Il mestiere dello scrittore è spesso fatto di pose, di manierismi e di comportamenti utili non tanto a scrivere, ma a mettere in mostra sé stessi per apparire come persona di cultura. Questa apparenza non è un fatto nuovo, al contrario ha una lunga storia, eccola qui.
IN COPERTINA, e nel testo, opere di hernan bas
Questo testo è un adattamento tratto da “Vite in vetrina” di Edoardo Zuccato. Ringraziamo Le Lettere per la gentile concessione.
di Edoardo Zuccato
Nella nostra epoca per diventare uno scrittore famoso è necessario non tanto scrivere bene quanto sembrare uno scrittore. Che cosa significa “sembrare uno scrittore” è il tema di questo articolo, in cui vengono esaminate le principali immagini pubbliche degli autori dal 1800 a oggi. L’importanza dell’immagine è una conseguenza dell’intreccio fra vita e letteratura introdotto dai romantici, che il mondo contemporaneo ha solo estremizzato attraverso la spettacolarizzazione mediatica. Per questa ragione, leggere le opere degli scrittori continua a essere sinonimo di leggere le loro vite, le quali suscitano interesse al punto di precedere o perfino sostituire le opere d’arte come oggetti principali dell’attenzione del pubblico.
Questo articolo mette in luce i motivi storici che hanno fatto emergere una simile concezione della letteratura e degli scrittori e ne seguono l’evoluzione di alcuni filoni a partire dal tardo Settecento. Ma questo non vuole essere un saggio storiografico, incentrato solo sul passato; il suo obiettivo ultimo è di fornire gli strumenti necessari per comprendere il presente. Per capire quanto a fondo ancora agiscano, in modo per lo più inconsapevole anche da parte di lettori avvertiti, una serie di preconcetti sedimentati nella nostra cultura degli ultimi duecento anni, capaci di orientare le gerarchie di valore e i parametri di giudizio estetico oggi dominanti. Nel quadro della globalizzazione, la visibilità e la fama di un autore dipendono in misura sempre più ridotta da criteri estetici, di cui oggi meno che mai esiste una gerarchia condivisa, e sempre più dalla capacità di venire incontro alle aspettative del pubblico, incarnando certe immagini sedimentate di scrittore che la società moderna ha reso possibili da duecento anni a questa parte.
È evidente che qualunque narrazione biografica o autobiografica trasforma un individuo in un personaggio da romanzo. Tra gli infiniti momenti di un’esistenza ne vengono scelti alcuni a cui si attribuisce un significato, alla luce del quale tutto il resto viene interpretato. Come disse Freud a Arnold Zweig, che si era proposto come suo biografo, «Chi diventa biografo, si impegna a mentire, all’occultamento, all’ipocrisia, all’edulcorazione e perfino alla negazione della sua incomprensione, giacché non è possibile avere la verità biografica, e, se la si avesse, non servirebbe a niente». Che cosa accade, allora, quando si impone una concezione della letteratura impregnata di biografismo?
Il fatto che dal Romanticismo in poi l’opera di un’artista sia considerata pienamente leggibile solo alla luce della vita dell’autore ha delle conseguenze estetiche su cui di rado si riflette. L’opera di Omero o di Shakespeare è completa in sé; la vita dell’autore non aggiunge nulla su di essa. Anzi, la banalità che traspare dai pochi dati che abbiamo sulla vita di Shakespeare è diventata, da metà Ottocento, una fonte di scandalo tale da produrre le più bislacche ipotesi, tanto incredibile sembra ai lettori postromantici che un borghesuccio qualunque, di cultura e ambizioni comuni, ritiratosi come un signorotto al suo paese di origine una volta raggiunto il successo, possa aver prodotto un’opera poetica e drammatica incomparabile. Come autori alternativi sono stati proposti circa ottanta candidati, fra cui Christopher Marlowe, Francis Bacon, Walter Raleigh, il Sesto Conte di Derby, il Diciassettesimo Conte di Oxford e il Quinto Conte di Rutland. Queste idee hanno ricevuto l’appoggio di personalità del calibro di Emerson, Hawthorne, Whitman, Mark Twain, Henry James, Freud, Charlie Chaplin, Orson Welles e moltissimi altri ammiratori, fra cui Mohammar Gheddafi, secondo il quale Shakespeare era uno sceicco, Shaykh Zubayr, che copiò le sue opere dalla narrativa araba. Il dibattito impazza in rete, dove gli anti-stratfordiani hanno lanciato un’offensiva per sostenere che Shakespeare non è l’autore dei drammi che gli attribuiamo, mentre la Brunel University ha creato nel 2007 un Master in “Shakespeare authorship studies”. La ricerca scientifica non ha fermato il fenomeno: anzi, più si istituzionalizza Shakespeare, più il delirio sulla sua identità autoriale aumenta. Il New Oxford Shakespeare, l’ultima edizione messa sul mercato in pompa magna dal più prestigioso editore universitario inglese in occasione del centenario shakespeariano nel 2016, consta di tre grandi volumi, uno dei quali, Shakespeare Authorship Companion, interamente dedicato alla questione.
