Nel suo romanzo “La falce dei cieli”, Ursula K. Le Guin presenta una prospettiva unica sulla memoria e la realtà, mettendo in discussione sia un genere letterario che la nostra percezione del mondo.
IN COPERTINA: “The Fairy Feller’s Master-Stroke” di Richard Dadd
di Gregorio Magini
Ci sono tante cose che non vale la pena di fare; ma tutto, o quasi, merita d’essere raccontato.
—Ursula K. Le Guin, Il gatto di Schrödinger
Il what-if di La falce dei cieli di Ursula K. Le Guin (The Lathe of Heaven, 1971; l’edizione italiana più recente, ormai fuori catalogo, è quella di Editrice Nord del 2005) sono dei sogni che cambiano la realtà retroattivamente. Il povero George Orr, afflitto da questo potere fin dall’adolescenza, non ne vuole più sapere. Dopo un tentativo fallimentare di bloccare i sogni con un mix di barbiturici e amfetamine, viene invitato ad aderire a un «Trattamento Terapeutico Volontario» (volontario nel senso che puoi scegliere tra quello e la «Terapia Obbligatoria»). Lo psichiatra, invece di curarlo, usa le sue tecniche ipnotiche e la sua «Macchina dei Sogni» per indurlo a sognare cambiamenti sempre più drammatici nella stoffa della realtà.
“Retroattivamente” vuol dire che i sogni di Orr non funzionano come banali desideri tipo Genio della lampada, ma allineano l’intero universo alla novità. Ecco il primo di questi eventi nel romanzo:
«Avevo diciassette anni. Abitavo ancora con i miei, e in casa c’era anche una mia zia materna. Era in attesa di divorzio e non lavorava; campava col Sussidio Base. Una specie di seccatrice. […Una notte feci] un sogno molto vivido: al risveglio, riuscii a ricordarlo perfettamente. Sognai che Zia Ethel era morta in un incidente d’auto a Los Angeles […] Nient’altro… Soltanto che, quando mi alzai e andai in salotto, non c’era nessuna Zia Ethel che dormiva sul sofà. Non c’erano estranei nell’appartamento: soltanto io e i miei genitori. Zia Ethel non era nostra ospite. E io non avevo bisogno di chiedere conferme. Ricordavo tutto. Sapevo che Zia Ethel era morta in un incidente d’auto su un’autostrada di Los Angeles, un mese e mezzo prima, mentre tornava a casa da un colloquio con il suo avvocato, per il divorzio. L’avevamo saputo da un telegramma. Tutto il sogno era stato come rivivere una cosa già accaduta realmente. Ma che invece non era accaduta affatto. Prima del sogno. Voglio dire che io sapevo anche che Zia Ethel era stata da noi, che aveva dormito sul sofà del salotto fino alla sera prima.»
Della realtà precedente restano solo due tracce: una duratura, nei ricordi di Orr, che sopravvivono parallelamente a quelli nuovi, e una effimera negli altri, se sono testimoni diretti di un’alterazione, esperita come una specie di dissolvenza incrociata o transizione di fase – per chi non sa cosa sta succedendo, però, la forza dei nuovi ricordi è tale da prendere rapidamente il sopravvento. La realtà precedente presto si perde, come un sogno indefinito al risveglio.
-->Durante la lettura, ciò che colpisce nell’immediato è che la situazione di Orr appare allo stesso tempo del tutto assurda e assolutamente verosimile. La sua razionalizzazione è pienamente convincente: «il sogno cambiò davvero la realtà. Costruì una realtà diversa, retroattivamente, di cui mia madre aveva sempre fatto parte. E lei, dato che vi era dentro, non aveva ricordi di altre realtà. Io ne avevo, invece, e le ricordavo entrambe, perché io… ero lì al momento del cambio. È l’unico modo in cui posso spiegarmelo, anche se so che è privo di senso. Ma una spiegazione devo pur darmela, oppure rassegnarmi alla conclusione di essere pazzo.» Nei panni di Orr, la vedremmo allo stesso modo, perché, come lui, costruiamo il nostro senso della realtà sulla base dei ricordi.
