale la pena citare almeno Le lettere dello Yage di William Burroughs e Allen Ginsberg) l’infuso è a sua volta alla base di pratiche magiche caratteristiche dello sciamanesimo amazzonico, e come abbiamo visto condivide con le secrezioni di alcuni rospi importanti affinità a livello chimico – ma percependo su di me lo sguardo ipnotico e vagamente risentito di tutti i Bufo del Nuovo Mondo, torno subito a governarli.

Sento un gran gracidare levarsi dalle parti dall’Istmo di Tehuantepec, in Messico, non lontano dallo Yucatan. Se l’orecchio non mi inganna sembra proprio un concerto amoroso di Bufo marinus, tanto comuni in quella zona da assurgere a elemento simbolico-iconografico fondamentale già per gli Olmechi, la prima delle grandi civiltà precolombiane, nonché punto di riferimento per tutte le successive. Potremmo considerarli in qualche modo gli Etruschi – se non addirittura i Greci – delle culture mesoamericane. Del resto le testimonianze archeologiche parlano chiaro, gli Olmechi erano letteralmente ossessionati dall’immagine del rospo, frequente quanto quella del giaguaro nel Pantheon della loro mitologia. La consuetudine dei rospi non si limitava ai motivi iconografici, nella fondamentale area archeologica (e cerimoniale) di San Lorenzo infatti, oltre alle statue e ai bassorilievi raffiguranti i nostri anfibi sono stati ritrovati considerevoli quantità di resti ossei di Bufo marinus, che stando al nostro libello erano «conservati in cavità isolate e rappresentano chiaramente resti di pranzi rituali o, meglio, di comunioni sacramentali a base di questo rospo allucinogeno». Rospi psichedelici a tal riguardo cita uno studio del 1987 dell’antropologa Alison Bailey Kennedy, cui mi pare il caso di risalire direttamente. L’articolo si intitola Ecce Bufo: il rospo in natura e nell’iconografia degli Olmec, e vale la pena citarlo ampiamente per ricostruirne la “irresistibile” teoria di bio-elaborazione visionaria ipotizzata dalla ricercatrice a partire dall’osservazione dei resti, dalla particolare conformazione del sito archeologico (attorno al nucleo cerimoniale vi è infatti un articolato sistema di basse vasche e chiuse idriche), dalle statue rinvenute e dal meccanismo naturale della bio-elaborazione, in cui, come vedremo, gioca un ruolo centrale un altro degli animali lì con più insistenza rappresentati: l’anatra. Allacciatevi le cinture e preparatevi a volare (a suon di visioni o, perché no, grazie alle ali dei pennuti – non a caso presenti anche nei costumi sciamanici olmechi, come ci suggerisce la Kennedy infatti «C’è una famosa statuetta di Tuxtla che rappresenta uno sciamano o sacerdote, con indosso un mantello piumato e una maschera a becco di anatra»).

Per capire che ruolo avessero le anatre in questo complesso apparato rituale occorre partire proprio dalla descrizione del sito archeologico. Nei pressi di una delle estremità della conduttura principale del sistema idrico, in cui oltre agli immancabili simboli del giaguaro e del rospo (legati anche dal punto di vista prettamente iconografico, come se per gli Olmechi il giaguaro rappresentasse simbolicamente uno stadio trasfigurato proprio del rospo, una sorta di rospo Super Saiyan), si trova un enorme recipiente in pietra, in forma di anatra. È fondamentale segnalare a questo punto che l’anatra è uno dei pochi animali che può cibarsi di questi rospi, fatali per quasi tutti gli altri (all’epoca la Kennedy interrogò a riguardo dei naturalisti che le dissero che se un cane mettesse in bocca un Bufo marinus ne resterebbe ucciso all’istante e dovette tribolare per verificare sperimentalmente la correttezza della sua ipotesi, ma del resto negli anni ’80 ancora non c’era YouTube). La forte presenza delle anatre nell’iconografia olmeca e il loro stretto legame coi rospi si ricava anche da diverse altre testimonianze, come in un reperto che si trova in un museo in Costa Rica, un «coltello-girino che, rovesciato, diventa una testa e becco di anatra». Raccolti i pezzi del puzzle, per tirare le fila del discorso cedo la parola all’antropologa:

