Si parla moltissimo di arte prodotta da robot e intelligenze artificiali, ma sono davvero opere da considerare come prodotti della volontà delle macchine? O semplicemente i robot e le IA non sono altro che strumenti che noi umani usiamo per fare arte?
In copertina: un frame da cyber paint
(Questo testo è la traduzione italiana di un articolo precedentemente uscito su Aeon)
di Rui Penha
Supponiamo che l’emergere della coscienza nelle intelligenze artificiali sia possibile; se quelle menti sentiranno il bisogno di creare arte, saremo in grado di capirla? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo considerarne altre due: quando una macchina diventa autore di un’opera d’arte? E come possiamo fare per capire la sua opera?
Si dice che l’empatia sia la forza dietro alla nostra capacità di comprendere l’arte. Basta pensare a cosa succede quando ci si trova di fronte a un’opera. In genere pensiamo che per capirla basta usare la nostra esperienza cosciente e chiederci cosa potrebbe motivarci a realizzare un’opera di quel tipo – in seguito si usa quella prospettiva per cercare di giungere a una spiegazione plausibile. L’interpretazione dell’opera sarà personale e potrebbe differire significativamente dalle ragioni dell’artista, ma se condividiamo sufficienti esperienze e riferimenti culturali, potrebbe essere un’interpretazione plausibile. Per questo motivo possiamo rapportarci in modo diverso a un’opera d’arte dopo aver appreso che si tratta di una contraffazione o di un’imitazione: l’intento dell’artista di ingannare o imitare è molto diverso dal tentativo di esprimere qualcosa di originale. Raccogliere informazioni contestuali prima di saltare a conclusioni sulle azioni altrui – nell’arte, come nella vita – può permetterci di relazionarci meglio alle loro intenzioni.
Ma con l’artista condividiamo qualcosa di molto più importante dei riferimenti culturali: condividiamo anche un corpo simile e, con esso, una prospettiva analoga. La nostra esperienza umana soggettiva deriva, tra le altre cose, dall’essere nati ed essere stati educati all’interno di una società di altri esseri umani, dal combattere l’inevitabilità della morte, dai ricordi che ci sono cari, dalla solitaria curiosità della nostra mente, dall’onnipresenza dei bisogni e delle stranezze del nostro corpo biologico, e dal modo in cui questo corpo detta le scale spaziali e temporali che possiamo cogliere. Ecco, anche se tutte le macchine coscienti avranno delle esperienze, queste saranno in corpia noi saranno del tutto estranei.
Siamo in grado di empatizzare con i personaggi non umani o con le macchine intelligenti presenti nelle narrazioni create dall’uomo soltanto perché sono tutti concepiti da altri esseri umani dall’unica prospettiva a noi accessibile: “come sarebbe per un essere umano comportarsi come x?”
Per comprendere l’arte delle macchine – supponendo innanzitutto di riuscire a riconoscerla – avremmo bisogno di un modo di concepire un’esperienza in prima persona come la concepirebbe una macchina. È qualcosa che non possiamo fare nemmeno per gli esseri che sono molto più vicini a noi. Può benissimo accadere di percepire come arte alcune azioni o alcuni artefatti creati dalle macchine di loro spontanea volontà, ma così facendo, inevitabilmente, antropomorfizzeremmo le intenzioni della macchina. L’arte fatta da una macchina può essere interpretata in un modo che è plausibile solo dal punto di vista di quella macchina, e qualsiasi interpretazione antropomorfizzata sarà implausibile e aliena dal punto di vista della macchina. E come tale, sarà un’interpretazione errata dell’opera.
Ma cosa succede se diamo alla macchina un accesso privilegiato al nostro modo di ragionare, alle peculiarità del nostro apparato percettivo, a una moltitudine di esempi di cultura umana? Questo non consentirebbe alla macchina di fare un’arte che anche un essere umano potrebbe capire? La risposta è sì, ma questo renderebbe anche le opere d’arte parzialmente “umane” – non autenticamente prodotte dalle macchine.