A differenza delle opere di Shakespeare, il fatto che quelle di Byron siano comprensibili solo se sovrapposte alla vita dell’autore implica la loro non-autosufficienza estetica. In un certo senso, dal Romanticismo in poi l’arte nasce sempre zoppa, poiché una delle gambe autoriali su cui si regge il suo senso è poggiata all’esterno dell’opera. Senza informazioni sull’uomo Shakespeare i drammi di Shakespeare restano delle opere perfettamente compiute; senza informazioni sull’uomo Keats, le sue poesie perderebbero una parte cospicua del loro fascino e del loro senso. Come ha rilevato Walter Jackson Bate, è impossibile leggere qualsiasi poesia di Keats senza pensare al tragico troncamento della sua vita. Con il senno di poi, le grandi odi, con il loro impeccabile equilibrio formale, sembrano scritte sull’orlo di un precipizio. Se le immaginassimo opera di un settantenne al vertice della propria abilità tecnica, o se semplicemente non avessimo nessuna notizia sicura sul loro autore, il senso che ne ricaveremmo sarebbe diverso.
Ho citato le odi di Keats per sottolineare come la non autosufficienza estetica dell’arte postromantica non implichi un suo valore minore rispetto all’arte precedente; e tuttavia tale rischio è diventato incombente, soprattutto man mano che la novità di questo modo di concepire l’arte è andato sclerotizzandosi. Storie come quella di Keats funzionano una volta, due, dieci, ma c’è un punto oltre il quale il loro potenziale si esaurisce trasformandosi in cliché commerciale, manierismo, simulazione, epigonismo di quart’ordine. A dispetto dei drammi esistenziali, che con il passare del tempo puzzano sempre più di recita, il meccanismo si inceppa. Il punto di svolta dall’autenticità alla simulazione si ha quando gli eventi divengono veicolo di immediato successo, ovvero quando la creazione a tavolino di una figura del “genere Keats”, il genio stroncato nel fiore degli anni dalla sorte avversa, diviene il mezzo per ottenere una rapida fama presso il pubblico. Keats mappava un nuovo territorio con nuovi mezzi; i presunti geni giovani e disperati che hanno affollato la scena pubblica nell’ultimo secolo hanno sfruttato cinicamente o inconsapevolmente un cliché, ottenendo a volte quello che fu negato a Keats o a Shelley. Oppure, caso più frequente, i lettori credono che le traversie esistenziali bastino a creare una poesia di alto livello, come se non si possa morire giovani, finire in manicomio, lottare per i diritti degli oppressi e scrivere poesie mediocri. Il “caso umano” (sempre dotato anche di valore ideologico) diventa garanzia della qualità estetica che si è incapaci di cogliere nell’oggetto artistico. In moltissimi esempi recenti, convenzionalità estetica e convenzionalità esistenziale viaggiano a braccetto: opere formalmente mediocri dovrebbero trovare compimento in vissuti che vorrebbero essere di straordinaria intensità, mentre sono solo le stanche ripetizioni di modelli canonizzati. E che, in ogni caso, poco o niente hanno a che fare con il valore estetico delle pagine da loro pubblicate.
-->Il canone letterario, la fama e ogni ordine di valore non dipendono solo dai testi, ma anche da altre componenti basate sull’iconografia dello scrittore e sulle mode. Le parti che gli scrittori recitano nel teatro del mondo contemporaneo sono, come sempre, parti non scritte, messe in atto individualmente con infinite variazioni. Esistono il poeta romantico, il rivoluzionario, il martire della società, l’emarginato, l’impegnato, lo sperimentatore, la poetessa, il profeta, l’enfant terrible, il dandy, il bohémien, il professionista, il poeta senza biografia, il funzionario di stato, l’accademico, il monumento pubblico, il guitto, il provocatore e tanti altri, ma questa varietà si può ricondurre a pochi tipi base. Come osserva Svetlana Boym, il rapporto arte-vita non va concepito come rapporto causa-effetto in nessuna delle due direzioni, ma come una catena di performance che si alimentano reciprocamente. In gioco ci sono maschera, immagine pubblica e mito dell’autore, ovvero come un autore si è presentato, che immagine il pubblico se ne è fatto da vivo, e che immagine ne è scaturita dopo la morte.
La realizzazione di uno scrittore come figura pubblica dipende in parte da una serie di modelli biografici oltre che estetici. Il suo sviluppo umano e stilistico non è affatto un processo originale o spontaneo, ma segue dei pattern sedimentati nella cultura a cui appartiene. Tali percorsi sono di numero limitato e la loro attuazione appare ogni volta come la variazione su uno schema fisso di fondo. Margini di libertà più ampi di questo non sono disponibili, se non quando la società si trasforma in modo così radicale da produrre anche in questo ambito cambiamenti strutturali. Oggi un poeta o un romanziere europeo non può comportarsi come un griot nigeriano, un aedo della Grecia arcaica o uno scaldo della Norvegia medievale.
Nella società borghese moderna il tipo di vicenda biografica a cui si attribuisce valore di modello ideale sono le storie di successo, le quali portano alla fama, cioè alla ricchezza. Nel loro campo, le vite degli artisti importanti sono “esemplari” perché rappresentano nel campo estetico l’accumulo di un capitale di valore internazionale partendo dal nulla, ovvero la storia archetipica che il borghese va ripetendo a sé stesso da quando esiste. Capitale simbolico convertibile in capitale monetario: è solo una variante della vicenda base dell’arricchimento individuale, ma divenuta sempre più pervasiva negli ultimi decenni, con la smaterializzazione dell’economia e la società dello spettacolo. Ogni biografia di uno scrittore di successo è un romanzo epicorealistico che celebra l’ethos dell’arricchimento di weberiana memoria. Ulysses, come qualunque altra opera promossa a classico “universale”, non è che il vol. 2 di un epos più ampio, la biografia di James Joyce, di cui la nostra società non sembra mai sazia. La storia della letteratura, ovvero ciò che della letteratura si insegna a scuola, è una galleria di “personaggi notevoli” in egual modo per le opere prodotte e per la vicenda biografica. Non è per caso che diciamo Dante, Cervantes, Byron, Kafka per indicare le opere di questi autori, come se l’opera e la persona coincidessero.