D’improvviso, gli inconsueti tratti distintivi del sito di San Lorenzo, scavato da Coe, si illuminavano tutti: l’elaborato sistema di controllo idrico, che consiste di 300 tonnellate di canali di scolo in pietra a forma di U, con i loro coperchi, per un totale di 165 metri di conduttura principale e 30 metri di canali laterali. Questo sistema rappresenta una quantità prodigiosa di lavoro in pietra e di ingegneria. […] Ad una delle due estremità della conduttura principale si trova la scultura di un dio della pioggia o uomo-giaguaro; all’altra, un enorme recipiente in pietra per l’acqua, in forma di anatra. Si riteneva che questa fosse una specie di cisterna, dato che un’apertura, in uno dei lati, corrisponde perfettamente alle pietre a U. Sembrava dunque che il sistema servisse ad alimentare o prosciugare le 20 ‘lagunas’ della piattaforma cerimoniale. Lo scopo di queste lagune artificiali – troppo piccole e poco profonde per poter servire ad uso balneare – potrebbe essere cercato in qualche ‘uso rituale’, l’ultima risorsa dei ricercatori in crisi. Ne scaturisce ora un’ipotesi irresistibile: le lagune e l’elaborato sistema idrico costituivano un vero e proprio ‘allevamento di rospi’, per offrire spazio adeguato per la riproduzione dei rospi e per allevare anatre che si alimentano di rospi. Si potrebbe allora ipotizzare che in tal modo le anatre acquisissero tessuti ad alta concentrazione di composti allucinogeni o prodotti di conversione metabolica psicoattivi. In altri termini esse avrebbero potuto servire come agenti bio-elaboratori o bio-mediatori del veleno dei rospi, convertendolo nel loro fegato in determinati metaboliti, e rendendolo quindi più potente, e allo stesso tempo meno tossico. La carne sarebbe stata usata allora come un manicaretto psicotropico per festini o baccanali religiosi.

Invece di subire l’intossicazione che accompagna l’assunzione del siero del Bufo, gli Olmechi avrebbero dunque trovato il modo di sintetizzarlo in foie-gras mantenendo intatte le proprietà psicotrope. Niente male, eh? Il fegato d’oca sembra infatti perfetto per questo compito: «McKelvey mi spiegò che gli uccelli in generale, e le anatre in particolare, hanno un fegato (il principale organo disintossicatore) particolarmente efficiente». Non pensate del resto che l’ipotesi della bio-elaborazione sia così ardita, di esempi del genere è pieno il regno animale così come le consuetudini di antiche civiltà. Continua la Kennedy: «Bio-mediatore sarebbe un animale che raffina, detossifica, converte o bio-concentra quelle sostanze che, allo stato naturale, sono troppo tossiche, indigeribili, immangiabili, o semplicemente a concentrazione troppo bassa per essere mangiate direttamente», e a sostegno della teoria cita diversi altri esempi: «Suggestivo è quello che dà Wasson [in The Frog in Indian Mythology and Imaginative World, Anthropos, 1968] sul complesso della renna e del fungo agarico Amanita muscaria [il fungo, velenosissimo, che mangia Alice nel Paese delle Meraviglie – nota mia] in Siberia. Egli cita numerosi autori sul rapporto quasi simbiotico fra i Coriachi, gli Jucaghiri e altre tribù siberiane, e le loro renne. L’uomo e la renna condividono la predilezione per il fungo agarico e quella per la reciproca urina, in cui si concentrano, in forma meno tossica, i metaboliti psicotropici. Inoltre, se si incontra una renna intossicata, si tengono le sue zampe legate finché il fungo non ha perso il suo effetto. Dopo di che uccidono l’animale, ne mangiano la carne e ‘ciascuno diventa intossicato come se avesse mangiato il fungo agarico’». Un altro esempio riportato dall’antropologa è quello del pesce borracho (ubriaco) che si trova lungo la costa del Perù, vicino a Trujillo: «Questo pesce si nutre di alghe tossiche e le trasforma in metaboliti psicoattivi. Secondo gli informatori, la carne di questo pesce è altamente allucinogena». Un altro pesce che produce effetti psicotropi ce l’abbiamo nel Mediterraneo, è la comunissima salpa, pare che già gli antichi romani ne andassero ghiotti proprio in virtù degli effetti psichedelici che si possono ottenere mangiandone la testa. Ma come nel caso del peruviano pesce borracho non è la carne delle salpe a possedere virtù psicotrope, il pesce le acquisisce mangiando – e bio-elaborando – un certo tipo di alga. Chiudendo il suo articolo Alison Kennedy suggerisce di indagare nei miti e nelle fiabe le relazioni a catena tra i cibi, dove a suo avviso sarebbe possibile trovare molti indizi di questo tipo che aspettano solo di essere svelati.

