Se Kerouac fosse un’intelligenza artificiale



1 the Road (2018) è un libro senza autore, scritto da reti neurali connesse a sensori audio, orari, ottici e GPS mentre erano in viaggio da New York a New Orleans a bordo di una Cadillac. Insomma, il road trip dell’intelligenza artificiale.


In copertina: Mario Schifano : Senza titolo – Fotografia ritoccata a mano – Asta pananti in corso

 

di Niccolò Monti

Wir fahr’n, fahr’n, fahr’n, auf der Autobahn

Wir fahr’n, fahr’n, fahr’n, auf der Autobahn

Kraftwerk, Autobahn

L’auto percorre l’A1 tra stimoli, traffico, avvisi e carcasse sul ciglio. Non conosco nessun luogo autogrill e depositi, casolari, cantieri e benzinai — ma li riconosco tutti. Riconosco e ricordo, sì, ma freno la meraviglia di quando passo per Orvieto: volo a 130 e Orvieto fa da sfondo. Non posso distrarmi, non troppo, mi trovo in ipnosi, calato in un moto automatico. Fermo le mani per fermare la parola: anche ora, mentre scrivo, si tratta di automatismo.

Ecco un’ipotesi: si può «scrivere una storia della letteratura del Novecento […] a partire dall’idea di “automatismo”». La storia includerebbe Breton, Tzara e i rispettivi gruppi surrealisti e dadaisti, la scrittura sotto vincoli dell’OuLiPo, i beat americani. Fra questi ultimi c’è Kerouac, devotissimo alla scrittura spontanea, il cui On the road (1957) racconta un viaggio coast to coast per il Nord America in bus, autostop, o sfrecciando in Cadillac da Denver a Chicago. Fine anni ‘40, anni di quelle scorribande interstatali: meno targhe e meno strada, meno oggetti ma miti più intensi, imbevuti dei sogni di velocità che in Europa arrivano intonati dal vocoder dei Kraftwerk: Wir fahr’n, fahr’n, fahr’n, auf der Autobahn. Kerouac è tra i primi a far letteratura su quel mito. Scrive dapprima su taccuini le esperienze dei suoi viaggi, ma alla fine le trascrive su una pergamena lunga 36 metri, creando un testo continuo senza capoversi che sembra imitare un pensare robotico, e facendo dello scrittore una macchina: in ogni atto un calcolo di cause ed effetti, tutto nella costola dell’immediato.

Oggi poca letteratura fa lo stesso: la strada è sempre più an-epifanica. Ma, se si risale la storia di quel germe automatico per ancora metà secolo, il tema riemerge in forma inedita: ora non sarà Kerouac a scrivere il viaggio, ma l’automobile stessa.

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[…] la maggior parte dei libri che ho pubblicato tra il 2004 e il 2009 furono scritti in automobile, […] in questo stato mentale di rêverie diurna che provocano allo stesso tempo la fluidità autostradale e l’asservimento del corpo alla meccanica.

Bernard Stiegler, La società automatica

1 the Road (2018) è un libro senza autore, scritto da reti neurali connesse a sensori audio, orari, ottici e GPS mentre erano in viaggio da New York a New Orleans a bordo di una Cadillac. Insomma, il road trip dell’intelligenza artificiale.

Come si legge un libro scritto da degli algoritmi? Immaginiamo per assurdo un lettore o una lettrice totalmente ignara, noncurante delle due introduzioni, dei video su YouTube e delle interviste. Incontrerà questo incipit:

Erano le nove e diciassette del mattino e la casa era pesante.

Mancavano sette minuti alle dieci del mattino ed era l’unica cosa buona che fosse successa.

Cosa c’è? chiese il pittore.

(It was nine seventeen in the morning, and the house was heavy.

It was seven minutes to ten o’clock in the morning, and it was the only good thing that had happened.

What is it? the painter asked.)

Quale casa? Qual sola cosa buona ad essere accaduta? Quale pittore? Non si ha granché risposta proseguendo. Molte frasi seguono uno schema che varia poco: <Dato temporale/geografico>, and <proposizione narrativa>. Talvolta sono domande, come sopra, o frasi più intricate, la cui coerenza però si sfalda in fretta. Sintassi e lessico mantengono una certa coazione a ripetere, ma in certi casi il testo è in grado di virare su immagini che ricordano i sogni filmici di Maya Deren: «Il pianoforte uscì dalla finestra e poi tornò a fluttuare» («The piano came out of the window and then floated again»). Il pianoforte da dove esce? Niente lo anticipa e niente gli fa seguito, eppure eccolo, emerge come da un fondo insensato nel quale svelto si rituffa. Sarà così per molte altre scene.