L’idea che la vita di un autore sia costruita come un’opera, e che vada letta come tale, non è un’invenzione dei romantici, tutt’altro. L’anonimato della letteratura medievale, almeno fino al dodicesimo secolo, non è dovuto alla perdita di informazioni, ma era un obiettivo volutamente perseguito dagli autori, per i quali ciò che contava erano l’identificazione con la comunità e l’oggetto poetico, non la propria personalità. Perciò le vidas e le razos dei poeti provenzali, come ha sottolineato Maria Luisa Meneghetti, rappresentano una clamorosa novità, anche per il fatto di essere biografie romanzate, non a caso stilate in Italia nel periodo di declino della poesia occitanica, per soddisfare le esigenze di un pubblico estraneo al mondo in cui quella poesia era fiorita. L’elemento innovativo di vidas e razos è la tendenza a interpretare le opere degli autori alla luce della loro vita e viceversa, per altro in riferimento a una letteratura, quella provenzale, a bassissimo indice di referenzialità. Ma i provenzali sono solo un inizio.
Le immagini moderne dello scrittore trovano i loro veri antecedenti nel Rinascimento. Ci sono molte somiglianze fra quell’epoca e la modernità, ma le differenze sono altrettanto significative. La nuova immagine dell’artista ha la sua origine con Petrarca, che crea un’inedita figura di letterato e scrittore adattando l’immagine classica dell’“uomo illustre”. A cavallo fra due mondi, Dante inserisce sé stesso come personaggio nel suo poema, ma appartiene ancora a una società in cui lo scrittore e il letterato non godono di un prestigio e un’immagine completamente autonomi. Gli scrittori siciliani e gli stilnovisti sono notai, cancellieri, politici e anche poeti. Petrarca lavora per dare dignità pubblica alla figura del letterato e del poeta mitizzandolo, cioè trasformandone la biografia in un percorso esemplare secondo i modelli delle vite classiche dei grandi uomini (Plutarco ecc.) e delle vite cristiane dei santi. Petrarca è ammirato e temuto da molti potenti dell’epoca in quanto poeta e filologo. È un cambio di prospettiva radicale: non è più ascoltato come uomo delle professioni o ecclesiastico che scrive anche versi, ma riceve compiti istituzionali e politici in quanto poeta e letterato. Petrarca convince i contemporanei che scrivere opere letterarie non è un mero trastullo ma un compito di valore assoluto, non inferiore a quello di chi si dedica ai testi sacri. Con Petrarca appare una figura di poeta e letterato laico che gli umanisti diffonderanno in tutta Europa nei secoli seguenti. Petrarca parla continuamente di sé stesso, in poesia e in prosa, in italiano e in latino, in un ossessivo intreccio fra biografia e letteratura, realtà e finzione, che farà scuola.
Non subito e non ovunque, però. I lettori odierni restano sempre stupiti del fatto che si sappia pochissimo degli autori di uno dei momenti leggendari della letteratura moderna: il teatro rinascimentale inglese. Poco ci è noto di Shakespeare e meno ancora dei suoi colleghi, di molti dei quali non conosciamo nulla, neppure le date di nascita e morte. Il teatro era considerato un intrattenimento popolare, piacevole ma spregevole. Il termine playwright era un insulto e indicava un lavoro artigianale, tanto che nessuno dei drammaturghi dell’epoca ci teneva a qualificarsi come tale. Tutti ambivano, una volta raggiunto il successo, a definirsi gentlemen. In effetti, i drammaturghi avevano tutto l’interesse a tenere il profilo più basso possibile, sia per evitare grane con la censura, sia perché al pubblico non interessava nulla di loro come persone. Voleva divertirsi con i drammi e non gli importava niente della vita di chi li scriveva. Rispetto ai drammaturghi, sappiamo di più dei loro colleghi umanisti, da Thomas More a John Milton, che godevano di uno status più prestigioso, ma non era solo questione di genere letterario. Stephen Greenblatt ha messo in luce come le pratiche da lui definite di self-fashioning permeassero la società rinascimentale inglese, sottolineando però come il pubblico non avesse ancora sviluppato un’immagine strutturata del poeta. Dei poeti si apprezzava la capacità proteiforme di dare voce alla varietà del mondo, non di esprimere una soggettività eccentrica o originale. Dal Cinquecento il termine fashion indica la capacità di autorappresentarsi nel teatro della società, un quadro concettuale che implica una distinzione opaca fra letteratura e vita. Sarà poi il Romanticismo a rendere autobiografica l’arte e artistica la vita.