A causa dell’ipnosi cui mi costringono le onde telepatiche di milioni di anfibi non posso certo avventurarmi ora in quella direzione, ma almeno posso tentare di scandagliarla per quanto concerne loro: rospi e rane sono non a caso presenti nell’ideologia magico-religiosa di moltissime civiltà provenienti da tempi e luoghi remotissimi. In Africa il rospo è considerato uno dei principali animali mediatori, si ritiene che intervenga a completare o modificare l’opera del creatore. Nell’antico Egitto Heqt, la Dea-rospo (o Dea-Rana), simboleggia lo stadio germinale del grano, aiuta il sorgere del sole e assiste le donne nel parto (lo stesso pare succedesse proprio presso gli Olmechi, che facevano leccare i Bufo marinus alle partorienti dato che tra le virtù del suo siero ci sarebbe quella di accelerare le contrazioni uterine). In Cina il veleno del rospo era impiegato nella medicina popolare. In Giappone la tradizione taoista tramanda il mito del Gamma-sennin, Maestro Erborista che vive solitario sui monti in compagnia di un enorme rospo sacro. Il rospo, che per alcune varianti del mito è lo stesso Gamma-sennin, insegnò al Maestro Erborista le arti magiche e terapeutiche, tra cui – in circolare simmetria – la produzione di pillole che gli consentivano di trasformarsi in rospo. Nell’Europa preistorica il piccolo anfibio era una divinità benevola e un simbolo di fecondità, soprattutto nel centro del continente e in Italia, dove la Grande Madre appare frequentemente raffigurata in sembianza di rana o di rospo.

La circostanza che nelle ghiandole di rospi e rane siano presenti sostanze psicoattive, ci invita a riconsiderare il loro ruolo nelle antiche mitologie, così come la loro centralità nell’immaginario della stregoneria europea. Indizi linguistici in tal direzione si trovano del resto in praticamente tutte le lingue del continente. Nei dialetti italiani il rospo è chiamato anche fata, in quelli tedeschi hexe (strega), in Ucraina è noto come bosorka (strega) e in polacco czarowinika (strega). Nell’Italia settentrionale rospi e rane erano chiamati anche il Signore, la Madonna, San Giovanni e San Martino (secondo gli studi del linguista e dialettologo Hugo Plomteux in Les dénominations des batraciens anoures en Italie: le crapaud, 1982, Quaderni di semantica, vol. 3), in un chiaro processo di cristianizzazione di anteriori attributi sacrali.