Chi legge continua. I blocchi di testo sembrano vignette improvvisate e slegate dal contesto. Certo è che non mancano le descrizioni ambientali: gli alberi, il cielo «Un cielo grigio scuro era ancora trasalito e morbido» («A dark grey sky was still startled and soft») , i nomi di luoghi specifici, come ristoranti o strade «Uscita I-95: via Lorton» («I-95 Exit 163: Lorton Rd»). Il tempo passa, i luoghi cambiano velocemente e nulla si ferma troppo a lungo, si avverte il movimento di qualcuno che racconta un viaggio. Ma la diegesi è troppo impressionista, troppo svelta e nessun soggetto narrante si palesa mai. Che si tratti di un qualche epigono d’avanguardia? Beckett sincopato, Butor sotto mescalina? Butor aveva scritto un testo di simile spirito: Mobile (1962), un collage di frammenti, il diario di un road e sky trip, che aveva come scopo “una rappresentazione degli Stati Uniti”. I luoghi di 1 the Road in effetti corrispondono a punti sulla costa Est USA. Ma, chiunque viaggi, l’obiettivo al contrario di Butor non sembra rappresentativo. Gli scorci di paesaggio si sollevano da un fondo indifferente e subito vi sono ricacciati. Dicevo, nulla si ferma troppo a lungo.

Poi, alle narrazioni ambientali e alle informazioni banali sull’ora e sul meteo, si alternano momenti più enigmatici. Visioni dal tono quasi lirico, o dai sottotoni allegorici «Un edificio in lontananza era una luna cattiva» («A building in the distance was a bad moon»), oppure voci provenienti da un punto esterno al viaggio, forse l’intrusione di un ricordo «… la controporta si era aperta e la signora si era fermata e aveva detto, Lei sa tutto e io non so cosa fare» («…the storm door had opened and the lady had stopped and said, You know all about it, and I dont [sic] know what to do»). Ma niente arriva a intrecciare una trama dei pensieri, né una trama tout court: si susseguono frasi su frasi, mai lunghe più di sei sette righe, che procedono accompagnate da un orario segnato vicino a ciascuna, con i giorni (25, 26, 27 e 28 marzo 2017) a dividere l’opera in capitoli.

Per aggiungere rumore alla lettura, in media ogni quattro blocchi appare un rettangolo. Ogni rettangolo è composto di minutissimi simboli grafici, disposti in linee parallele, che nell’insieme pare formino un disegno: il profilo di una collina, o una luce che irradia la visuale. Ma nulla spiega i rettangoli, mentre i disegni in essi contenuti variano senza sapere se si tratti di macchie casuali o di oggetti specifici. 

Dopo tutto ciò, chi legge potrebbe legittimamente pensare che il libro non abbia alcun senso.

Ripenso a una cosa che mi è stata chiesta mentre leggevo 1 the Road: qual è il senso di leggere un testo senza senso? Chi domandava sapeva che il libro è frutto di reti neurali, ed è importante che la domanda fosse posta con una cognizione di causa. Essa apre infatti un’altra prospettiva, una che riguarda da vicino il modo in cui interpretiamo i testi a partire dalla loro semantica e, assieme, dall’autorialità che vi si innesta. Se prescindiamo dall’autore o l’autrice, se guardiamo all’intenzionalità dell’opera e non nell’opera, il caso di chi legge senza conoscere chi scrive finisce per assomigliare a un test di Turing: l’individuo X deve indovinare chi, tra i soggetti A e B, con cui interagisce tramite domande e mai direttamente, sia l’essere umano e chi invece la macchina; se X nella maggior parte dei casi non saprà distinguere l’uno dall’altra, allora la macchina sarà definita intelligente. Ma il test di Turing ha una validità limitata: la verifica sarebbe che X fosse incapace di distinguere A da B pur sapendo che uno è macchina. Inoltre, è stato detto più e più volte che il test di Turing vale più come prova della scaltrezza di chi ha scritto il software che dell’intelligenza o creatività dello stesso. Del pari, leggere 1 the Road senza attenzione alla sua genesi, o esigendo di interpretarlo come un libro qualunque, equivale a prorompere in un ecco, lo sapevo! una volta smascherato l’algoritmo, che diventa il premio per l’abilità del programmatore, ma al contempo l’alibi dell’insensatezza dell’opera.