Prima di arrivare ai romantici, però, c’è un altro antecedente da esaminare: le vite degli artisti, che utilizzarono per sé le strategie sviluppate dagli umanisti a beneficio degli scrittori. Per la verità, l’idea che ci fosse un rapporto fra le opere e il carattere del loro autore apparve già nel mondo antico, venne ripresa da Filone all’inizio dell’era cristiana e poi riformulata con nuova forza da Marsilio Ficino. Vasari introdusse questa tradizione nel campo della critica d’arte, che altrove continuò a lungo a prestare poca attenzione alla vita degli artisti. Ad esempio, di molti pittori olandesi del Cinque-seicento, compresi geni assoluti come Vermeer, ci restano scarsissime notizie. Lo schema delle Vite rinascimentali degli artisti, osservano i Wittkower, era sempre lo stesso: un profilo biografico delle origini dell’artista, un’analisi delle opere, una parte conclusiva sulla personalità dell’autore. La personalità viene per ultima perché è il punto di arrivo di tutta la disamina e in un certo senso la riassume. Dall’opera si desume la personalità, la quale è l’origine dell’opera.
Il prestigio degli artisti fu a lungo inferiore a quello degli scrittori. Le biografie collettive scritte fra Quattrocento e metà Cinquecento sono al 4,5% di artisti, 49% di scrittori, 30% di politici e militari, 10% di ecclesiastici e 6,5% di medici. La prima autobiografia conosciuta di un artista è quella di Lorenzo Ghiberti (morto nel 1455). Nello stesso periodo a Firenze emerge la nuova idea di artista, che vuole diventare un dotto e un signore, svincolandosi dal ruolo di artigiano praticone e popolano. Uscendo dalle corporazioni, protettive e soffocanti al contempo, l’artista mirava ad un’individualità che poteva esistere solo attraverso la costruzione di una figura pubblica, riconoscibile in quanto distinta da quella del cittadino medio.
Il modo più semplice di distinguersi è condurre una vita eccentrica ed esibirla. L’elogio e la necessità della solitudine per l’artista è un tema classico rimesso in circolazione fra i letterati da Petrarca, di cui Michelangelo, con il suo stile di vita, diede una conferma che la rese un dato permanente nella nostra cultura. Eppure era un atteggiamento che per Dante sarebbe stato comprensibile solo se riferito a un asceta, non a un letterato. I nuovi artisti lavoravano in solitudine anche per difendere i segreti del mestiere. Nel Seicento però le cose cambiarono: Bernini o Rubens, che si comportavano da gentiluomini, ricevevano gli ospiti nei loro atelier mentre lavoravano, e questa abitudine continuò fino ai romantici, che reintrodussero l’isolamento creativo come necessità.
La stravaganza degli artisti appare nei commentatori del mondo antico e ricompare nel quattordicesimo secolo. Se Michelangelo è l’emblema dell’artista tormentato, autocentrato, isolato, soggettivo, Leonardo è quello dell’artista dai modi amabili, distaccato, proiettato verso il mondo esterno, oggettivo, che sulla sua vita e i suoi affetti ci ha lasciato pochissimi commenti. A metà Cinquecento, però, l’artista eccentrico e anticonformista cominciò a uscire di moda. Quanto a stile di vita, Vasari loda soprattutto Raffaello, fra i grandi del Rinascimento campione massimo dell’artista benvoluto da tutti, ricco e affermato. Si sapeva che alcuni artisti erano eccentrici, ma non si riteneva affatto necessario che un artista lo fosse. Anzi, l’ideale che si proponeva era quello incarnato da Raffaello, che poi divenne dominante fino al secondo Settecento, con alcune notevoli eccezioni come Caravaggio.
Il rapporto fra genio e pazzia, a cui si ricorreva per spiegare questi fenomeni, aveva una fonte platonica, che distingueva la pazzia creativa, di chi era in grado di riconoscere il divino nella bellezza, dalla pazzia come mera demenza. Nell’antichità il patrono delle arti era Mercurio. Solo nel Rinascimento fu sostituito da Saturno, secondo un’idea introdotta sulla scorta di Aristotele da Ficino, il quale pensava soprattutto agli scrittori. Nel Cinquecento la melanconia divenne una moda in tutta Europa, in modo simile al Weltschmerz dei romantici o al pacifismo dei figli dei fiori. Con il tempo questa idea è divenuta una sorta di dogma. Per Schopenhauer il genio è più vicino alla pazzia che all’intelligenza media. Gli psicologi vittoriani, Lombroso e altri, lo presero come presupposto per le loro indagini. La psicanalisi ha ripetuto la stessa cosa con il proprio linguaggio. Per Proust, Auden e mille altri moderni la nevrosi è indispensabile alla creazione originale. Per Lionel Trilling il legame fra malattia mentale e genio artistico è una delle nozioni che definiscono la nostra cultura.
Va anche detto, però, che il coro non fu unanime, né allora né oggi. Ad esempio, Charles Lamb, che ebbe una sorella schizofrenica e omicida, scrisse un saggio su The Sanity of True Genius in cui negò la necessità del legame fra pazzia e genio. La questione è dibattuta anche fra gli psicanalisti moderni, divisi fra chi ritiene che la ricerca abbia confermato le ipotesi di Lombroso e altri sul legame inevitabile fra creatività e disturbi della personalità, e chi ritiene che gli artisti non siano mediamente più nevrotici di altre categorie sociali, le quali, va detto, hanno attirato molto meno l’attenzione degli psicologi in questo genere di indagini. Per quanto discusso dal punto di vista scientifico, a noi interessa sottolineare che nell’opinione popolare il legame fra genio e pazzia resta solido ancora oggi.