Tutti gli esempi di “arte fatta da macchine” sono in realtà semplici esempi di arte umana fatta con dei computer, con artisti che sono i programmatori dei computer stessi. Potrebbe sembrare un’affermazione strana: come possono dei programmatori essere gli autori dell’opera se, il più delle volte, non possono controllare – o addirittura anticipare – le effettive materializzazioni dell’opera stessa? Ma a ben vedere si tratta anche in questo caso di una pratica artistica molto antica.
-->Supponiamo che un’orchestra suoni la Sinfonia n. 7 di Beethoven. Anche se Beethoven non è direttamente responsabile di nessuno dei suoni prodotti, diremmo comunque che stiamo ascoltando Beethoven, no? La nostra esperienza potrebbe dipendere in modo considerevole dall’esecuzione del brano da parte dei musicisti, dall’acustica della sala, dal comportamento degli altri membri del pubblico o dal nostro stato d’animo. Questi e altri aspetti sono il risultato di scelte fatte da persone specifiche o di eventi che possono accadere. Ma l’autore della musica rimane Ludwig van Beethoven. Ipotizziamo che, per via di una scelta un po’ bizzarra, la stessa sera si suoni anche Imaginary Landscape No 4 (March No 2) di John Cage, con 24 esecutori che controllano 12 radio in base a una partitura musicale. In questo caso, la responsabilità per i suoni che vengono ascoltati dovrebbe essere attribuita ad ospiti radio ignari o a campi elettromagnetici. Tuttavia, la formazione dei suoni nel tempo, e quindi la composizione, dovrebbero essere attribuite a Cage. Ogni esecuzione di questo pezzo varierà enormemente nella sua materializzazione sonora, ma sarà sempre un’esecuzione di Imaginary Landscape No 4.
Perché dovremmo cambiare questi principi quando gli artisti usano il computer? Gli artisti (umani) potrebbero non avere il controllo diretto delle materializzazioni finali, o addirittura essere in grado di prevederle, ma, nonostante ciò, sono gli autori dell’opera. Diverse materializzazioni della stessa idea – in questo caso formalizzata come algoritmo – sono istanziazioni del medesimo lavoro in condizioni contestuali diverse. Un uso comune della computazione nelle arti è infatti la produzione di variazioni di un processo, e gli artisti fanno largo uso di sistemi che sono sensibili alle condizioni iniziali, input esterni o pseudo-casuali, per evitare deliberatamente la ripetizione degli output. Avere un computer che esegue una procedura per costruire un’opera d’arte, anche se si utilizzano processi pseudo-casuali o algoritmi di apprendimento automatico, non è diverso dal lanciare dadi per organizzare un brano musicale, o dal perseguire innumerevoli variazioni della stessa formula. Dopo tutto, l’idea di macchine che fanno arte ha una tradizione artistica che precede da tempo l’attuale tendenza delle opere realizzate con l’intelligenza artificiale.
Machinic art è un termine inglese che riteniamo debba essere riservato all’arte fatta di propria volontà da parte di una mente artificiale, non a quella basata (o diretta) su una visione antropocentrica dell’arte. Da un punto di vista umano, le opere d’arte fatte da macchine saranno ancora procedurali, algoritmiche e computazionali. E saranno generative, perché autonome rispetto a un artista umano. Potrebbero anche essere interattive, con gli esseri umani o con altri sistemi. Ma non saranno il risultato di un umano che rinvia semplicemente le decisioni a una macchina, perché la prima di queste – la decisione di fare arte – deve essere il risultato della volontà, delle intenzioni e delle decisioni di una macchina. Solo allora non avremo più l’arte umana fatta con i computer, ma una vera e propria arte fatta da macchine, la machinic art.
Il problema non è se le macchine svilupperanno o meno un senso di sé che le porterà a un desiderio di creare arte. Il problema è che se – o quando – lo faranno, avranno un Umwelt così diverso che non saremo completamente in grado di relazionarci ad esso. L’arte delle macchine rimarrà sempre al di là della nostra capacità di comprenderla perché i confini della nostra comprensione – nell’arte, come nella vita – sono quelli dell’esperienza umana.
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