Un altro linguista, Mario Alinei (in Rospo aruspice, rospo antenato, Quaderni di semiotica, vol. 8, 1987), fa risalire il lemma rospo al latino aruspex, il mago della tradizione etrusca: in tal caso saremmo al cospetto di un fil rouge (anzi: vert) in grado di annodare rospi, sostanze psicoattive (nel loro siero), aruspici etruschi e tradizione sciamanica asiatica (anche recenti studi sui patrimoni genetici suggeriscono la probabile provenienza degli Etruschi dalla zona dell’attuale Turchia); e lo sciamanismo, per dirla con gli ignoti autori del nostro libello, è «il luogo d’impiego ideale per una cultura psichedelica». Per altro, e non solo in area indoeuropea, uno degli animali in cui gli sciamani potevano trasformarsi (così come le streghe della tradizione europea) erano i rospi, ed è del resto molto probabile che siano state proprio le virtù chimiche a consentire di fissare in luoghi e tempi tanto remoti questa medesima e solidissima identificazione. Esemplare a riguardo la scultura olmeca in cui si riconosce uno sciamano sul punto di trasformarsi in rospo, che rappresenta in qualche modo un parallelo con il ‘rospo-aruspice’ di Alinei (oltre che con le metamorfosi tipiche della stregoneria europea).

Nella tradizione mitologica indoeuropea la sacralità del rospo era legata al mondo sotterraneo e al rapporto con gli antenati. Anche questa sfumatura parentale lascia ancor oggi tracce in tante lingue europee. In diversi dialetti italiani il rospo viene chiamato zio Domenico (Calabria) o lola (nonna, in Romagna); in quelli tedeschi, grossvaderpoch (nonno-rospo), vadderdutz (padre-rospo), grossmudder (nonna), muhmein (zia, nonnina). Il francese arcaico indicava il rospo con il termine le bot, espressione che cadde in disuso nel XV secolo ma che sopravvive in alcune forme dialettali e nell’italiano botta o bodda. Questo termine circola nel francese moderno con una diversa accezione: pied bot, piede deforme. Ma che c’entrano i rospi – animali dalle estremità tanto efficaci e articolate – con le malformazioni degli arti? La risposta va cercata nel senso di metafore successive e nella possibilità che il significato originario celasse un eufemismo per Satana. I francesi vedevano infatti nell’anfibio una reincarnazione del Bafometto. Come noto nel Medioevo il demonio ha attributi precisi, e tra questi c’era la zoppia: quasi sempre una delle due gambe di Lucifero terminava con un piede deforme, con un artiglio di rapace, con una zampa o con uno zoccolo.

Nobile lettore, è giunto ora il momento di volgere la teoria in pratica. Puoi sperimentare gli insegnamenti di questa piccola guida, grazie alla parte finale di Rospi psichedelici (quella firmata da Albert Most – fondatore della Church of the Toad of Light), ti dirò dove – se fossimo stati negli anni ’60 – avresti potuto cercare il Bufo alvarius, il più psichedelico dei rospi psichedelici. Ti spiegherò come avresti potuto catturarlo, come cavarne il preziosissimo siero e come infine liberarlo. Da quel momento i sentieri di un’estasi visionaria sarebbero caduti come verbo sul tuo capo, avresti potuto abitarli, attraversarli, perderti nell’esplosione numinosa e cangiante di un portale che non avrebbe tardato a dischiudersi al centro della tua mente, avresti goduto di una libertà lucida, l’avresti seguita senza pregiudizio, il suo spettacolo ti avrebbe svelato indicibili segreti. Il tuo ego si sarebbe brevemente annullato, una stilla di purezza inusitata ti avrebbe toccato nel profondo, e ne avresti serbato il ricordo impresso col fuoco al centro della tua anima. Ma non siamo più negli anni ’60, e oggi la popolazione di questi rospi è drammaticamente calata – anche a causa del bracconaggio – dunque ti asterrai dal compiere tali gesti, che per altro negli Stati Uniti costituiscono un reato.