Per completare l’immagine di eccentricità saturnina venne introdotta da Petrarca, derivandola dall’antichità, l’idea che l’artista mirasse alla fama più che alla ricchezza. Questa ipotesi divenne una verità acquisita dal Quattrocento in avanti, quando l’immagine dell’artista si separò da quella dell’artigiano, che per soldi lavorava. Solo nel Cinquecento gli artisti richiesero chiaramente che il costo di un’opera dipendesse dalla sua ideazione e non dal tempo necessario per realizzarla, come era avvenuto fino a quel momento. Nella stessa epoca si ripeté con sempre maggiore frequenza, da parte degli stessi artisti e dei critici, che artisti si nasce, non si diventa.
La condizione finanziaria è uno degli indicatori più significativi della posizione sociale degli artisti. È un’opinione antica che gli artisti siano prodighi e incapaci di amministrarsi. Nel Rinascimento l’attaccamento al denaro sembrava incompatibile con la nuova immagine dell’artista non più artigiano, mosso dal desiderio della fama e animato da alte aspirazioni intellettuali. Eppure sappiamo che molti grandi artisti, da Tiziano a Michelangelo, da Rubens a Bernini, furono ottimi PR, manager di sé stessi e delle proprie botteghe, e accumularono fortune enormi. Nel Settecento l’artista accademico cercava di condurre una vita agiata, da gentiluomo secondo i canoni dell’epoca. I Wittkower sottolineano che non c’è mai stato un tempo in cui la carriera artistica fosse considerata una sinecura. La miseria della maggior parte degli artisti era evidente a tutti, anche perché sono sempre stati numerosi. Anche allora chi non aveva successo dava la colpa all’incomprensione del pubblico. Il sostegno dei committenti era mutevole, e il disinteresse trovò una scusa nell’idea che gli stenti favorissero il genio. Reynolds fu l’ultimo dei pittori gentiluomini accademici. Fu un ottimo venditore di sé stesso, elegante, ricco, di belle maniere, equilibrato nel carattere, apprezzato dall’alta società, insomma l’antitesi del bohémien.
Prima di addentrarci nel mondo moderno, è interessante osservare come venivano considerati questi temi alle sue soglie. Per costruire un canone della letteratura inglese, il più grande critico del Settecento, Samuel Johnson, compose le sue Lives of the Most Eminent English Poets (1779-81), una serie di saggi il cui principio strutturante è la biografia dei singoli autori. Ma il modo di guardare alla loro vita, e di collegarla alle opere, è molto diverso da quello che di lì a poco avrebbero cominciato a fare i romantici. Johnson non idealizza mai gli scrittori che, pure, sta canonizzando. Collega vita e letteratura, ma non per offrire una narrativa teleologicamente priva di contraddizioni, costruendola a partire dalle opere; anzi, è sempre pronto a mettere in luce le difficoltà materiali e le piccolezze che gli scrittori devono affrontare per affermarsi, non per morboso spirito di gossip, ma per un senso di pratico empirismo tipico del Settecento inglese. Con il Romanticismo l’interesse per la biografia si accresce ulteriormente, ma la vita viene idealizzata, abbellita, estetizzata. Le difficoltà minute dell’esistenza escono dal racconto biografico, che viene adattato, dagli stessi autori e dai critici, alle esigenze dell’opera poetica. Si comincia a leggere la vita attraverso l’opera, che della vita è a sua volta una versione parziale e stilizzata.
Il cambiamento di prospettiva introdotto dai romantici presuppone una serie di mutamenti affini in altri settori. Mentre si consolida una società sempre più dominata dall’economia, i filosofi del tardo Settecento teorizzano l’estetica come ambito autonomo e disinteressato, ovvero sottratto alle normali regole del mercato e della società. Quello artistico è un agire gratuito: non essendo un lavoro, l’arte è un gioco, e il gioco è l’attività suprema dell’uomo perché massima espressione della sua libertà. Introdotta da Schiller e ripetuta mille volte dopo di lui, questa idea implica però che lo spazio dedicato agli artisti nella società moderna sia un’estensione di quello infantile e adolescenziale, l’unico spazio istituzionale che prevede un simile modo di agire.
In effetti, la giovinezza è uno degli aspetti caratterizzanti della concezione moderna dello scrittore. Per Baudelaire la gioventù è il quarto d’ora di poesia concesso a tutti, il che significa che la poesia è per lui una sorta di perpetua adolescenza. L’artista moderno è sempre un giovane, possibilmente incompreso o perseguitato (Chatterton, Keats, Hölderlin, Rimbaud, Plath ecc.). I poeti romantici morti giovani sono modelli archetipici dell’artista moderno: giovane biologicamente o giovane anche da vecchio se non è deceduto prima. Di Shelley, ad esempio, i commentatori sottolinearono l’aspetto «straordinariamente giovanile», per cui a ventinove anni sembrava ancora un ragazzo. Un puer æternus morto prima del tempo, il cui corpo era in singolare contrasto con la mente adulta fin da ragazzo, a detta di Edward Trelawny. Per Kafka non si è vecchi finché si vede la bellezza: e chi meglio degli artisti è in grado di vederla? Dell’artista il ritratto più rappresentativo si fa da giovane: uomo o cane secondo i gusti, quel che conta è che sia giovane. Alcuni reagirono contro questa concezione, ad esempio Ezra Pound, sostenendo che nessuna opera veramente importante fosse mai stata compiuta da giovani autori. Eppure lo stesso Pound, a dispetto dell’icona del vecchio rugoso e sofferente di tante sue fotografie, più che a un anziano saggio fa pensare a un adolescente decrepito.