I ricordi sono la più inaffidabile delle nostre conoscenze, non c’è alcuna garanzia che il ricordo corrisponda all’esperienza che registra, che al limite potrebbe non aver mai avuto luogo. Eppure, allo stesso tempo, la memoria è alla radice di tutte le nostre conoscenze. Senza dubbio, della conoscenza che abbiamo del nostro passato personale. Ma ben di più. L’accumulo, la compressione e l’astrazione dei ricordi fonda ogni conoscenza teorica, e ciò che non possiamo non pensare è il sedimento biologico di milioni di anni di esperienze. La coscienza nel presente, anche in assenza di ricordi espliciti, è intessuta di consapevolezza del passato e di aspettative sul futuro. (Edmund Husserl, fondatore della moderna fenomenologia, chiamò queste caratteristiche dell’esperienza rispettivamente “ritenzione” e “protensione”.)
Dunque, se da un istante all’altro mi ritrovassi in una realtà alternativa, mi accorgerei di qualcosa anche se non avessi ricordi espliciti del passato precedente, perché l’esperienza del presente è già intessuta di passato e futuro. Ma sarebbe una sensazione fuggevole e indefinibile, un glitch. Il fatto che gli altri si accorgano del cambiamento è sicuramente una scelta narrativa: senza sovrapposizione sarebbe stato difficile sviluppare una trama, legando tra loro segmenti di storie connessi solo dalla consapevolezza del protagonista. Ma è anche una descrizione plausibile di come sarebbe vissuta un’esperienza del genere. (Vedremo a breve che ha anche una terza funzione: escludere un’interpretazione solipsistica del tipo “è tutto un’allucinazione”.)
Completata la lettura, rimane il dubbio se questa inverosimile verosimiglianza sia però realistica o meno: siamo di fronte a eventi soprannaturali o a possibilità effettive? In altre parole: in base a quanto sappiamo, o crediamo di sapere, sulla natura della realtà, – e a prescindere dal punto di vista soggettivo – siamo sicuri che quanto descritto nel romanzo non potrebbe accadere?
Il tramite del sogno sembra garantire che si tratti di un effetto magico o soprannaturale. Per molti teologi, nemmeno Dio avrebbe il potere di riscrivere daccapo la storia dell’universo, figuriamoci un tizio che lancia incantesimi mentre dorme. Ma a parte le elucubrazioni sulle abilità speciali di Dio, ciò che contraddistingue la magia è sempre relativo rispetto a ciò che si considera normalmente ed effettivamente possibile. Per esempio, se faccio apparire un coniglio bianco a mezz’aria, sto violando la massima “nulla si crea, nulla si distrugge”, che non è soltanto una versione divulgativa della legge fisica di conservazione della massa (peraltro superata, a livello scientifico, dall’equivalenza massa-energia nella teoria della relatività), ma costituisce un’espressione di senso comune, riguardo i criteri che regolano il principio di realtà di una cultura meccanicista. Le cose non appaiono da sé, questo lo crede sia chi crede nella magia, sia chi la rifiuta. Se un coniglio appare dal nulla, ci sforziamo di spiegare perché sembra apparire dal nulla, per esempio dicendo che in realtà c’era un trucco illusionistico oppure in realtà alcune persone possono convogliare una forza occulta, focalizzare il potere della mente, attingere da un’altra dimensione e così via.
(Di qui una seconda ambiguità costitutiva della magia, categoria in cui mettiamo due tipi di pratiche molto diverse: quelle di altre culture che non si conformano ai nostri principi di realtà – dal loro punto di vista, niente affatto magiche in questo senso –; e quelle interne alla nostra cultura che negano i principi di realtà dominanti, o quantomeno si trovano agli ultimi posti della gerarchia).
Ma se è la realtà nel suo complesso a essere sostituita, si entra in un territorio scivoloso. I principi di realtà valgono qui, ma se ci sono altre realtà, non è detto che valgano anche per quelle. Si può chiamare “magia” un evento che sostituisce completamente ogni parametro usato in precedenza per distinguere il naturale dal magico? Forse sì, ma resta una forzatura. Sarebbe più esatto chiamarla metamagia?