Il Bufo alvarius è un animale endemico del Deserto del Sonora, uno spazio molto vasto che si trova tra sud est della California, Arizona meridionale e nord del Messico. Il deserto è posto su un altopiano che arriva fino a un livello di 1500 metri, composto da lande aride e canyon montuosi, vi crescono querce e sicomori. La temperatura raggiunge i 60° all’ombra e la piovosità è minima. Al contrario degli altri rospi il Bufo alvarius deve restare tutta la vita nei pressi di una fonte d’acqua. Il suo habitat è costituito dai canali di scolo dei fiumi e dai ruscelli del Deserto del Sonora. Contrariamente a quanto spesso accade la superficiale urbanizzazione del luogo ha favorito per secoli l’anfibio, a partire dai numerosi canali di irrigazione che già più di mille anni fa gli indiani Hohokam cominciarono a scavare deviando il corso del fiume Gila. Negli ultimi decenni però l’espansione delle città ai danni del deserto, l’uso di pesticidi, l’introduzione di specie entrate in competizione coi rospi e, tristemente, il bracconaggio, hanno portato il Bufo alvarius sulla soglia dell’estinzione in California, e anche nel resto del Deserto del Sonora il numero degli esemplari è calato drammaticamente.

Prima che fossero in pericolo la stagione dell’accoppiamento, da maggio a luglio, era il periodo migliore per catturare dei robusti rospi al calar della sera, ti sarebbero bastati una torcia e un sacco di stoffa. Riconoscere il Bufo alvarius del resto è semplice, essendo il più grande dei rospi del Nord America: da adulto può arrivare fino a 18 centimetri. Ha una testa larga e piatta, il corpo tarchiato, la pelle liscia e coriacea è coperta da protuberanze di un pallido color arancio. Il colore della sua schiena può variare dal marrone scuro, all’oliva, al grigioverde; mentre il ventre è beige. Possiede da una a quattro escrescenze bianche agli angoli della bocca, ma a permetterti di identificarlo inequivocabilmente sarebbe stata la presenza di alcune grandi ghiandole granulose sul collo e sugli arti. Così le descrive Albert Most: «Ognuna di queste ghiandole è formata da molti lobuli, di forma ovale, che misurano circa due millimetri di diametro. Ogni lobulo è una unità ben distinta, con un canale che emerge dalla pelle come un singolo poro ben definito. Un doppio strato di cellule circonda ogni lobulo e funge da sintesi liberando un siero viscoso e bianco-lattiginoso». Da un adulto di grosse dimensioni avresti potuto ricavare anche un grammo di veleno fresco, metà del cui peso sarebbe stato costituito da acqua che sarebbe evaporata, ma il 15% dall’alcaloide dominante, la 5-MEO-DMT, di cui un Bufo Alvarius di grosse dimensioni può produrre ben 75 milligrammi. Questa è una sostanza psicoattiva nell’uomo in dosi comprese tra tre e cinque milligrammi, dagli effetti paragonabili al DMT ma relativamente più intensi (secondo il Pharmacotheon di Jonathan Ott, citato da Erowid, fumato produce effetti «quattro volte più potenti del DMT»). Una volta catturato il rospo, per ricavarne il siero, ne avresti spremuto le ghiandole contro un piatto di vetro, operazione che avresti potuto ripetere dopo un’ora per cavarne tutto il veleno residuo. A questo punto avresti liberato il ‘rospo luminoso’, che avrebbe avuto bisogno di almeno sei settimane per caricare di nuovo le sue ghiandole. Saresti stato pronto per fumare il siero in una pipa (una dose da adulto di veleno essiccato non avrebbe superato la testa di un cerino). Per una corretta assunzione Albert Most raccomanda di «trattenere il fumo nei polmoni più a lungo possibile poiché l’efficacia dipenderà in larga misura dal pieno assorbimento della dose in un’unica aspirazione». Fumando il siero avresti ottenuto memorabili effetti psicotropi, grazie alle singolari caratteristiche chimiche del 5-MEO-DMT. La molecola fu infatti identificata sin dal 1959 come l’alcaloide predominante nelle esperienze visionarie di diverse tribù del Sud America, mentre il Bufo alvarius divenne celebre negli Stati Uniti come Light Toad «quando venne dimostrato che il suo veleno conteneva enormi quantità di questo alcaloide a base indolica». Come accennato e come suggerito dalla denominazione scientifica, la 5-MEO-DMT ha forti elementi in comune col DMT. A livello chimico la principale differenza tra le due sostanze è costituita dal gruppo metossilico nella posizione 5 dell’anello indolico nella 5-MEO-DMT. La presenza di questo gruppo metossilico accresce la solubilità della molecola nei grassi, permettendo alla 5-MEO-DMT di penetrare la barriera ematoencefalica e raggiungere i siti attivi più velocemente del DMT.