Questo atteggiamento ha un precedente nel culto rinascimentale dell’artista giovane, come in alcuni celeberrimi in ritratti di Dürer, Raffaello, Parmigianino e Sofonisba Anguissola. Tuttavia, molti pittori che non morirono giovani cercarono di sovrapporre la propria immagine a quella dell’eroe o del filosofo classico: un uomo virile come un condottiero romano (alla Mantegna) o un uomo maturo e saggio, quindi vecchio, come nel celebre autoritratto di Leonardo anziano con i capelli lunghi e la barba. Autoritratto idealizzato (Leonardo non portò mai la barba né i capelli lunghi) e basato sull’immagine dei filosofi antichi come se li figuravano allora. Anche nei casi di ritratti giovanili, non era la giovinezza in sé l’elemento caratterizzante dell’immagine, quanto la perizia tecnica e la precisione dello sguardo, cioè la maturità necessaria per trasformare le qualità innate in arte. Per gli italiani del Rinascimento l’artista era in primo luogo un eroe e un uomo di scienza, e solo secondariamente un individuo giovane o divinamente ispirato, una concezione che appare per la prima volta in Dürer, il quale fuse le idee italiane con il misticismo nordico16. Tale idealizzazione eroica continuò anche nel Seicento, con gli autoritratti dei grandi pittori all’opera nel proprio studio. Com’è prevedibile, l’idealizzazione produsse un filone di autoritratti comici, eroicomici e burleschi, a volte anche da parte di uno stesso pittore, come nel caso di Michelangelo.
Eccentricità e giovanilismo si combinarono nel periodo romantico con un altro cambiamento rilevante, il sistema delle arti settecentesco alla Batteaux, che introdusse una divisione netta fra arte e artigianato, le prime frutto di creatività autonoma, le seconde assimilate al mero lavoro manuale e quindi al mercato. L’antichità aveva sottolineato soprattutto la divisione fra natura e artificio: le arti erano tali in quanto tecnica umana. Il Rinascimento riprese questa divisione, ma il confine fra le due divenne più permeabile. Con il Romanticismo si va un passo più un là. Il principio romantico dell’organicità della creazione artistica ribalta l’opposizione classica fra natura e techné. Il genio è la natura creativa che dà le regole a sé stessa dispiegandosi nelle opere, mentre il talento è artificio meccanico di livello inferiore. L’arte è organica e cresce come un essere vivente: nelle parole di Keats, «se la poesia non viene così naturale come le Foglie all’albero è meglio che non venga affatto».
Corollario di ciò, l’artista geniale non deve seguire le “regole” imposte dalla tradizione, dalla scuola o dalla bottega, ma il proprio istinto, lasciandolo sviluppare spontaneamente, un’impostazione della questione che sembra ritagliata per un adolescente da un’ottica rousseauiana. Questo è il senso della parola artista che si definisce nel tardo Settecento, distinguendosi dall’artigiano, soggetto a tutte quelle convenzioni e regole che il vero, libero artista deve rifuggire per auto realizzarsi. Ma l’artista “libero” si distingue anche, a questo punto, dall’artista accademico o dal mero professionista. È una forma di lavoro a sé, distinta dal lavoro comune, industriale o artigianale, e dal lavoro intellettuale accademico.
Con lo sviluppo dell’idea romantica dell’arte come regno autonomo e dell’artista come genio sopra le regole (dell’arte come dell’etica comune), la distanza tra artista e artigiano aumenta a dismisura. L’artista ora si caratterizza non tanto per l’abilità materiale nel suo mestiere, quanto per la sensibilità e la capacità immaginativa, cioè ideativa e mentale. Il predominio concesso all’immaginazione, come osservano i Wittkower, esaltò la parte irrazionale della creazione artistica minimizzandone quella razionale. Queste tendenze sono state radicalizzate nel Novecento, con il conforto teorico della psicanalisi, per cui Picasso diceva che l’arte è un serbatoio di sensazioni venute chissà da dove, Chagall che non capiva quello che faceva ma era solo ossessionato da certe immagini, e così via. Si tratta di abbandono, cosciente e intellettualmente studiato, all’inconscio. L’artista o l’esteta sarà una persona speciale per il suo carattere, non per le capacità che avrà acquisito di mettere in atto il suo talento naturale (dato per scontato e magari simulato per un pubblico che non è in grado di coglierlo). In fondo a questa strada c’è l’arte concettuale, in cui l’artista delega ad altri la realizzazione materiale delle opere da lui ideate.