Se continua a sembrare strano che alterare una microscopica regione conigliforme di spaziotempo risulti “più magico” che sostituire un universo con un altro, la si può vedere così: nel primo caso stiamo barando, nel secondo stiamo rovesciando il banco: le regole del gioco restano inalterate, ma non sono semplicemente più rilevanti. Un po’ come accade nel gioco dell’eschaton di Infinite Jest, in cui le palle da tennis che fino a un certo momento rappresentavano mosse del gioco (lancio di un ICBM), iniziano a essere scagliate con violenza contro i giocatori. Solo che qui non si tratta dell’infiltramento della realtà nella rappresentazione, ma della messa a contatto di realtà diverse.
Il salto retroattivo di realtà è sicuramente ispirato alla famosa parabola dello Zhuāngzǐ, del saggio che sogna di essere una farfalla e al risveglio non sa più se è un saggio che sogna di essere una farfalla o una farfalla che sogna di essere un saggio (non menzionata nel romanzo, ma la falce celeste del titolo – nell’originale un “tornio” – deriva da un passaggio del classico daoista, citato anche in epigrafe al capitolo 3). Le Guin però aggiunge un ingrediente: la condivisione dell’esperienza. In assenza di quella, la nostra mentalità cartesiana ci avrebbe indotto a considerare tutto ciò che segue i sogni di Orr come sogni nei sogni o qualcosa del genere. Il fatto che sono coinvolte più persone esclude questa interpretazione. La nuova realtà è reale tanto quella vecchia, non c’è alcuna illusione o allucinazione. (Questa versione è anche probabilmente più fedele allo spirito dello Zhuāngzǐ rispetto all’interpretazione scettica.)
Sembra dunque che la sostituzione di universi pertenga al regno del possibile. Ma abbiamo solo stabilito che non è esattamente in questione il soprannaturale o il magico, dunque – ragionando a livello di generi narrativi – non è un romanzo fantasy. Ma allora è fantascienza? L’antinomia viene istintiva, perché la separazione classica tra fantascienza e fantasy operava sulla base della distinzione possibile/impossibile. Rod Sterling scrisse che la fantascienza racconta «l’improbabile come se fosse possibile», mentre il fantasy racconta «l’impossibile come se fosse probabile». Certo la definizione appare da molto tempo semplicistica. Oggi sono forse più diffusi gli ibridi e le ricombinazioni che gli esemplari dei due vecchi generi in purezza. Il motivo credo sia, che il nostro senso del possibile si è ampliato, nei decenni che seguirono alla caratterizzazione di Sterling (risale al 1963), talmente a dismisura da mettere in un angolo il nostro senso dell’impossibile. La categoria ombrello della “fiction speculativa”, così come oggi la utilizziamo, sembra rispecchiare questa ipertrofia del possibile, pensato sempre meno come un volo dell’immaginazione, e sempre di più come una reale alternativa. La distinzione tra universi fantascientifici e fantasy ha perso molto del fervore polemico che ha avuto in passato, perché la fiction speculativa ha acquisito una legittimità che pochi mettono ormai in discussione. C’è spazio per tutti. Resta che ancora oggi i mille sottogeneri speculativi si distinguono tra di loro per i diversi modi con cui modulano le modalità del possibile e dell’impossibile, in rapporto alle contingenze di questo mondo e alle essenze di altri mondi.
L’opera di Le Guin ha sicuramente un posto di rilievo in quel processo che ha portato al ripensamento delle possibilità della narrativa fantastica – ripensamento così radicale che la narrativa fantastica ha cambiato nome. Il momento in cui la cogliamo in La falce dei cieli, è quello della ripresa dei temi di Philip K. Dick della moltiplicazione e contaminazione dei piani di realtà. Ma con l’eliminazione del piano teologico: mentre in testi come Le tre stimmate di Palmer Eldritch e Ubik gli sfondamenti di luogo, tempo e dimensione sono governati da un’entità divina, qui non vi è alcuna spiegazione, né razionale né mistica. I sogni di Orr sono efficaci e basta, e nemmeno l’apparizione, nella seconda parte del romanzo, di extraterrestri esperti nell’arte della navigazione onirica interdimensionale vale a spiegare alcunché. Non c’è alcuna realtà ultima, e il saggio deve sapere quando fermarsi se non vuole autodistruggersi nella ricerca – la già citata epigrafe dallo Zhuāngzǐ esprime proprio questo concetto. Vi è un’altra differenza fondamentale: in Dick le entità cosmiche sono malvagie, in Le Guin benevole e la parte del cattivo la fa lo psichiatra che rischia di distruggere il mondo nel tentativo di appropriarsi del potere onirico. Gnosticismo versus daoismo si potrebbe dire.