Recenti studi suggeriscono la possibilità di utilizzare la 5-MeO-DMT per la cura della depressione, dell’ansia e della sindrome da stress post traumatico. La molecola avrebbe inoltre un effetto placebo di tipo analgesico paragonabile a quello dell’ipnosi. Come altre sostanze psichedeliche potrebbe essere impiegata per il trattamento di infiammazioni acute e croniche, tra cui quelle provocate da certe forme di cancro. Indirettamente la 5-MeO-DMT potrebbe anche aiutare i ricercatori nella comprensione delle basi neurologiche della schizofrenia. Un paper scientifico pubblicato nel 2018 in Brasile, sostiene che la 5-MeO-DMT è in grado di stimolare la neurogenesi nei ratti. Dopo una singola iniezione di 100 milligrammi i roditori hanno mostrato una significativa proliferazione cellulare a livello cerebrale. Lavorando su questo meccanismo si potrebbero trovare soluzioni per malattie come l’Alzheimer. Certo, noi non siamo ratti e gli studi sui potenziali usi farmacologici di questo alcaloide sono appena all’inizio, per fare passi avanti la ricerca dovrebbe testare la sicurezza della 5-MeO-DMT per gli esseri umani, per capire se l’impiego della molecola sarà una frontiera a cui guardare per trovare nuove cure.

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Non sono mai stato nel Deserto del Sonora e non ho mai avuto avuto a che fare, direttamente o indirettamente, col siero dei rospi del genere Bufo. So però che ne esistono circa un centinaio di specie, tre delle quali presenti in Europa e due in Italia. Una di queste, il Bufo bufo, è tra i più comuni anfibi europei (è assente solo nelle aree insulari: Irlanda, Sardegna, Corsica, Baleari e isole minori). D’estate si avvicina ai corsi d’acqua per la stagione degli amori, il fitto gracidare che si leva al crepuscolo dalle spallette dell’Arno a Firenze a fine giugno potrebbe essere proprio il loro. Sempre in Italia ne esistono due sottospecie, il Bufo bufo bufo nelle regioni alpine e il Bufo bufo spinosus (presente oltre che nell’Italia peninsulare anche sull’Isola d’Elba). Il Bufo viridis, più piccolo del Bufo bufo, è presente nelle aree costiere dell’Europa centro-meridionale ma non nella penisola Iberica; mentre il Bufo calamita abita le zone sabbiose dell’Europa occidentale, ma non arriva in Italia. Se stai pensando di munirti di un retino per trasformarti in strega o sciamano una sera d’estate hai la mia benedizione, sarà forse un po’ più difficile trovare rospi in Francia, dove come noto finiscono in padella.


Federico di Vita è nato a Roma e vive a Firenze. Ha curato la raccolta di racconti Clandestina (effequ, 2010), è autore del saggio-inchiesta Pazzi scatenati (effequ 2011, poi Tic, 2012) – Premio Speciale nell’ambito del Premio Fiesole 2013; e, insieme a Ilaria Giannini, del libro “I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio” (Piano B, 2016).

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