Verso questi individui “fuori dalla norma” (sociale e economica) il pubblico ebbe fin dall’inizio dell’Ottocento un atteggiamento ambivalente: li apprezzava perché li disprezzava. Ovvero, la riprovazione morale non escludeva il successo; anzi, il successo era basato sulla riprovazione morale. Ostilità ricambiata, ovviamente. Keats afferma: «Non provo il minimo senso di umiltà verso il Pubblico» (che però scrive con l’iniziale maiuscola), mentre Shelley ammonisce: «Non accettate consigli dagli ingenui. Il tempo rovescia il giudizio della folla sciocca. La critica contemporanea non è altro che la somma della pazzia contro cui il genio deve lottare». Wordsworth distingueva fra il Pubblico, una minoranza rumorosa e faziosa, e il Popolo, che era il vero obiettivo del poeta. Con il Pubblico occorreva deferenza, ma solo allo spirito incarnato del Popolo era dovuta reverenza e rispetto devoto. Sono tre esempi iniziali dell’atteggiamento standard degli scrittori moderni verso il pubblico. Una simile prospettiva indica che le convenzioni etiche e sociali del pubblico borghese includevano un elemento di incertezza fin dalle origini. Dove vi è un’adesione completa ai principi sociali dominanti, la loro messa in discussione è vietata. Basti pensare all’Urss, alla Germania nazista, all’Arabia Saudita contemporanea e a mille altre autocrazie nelle loro fasi di stabilità. Gli oppositori del regime vengono ridotti al silenzio, incarcerati o uccisi. Il compiacimento nella critica dei valori fondanti di una società presuppone che quei valori vengano avvertiti, magari in modo inconsapevole, come imperfetti. Questo è un effetto inevitabile del mondo occidentale moderno, basato com’è sull’individualismo cartesiano e hobbesiano, sull’egualitarismo messo in campo dalla rivoluzione francese e sul fondamento critico del pensiero moderno. I fenomeni studiati in questo saggio, infatti, riguardano la modernità nei paesi democratici. Nei regimi totalitari le immagini e le funzioni pubbliche degli scrittori coincidono solo in parte con queste, mentre conservano diversi aspetti tipici degli scrittori del mondo pre-ottocentesco.
Uno degli effetti da non sottovalutare dell’esclusione dell’artista dal normale mondo produttivo, e del suo confinamento nel regno a parte dell’estetica, è che tale collocazione disinnesca il potenziale eversivo di persone che, in quanto ricche di immaginazione, sono pur sempre imprevedibili e poco controllabili. Le si sostituisce con altri individui che svolgono funzioni simili ma a livello più basso, come gli operatori dei mass media e i “creativi” in vari settori delle arti applicate, che sono più asservibili. Agli artisti viene riservato uno spazio ben delimitato, quello della libertà creativa, che in realtà è il recinto dell’esclusione da una chiara funzione sociale. Il ghetto della libertà creativa è la geniale invenzione di una grande immaginazione politica. Se qualche artista inventa qualcosa che le torna utile, la società può prelevare a posteriori quello che le serve. Il resto rimane confinato nella riserva indiana dell’estetico, inoffensivo purché non si diffonda tra il grosso pubblico.
Nella società moderna, dunque, l’artista ha la posizione dell’emarginato istituzionale. Viene considerato un dilettante, un fallito, un pazzo, un handicappato, tranne nei casi in cui ha successo: allora diventa un idolo. Il fare artistico è gioco gratuito dotato di un valore e un senso estranei al mercato, e le opere che ne scaturiscono sarebbero pure sottratte alle normali regole di valore attribuite al lavoro materiale. Tuttavia, se esse hanno riscontro sociale, allora acquisiscono un supervalore materiale. Con il successo, da forme gratuite di espressione acquistano un valore esorbitante, cioè rientrano trionfalmente nel mondo dell’economia normale, da cui per definizione sarebbero state escluse. Investimenti con resa postuma, da cui trarranno vantaggio, materiale e simbolico, sia la società sia gli eredi dell’autore.
Studiosi come Raymond Williams e Pierre Bourdieu hanno sostenuto che i romantici, non volendo adeguarsi alla società borghese che li trasformava in produttori di merci, hanno creato l’idea di un personaggio, l’artista, che stava al di fuori delle classi sociali: gli artisti erano una classe speciale a sé, libera dalle regole economiche. In realtà la posizione socio-economica di scrittori e artisti fu fin dall’inizio ben più ambigua di quanto questa schematica descrizione suggerisca. Infatti, vi furono diversi scrittori che nel mercato prosperarono, in particolare Scott e Byron. A differenza dei suoi colleghi, Byron non spese energie a giustificare il ruolo sociale del poeta e della poesia, perché fu subito popolare e vendibile. Il personaggio che creò, l’aristocratico eroe byroniano, ebbe di gran lunga più successo di tutte le figure di artista e uomo create dai suoi contemporanei. È molto interessante che al pubblico borghese piacque la differenza di classe del nobile, tenebroso e scandaloso Lord rispetto all’artista come figura idealizzata di intellettuale prodotta dagli altri romantici, mentre al popolo piacque il libertino contestatore del sistema. Più grande il divario, maggiore il successo: come membro della classe più dinamica della storia, il borghese è un travestito che vorrebbe sempre essere qualcun altro più in alto di sé nella scala sociale. Perciò è istintivamente attirato dall’eroe byroniano, figura improbabile e per lui irraggiungibile, piuttosto che da borghesotti tormentati come Coleridge e Wordsworth o da proletari visionari come Blake. Più accessibile della poesia di questi autori, quella di Byron raggiunse lettori di ogni strato sociale e culturale. I commentatori notarono subito la scarsa varietà dei personaggi di Byron, che erano tutte varianti di un solo individuo. Poco profondi psicologicamente, spiccarono soprattutto nella rappresentazione della sazietà, un sentimento sconosciuto ai più in un’epoca in cui il livello di vita era basso, ma in cui ai borghesi piacque proiettarsi, immaginando la propria condizione psicologica in un futuro di benessere in cui anche loro avrebbero goduto di una qualità di vita paragonabile a quella dei nobili.