L’assenza di un piano di realtà ultimativo lascia aperta la questione della metafisica soggiacente alla situazione esplorata da Le Guin. È questo il punto che ne fa, a mio parere, un prototipo della mentalità, per così dire, possibilista che soggiace all’approccio speculativo.
Mettiamo da parte l’interrogativo “ma perché proprio i sogni dovrebbero avere questo potere?”, con tutto il suo bagaglio psicoanalitico. Consideriamo l’ipotesi generica che un mezzo qualsiasi possa cambiare passato e presente. “Che ci vuole?” dirà il lettore di fantascienza “basta una macchina del tempo!” Il problema è che i viaggi nel tempo non funzionano così. A garantire la realtà del viaggio nel passato c’è sempre una persona in un certo punto dello spaziotempo. È come se non riuscissimo a immaginare di cambiare il passato senza trasformarlo nel presente. (Il che porta poi ai famosi paradossi tipo uccidere il proprio padre o consegnare al sé stesso più giovane il manuale d’istruzioni per costruire macchine del tempo). L’unica cosa lontanamente paragonabile che mi viene in mente è il meraviglioso racconto Rombo di tuono (1952) di Ray Bradbury, dove un uomo calpesta una farfalla durante un cronosafari nel Giurassico alterando il futuro della Terra. Ma La falce dei cieli si spinge ben più in là della preistoria. L’effetto è equivalente, ma l’innesto causale alla radice richiede un salto di livello ontologico. (Esperti enciclopedici di fiction speculativa sapranno sicuramente tirare fuori altri esempi).
Verrebbe voglia di tirare in causa l’idea che ha spalancato le porte dell’immaginazione (occidentale), la fisica quantistica. Nello specifico i multiversi e i “Molti Mondi” quantistici, l’ipotesi che esiste un universo per ogni possibile opzione. Non so se Le Guin quando scrisse il romanzo conosceva l’interpretazione del collasso della funzione d’onda di Everett e DeWitt. Sospetto che lo conoscesse e non lo conoscesse, come poteva conoscere lo stato di salute del gatto di Schrödinger in epigrafe (Il gatto di Schrödinger è un racconto contenuto nell’antologia Il diario della rosa, anch’essa Editrice Nord e anch’essa da anni fuori catalogo). Fatto sta che abbiamo una rispettabile, anzi dominante, teoria fisica che va abbastanza d’accordo con l’idea che esistono tutte le possibili realtà. Non però con la possibilità di saltare da una realtà all’altra: uno si trova sempre e solo nella realtà in cui si trova. Lo scambio dei binari in cui avremmo potuto prendere un’altra strada sta sempre alle nostre spalle, mai davanti. Non ci possiamo sdoppiare come il gatto. (Che dal canto suo non pare avere alcuna intenzione di sdoppiarsi, come illustrato da Il gatto di Schrödinger, che può essere letto come una prefigurazione narrativa della più recente interpretazione relazionale della meccanica quantistica proposta da Carlo Rovelli).
La falce dei cieli risulta dunque compatibile con la fisica ortodossa, allo stesso modo con cui è compatibile con la magia: non la contraddice, ma la eccede. Più che fantasy e più che fantascienza, ma né l’uno né l’altra. Anche per questa terza via, in conclusione, risulta che tutto rimane aperto e indecidibile. Non per vaghezza, o nascondendo informazioni al lettore, ma come coerente conseguenza di precise scelte narrative. Morale: fiction speculativa, propriamente intesa, non significa mischiare allegramente le palle di fuoco con le astronavi con il DNA con i canti aborigeni, né presentare in forma allegorica idee radicali o non convenzionali. Queste sono solo (felici) conseguenze delle possibilità date dall’apertura di uno spazio. E questo spazio si apre costruendo narrazioni sopra e al di là di quanto sappiamo, o crediamo di sapere.
0 comments on “Scienza e magia, né scienza né magia: quando Ursula Le Guin scoprì la fiction speculativa”