 Per questo si deve chiedere come la dimensione autoriale sia in partenza, e in certi casi, inestricabile dalla costruzione semantica di un testo. Quando l’autore è algoritmico, ad esempio, la risposta comune è dire che il testo non ha senso. 1 the Road, in fondo, non può averne: una macchina non capisce ciò che fa, al contrario di noi; non ha intenzioni, al contrario di noi; non ha ideazioni, al contrario di noi. E così via. L’eccezionalità umana è un recinto plastico e poco poroso: per quanta area gli venga tolta (dagli altri animali, dalle macchine), essa si ritira in un’enclave sempre più esclusiva e inespugnabile, riparo per le credenze da cui parte la tutela dell’esistenza umana pensata come unica e speciale.

1 the Road non è certamente l’ariete che pone fine all’assedio. Anche perché la disputa per la creatività tra umani e macchine è tutta nelle mura. Dentro e fuori non sono distinti. Semmai, 1 the Road evidenzia i rischi della miopia verso questa indistinzione e in generale verso tutta l’arte algoritmica. E lo fa agendo sul senso di ciò che leggiamo e, più precisamente, sul senso dell’autorialità. Vediamo come.

Senza titolo – Fotografia ritoccata a mano – Asta Pananti in corso

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Scompaia dunque l’autore […] per lasciare il suo posto a un uomo più cosciente, che saprà che l’autore è una macchina e saprà come questa macchina funziona.

Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi

Dicevo che in 1 the Road un autore non c’è, perlomeno non un’autorialità in senso convenzionale. Eppure in copertina, e non sarebbe sfuggito a chi legge, campeggia un nome: il writer of writer, Ross Goodwin.

Ross Goodwin è un programmatore, o, come preferisce definirsi lui stesso, un creative technologist, o data poet; appellativi che strapperebbero sorrisi ironici, se non fosse che, da un lato, seguono un cambio di regime importante per quanto riguarda l’autorialità, in un modo che non si discosta troppo dall’ideale di Calvino, per cui una più cosciente generazione di autori non si sarebbe solo resa macchina, come Kerouac, ma si sarebbe accorta di esserlo sempre stata e di essere sostituibile da computer scriventi. Goodwin, in parte, esaudisce l’ideale di Calvino. Dall’altro lato, poi, pur non scomparendo del tutto, il caso di Goodwin conferma il ritorno di un intento estetico che era stato definito dai formalisti russi a inizio Novecento: porre l’umano davanti ai suoi automatismi compiere uno straniamento.

Gli automatismi sono anzitutto quelli del software che riceve gli input dai sensori. A comporre il testo è poi un sistema di algoritmi costituito da reti neurali convoluzionali, cui ruolo è classificare le entità presenti in una serie di immagini, e da reti neurali ricorrenti provviste di long short-term memory, cui ruolo è invece la scrittura del testo lettera per lettera. Il training è fatto su ampi corpora linguistici (milioni e milioni di parole) suddivisi in tre gruppi: uno per la poesia, uno per la letteratura di fantascienza e un ultimo di prosa bleak, stando a Goodwin. Inoltre, le reti accedono all’orologio interno del computer e ai dati di geolocalizzazione estratti da Foursquare, da cui le reiterate menzioni all’orario e ai luoghi incontrati in viaggio. Gli esiti dell’automatismo in questione sono evidenti nella serie di frasi che, fin dall’incipit, appaiono slegate le une dalle altre. Ma ciò accade perché ogni frase si genera tramite un processo indipendente e contingente allo spazio-tempo in cui è avvenuta quella specifica generazione. Il viaggio è l’esperienza connettiva che unisce i punti, e quindi le frasi.

 Benché il collante narrativo sia esiguo, qualche ricorrenza salta all’occhio. È il caso ad esempio del pittore, il quale, menzionato nell’incipit, ritorna almeno due o tre volte nel corso del libro. Qualcuno ha ipotizzato che esso stia per Goodwin, una sintesi dei discorsi fra il programmatore e i compagni di viaggio mentre sedeva sul retro della Cadillac. L’ipotesi è affascinante: la macchina crea un personaggio appositamente associato al suo creatore. Ma si può solo tirare a indovinare per dire che cosa sia ‘ispirato’ dai dialoghi catturati dal microfono di bordo e cosa da altre fonti, da un’associazione casuale di dati presenti nel dataset letterario, fusa magari con le informazioni registrate dalla videocamera di sorveglianza montata sul baule. La macchina si limita a scrivere in tempo reale e in maniera ininterrotta l’output su un nastro per scontrini. L’assemblaggio finale non viene alterato: l’automatismo si conserva così com’è, a prescindere dall’incoerenza narrativa, o dalla leggibilità.

Dunque: da un lato gli automatismi sono quelli della macchina e dei suoi processi algoritmici di classificazione e generazione testuale. Dall’altro, tuttavia, gli automatismi sono quelli di chiunque, essendo presenti anche nella parte umana della creazione — e ovviamente  della fruizione. Qui è dove lo straniamento di 1 the Road agisce sugli “automatismi della percezione” che formano la nostra familiarizzazione col mondo, il nostro senso comune. Senso da cui resta escluso ogni prodotto creativo non umano, specie se macchinico. Ecco un primo automatismo che 1 the Road va a mettere in crisi: la credenza che nulla oltre a un agente umano possa manipolare conoscenza per creare oggetti dotati di senso; in altre parole, che la creatività sia una prerogativa dell’eccezionalità umana.

Come nel caso dell’autorialità, 1 the Road di certo non è l’ultima parola, ma si dimostra comunque un punto di partenza che introduce allo straniamento cui siamo sottoposti dalle pratiche di arte algoritmica. Creatività e autorialità, con le annesse convinzioni su proprietà, genio e originalità, sono fra i primi concetti che andranno rivisti, per essere rimessi nel circolo storico da cui emergono. Un inizio potrà darsi proprio con una storia della letteratura del Novecento alla luce della nozione chiave di ‘automatismo’, come ha proposto Bartezzaghi e come Iadevaia ha in parte fatto per il panorama italiano. Le strade non mancano.

Ma c’è un secondo automatismo su cui si attua 1 the Road. Torniamo nella viva e carnale esperienza del testo, anche se la carne qui sembra più quella ibridata di un Tetsuo. Torniamo, in conclusione, alla lettura.

 

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La letteratura vive di apparizioni. Spesso le apparizioni giungono al buio.

Andrea Gentile, Apparizioni

Molte parti di 1 the Road si svolgono a sole calato. Lo sappiamo grazie all’orologio del computer, i cui input non mancano mai di segnare e ritmare la lettura. Le reti neurali e i loro sensori scrivono da un luogo buio.

Al termine del primo giorno troviamo allusioni bibliche: «Riflettendo la luce sul soffitto, Adamo interpretò l’uomo con l’angolo del quale era andato a casa dopo il tempo presente nel giardino» («Light reflecting on the ceiling, Adam played the man with the corner of which he had gone to the house after the present time in the garden»). Nell’oscurità dell’autostrada, i sensori captano l’illuminazione artificiale, o forse il diorama di stelle che il cosmo proietta sul ceiling celeste, e fra le luci appare Adamo, un richiamo ancestrale, che tuttavia non può avere senso per la macchina: il caso è inscindibile dall’automatismo. Allora il giardino che appare subito dopo? La reiterazione dello stesso campo semantico, le reti neurali avranno seguito una ricorrenza di /Adamo/ assieme a /giardino/, un processo stocastico di composizione ha fatto il resto.

Nel blocco successivo di frasi Adamo già non c’è più. Invece torna il pittore, e nuovamente le luci: «Luce sul pavimento, disse il pittore. Non ho niente da fare. Avrei potuto iniziare alla grande. Voglio andarmene da qui, è arrivato il momento» («Light on the floor, the painter said. I have nothing to do. I could have made a big start off. I want to go away from here, the time has come»). Il riferimento a un grande inizio mancato, possiamo quasi sentire le voci riempire l’abitacolo della Cadillac che vengono trasmesse dal microfono al computer, dove diventano un accenno di sconsolatezza da parte di uno dei pochi ‘personaggi’, quel pittore che forse è Goodwin, che ne è l’estratto e la sintesi, in questo passaggio la parte di sé più fatale. Torna alla pagina dopo, il pittore, ma gli fa eco una presenza: «Parte di un tavolo nero nell’angolo, disse il pittore, e l’auto pronunciò a voce bassa» («Part of a black table in the corner, the painter said, and the car pronounced in a small voice»). È una delle molte scene in cui l’inaspettato, l’effetto di straniamento prodotto dalla narrazione surreale di 1 the Road, si trasforma nel perturbamento scaturito da ciò che non dovrebbe essere così: una macchina che parla, e per giunta a bassa voce. Ci tranquillizza che la frase sia un innocuo prodotto algoritmico. Ma l’apparizione è avvenuta e le nostre aspettative di lettura devono tenerne conto.

L’informatica britannica Margaret Boden ha indicato nell’accoppiamento di novità, sorpresa e valore il nucleo di qualsiasi atto di creazione. Credo che, per ora, e senza entrare nel merito dei limiti della teoria di Boden, parlare di sorpresa pone un accento forte sugli effetti stranianti delle opere che popolano il campo dell’arte algoritmica. Pur funzionando con architetture differenti e per fini diversi, anche reti neurali come quelle di DALL-E, Imagen o Midjourney andrebbero viste per il potenziale di de-automatizzare le abitudini acquisite dal processo artistico.

Al netto delle criticità prime fra tutte la proprietà del codice, l’impatto ecologico, per non parlare degli utilizzi bellici delle tecnologie intelligenti — lasciamo lo straniamento scivolare sottopelle. 1 the Road è uno dei più riusciti esperimenti in questa direzione. La sorpresa scaturisce non solo da una conoscenza tecnica di come il libro è stato creato, non solo tramite il decentramento della figura autoriale, ma, e qui il senso della lettura, la sorpresa è nella miriadi di momenti in cui fra le inezie del viaggio, le informazioni triviali, ma anche grazie ad esse, chi legge incappa in un’apparizione, momenti quasi epifanici che vanno dallo sgomento più sbrigativo allo spaesamento vero e proprio.

La notte del primo giorno di viaggio si conclude su un tono simile. Dopo il secondo intervento del pittore, nuove comparse bibliche — «Il tavolo è marrone ed Esaù si fermò all’ingresso e guardò per terra» («The table is brown and Esau stood in the doorway and looked down on the ground») , il cielo emana segni misteriosi: «Il cielo è scuro e il cielo è quasi striato di verde e il cielo arriva quasi in superficie. Il sole è striato di nero» («The sky is dark and the sky is almost streaked with green and the sky stands almost to the surface. The sun is streaked with black sun»). Un’eclissi? Ma è notte. La macchina continua. Nelle due pagine seguenti una coppia di personaggi si aggiunge al coro: «Il ragazzo dice, Non so cos’hanno» («The boy says, I dont [sic] know what they’ve got»), e quindi, in un altro blocco, «Il pavimento è marrone, disse l’uomo. Si sedette sul letto di fronte al marciapiede e si avvicinò al ragazzo» («The floor is brown, said the man. He sat down on the bed in front of the pavement and walked over to the boy»). Qualcosa di infausto, ma non facciamo in tempo. La macchina è andata. Nulla si ferma troppo a lungo.

La notte si chiude su un trittico. La macchina espone le sue coordinate, e poi: «in lontananza, le prostitute si ergono come un artista visto nel parcheggio con i suoi personaggi sottomessi e i servitori» («in the distance, the prostitutes stand as an artist seen in the parking lot with its submissive characters and servants»). Una scena che potrebbe essere Ballard, cui fa seguito un’iniezione di raccapriccio e di opprimenza: «nell’ombra della casa del treno, una scalinata immobile della città di 100 uomini si fermò alla porta del negozio e guardò in alto» («in the shadows of the house of the train, a still stairway of the town of 100 men stood at the door of the store and looked up»). Verso dove? Impossibile che sia l’eclissi. Qualcosa insiste dal cielo. Ma subito arriva la tripletta di frasi che ci lasciano alla notte, con un senso di attesa e di incombenza per quello che avverrà nei prossimi giorni di viaggio: «Erano passate da sette minuti le dieci di sera. La stazione era deserta. Il percorso era già al sole» («It was seven minutes after ten o’clock in the evening. The station was deserted. The path was already in the sun»). Un senso di vuoto, di mancanza, di una crepa nel pensiero, nel terreno che soccombe e rende infermo l’equilibrio. Un sole nero che si staglia sulla strada. L’apparizione di un nuovo orizzonte letterario.


Niccolò Monti vive a Torino, dove svolge un dottorato di ricerca in semiotica sulla creatività computazionale. Scrive di letteratura modernista e d’avanguardia, non riesce a uscire dalle spire di Antoine Volodine. Fa parte di Montag, un collettivo di scrittori attivo tra Roma e Torino che racconta l’Antropocene.

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