Un caso come quello di Byron, anticipazione dei divi cinematografici e delle rockstar novecentesche, mostra i pregi e i limiti dell’utopismo consolatorio di cui sono capaci le arti una volta collocate in un dominio autonomo, i cui contorni vanno però precisati. La separazione delle arti dalla società, se esiste, è parziale e spesso si tratta solo di un auspicio. In genere si intende l’autonomia dell’arte come una forma di distacco totale dalle dinamiche della società di cui fa parte, il che è impossibile. Se, a parere di Peter Bürger, l’Estetismo rappresentò il culmine di questa tendenza autoriflessiva dell’arte e della sua separazione dalla vita materiale, le successive avanguardie cercarono di demolire i tre pilastri dell’arte autonoma: la separazione fra vita d’artista e vita comune, la sua creazione individuale, la sua fruizione individuale. Questo progetto, come sappiamo, è fallito, e l’unica forma di reintegrazione fra arte e vita ha avuto luogo nell’arte di consumo, che però ha rinunciato al ruolo di strumento di emancipazione. Un’arte perfettamente integrata nella vita comune perde la distanza che la mette in grado di essere critica rispetto al suo ambiente. Nelle epoche storiche in cui ciò avviene l’arte non ha una funzione critica ma celebrativa dei valori dominanti, come ad esempio nel medioevo.
Va sottolineato, quindi, come anche gli avanguardisti abbiano preservato un punto chiave dell’idea dell’autonomia dell’arte: il suo carattere disinteressato, che le permetterebbe di conservare quei valori di umanità, solidarietà e felicità smarriti nella competizione economica. Quanto fragile sia questa convinzione è quasi inutile dirlo. Chiunque abbia frequentato un ambiente artistico (letterario, musicale, cinematografico ecc.) sa che la competizione fra i suoi attori è feroce, così come spietato è il perseguimento della fama (con relativo arricchimento). Fra i miei colleghi poeti raramente ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a persone disinteressate, sia dal punto di vista emotivo, sia da quello economico. Come ha messo in luce Valéry, il motore della creatività è psicologico, e sta spesso nell’orgoglio che spinge l’artista all’autoaffermazione. Le avanguardie, con Duchamp, hanno cercato di smontare il mito dell’individuo creatore, ma il gesto demistificante si può compiere una volta sola, senza contare che il gesto stesso è una forma di autoaffermazione autoriale. Ripeterlo vuol dire, comunque, rientrare in quel mito della creatività individuale che il gesto vorrebbe demolire. Un’identica aporia si ripropone per la ricezione.
Ma c’è un’ambiguità più profonda che gli studiosi dell’avanguardia come Bürger, concedendole troppa buona fede, non prendono in considerazione. La letteratura degli ultimi duecento anni si può analizzare senza forzature alla luce dei concetti di competizione e concorrenza nel senso economico dei termini. Poiché l’arte moderna pone il suo valore principe nell’originalità, lo sforzo degli autori è inventare uno stile riconoscibilmente nuovo come espressione di un’individualità, contrapponendosi a quanto è venuto prima. Arrivare per primi a uno stile, metterci la propria firma che poi diventa brand, non è diverso dalle dinamiche della moda, motore dell’economia di mercato e radice ultima dell’estetica moderna, come ha mostrato Colin Campbell in The Romantic Ethic and the Spirit of Modern Consumerism. Lo storicismo hegeliano, con la sua concezione dell’arte come successione di concetti stilistici nel tempo, ne è solo la dubbia nobilitazione filosofica.
Nobilitazione che è andata a formare l’orizzonte critico e accademico degli ultimi due secoli. Nella storiografia artistica e letteraria ottocentesca la fusione arte-vita portò al trionfo della monografia. Partendo dalle Vite del Vasari e dalle vite degli scrittori di umanistica memoria, si diffuse il saggio biografico Vita e opere di…, studi dedicati a singoli autori in cui la vita e l’opera si spiegano a vicenda come rivelazione di una personalità, di un ego, di un genio. Mentre raccolte di “Vite di uomini illustri” furono relativamente frequenti nella storiografia artistica fra Rinascimento e Settecento, le monografie dedicate a un singolo pittore furono più rare e divennero comuni solo nell’Ottocento. In campo letterario la situazione è un po’ diversa, visto che si trovano biografie dedicata ai grandi autori già prima del Settecento (basti pensare alle vite di Dante o Petrarca). Tuttavia, anche in letteratura esse si moltiplicarono dall’Ottocento in poi.
Non è solo il numero, ma soprattutto il carattere di fondo dei nuovi studi critico-biografici a essere diverso dal passato. Mentre Vasari era soprattutto concentrato sulla rappresentazione e le qualità tecniche e formali, le Vite dal Romanticismo in poi si focalizzano sull’incarnazione esistenziale ed espressiva di una vita nell’opera. Il legame vita-opere è rilevante anche in Vasari, ma il suo scavo psicologico è limitato. I biografi e gli studiosi moderni si sono concentrati sempre più sulla soggettività dell’autore e su come essa soggiaccia alle opere che la manifestavano. Nel caso delle belle arti, l’opera non è più solo rappresentazione, ma disvelamento di una soggettività specifica, espressione di un talento originale. Poiesis vuol dire autodefinizione e autorivelazione, ma vale anche il contrario: il disvelamento di sé è possibile solo tramite la poiesis, la creatività artistica, in qualunque medium. È questo il principio che consente di raggruppare le “belle arti” e di distinguerle da ogni altro lavoro umano, collocandole al di sopra come mezzi per realizzare in modo ottimale l’umanità di ogni individuo, intesa come dispiegamento delle proprie potenzialità.
Innovazione ottocentesca, le monografie sono diventate la forma per antonomasia degli studi letterari e artistici nel corso del Novecento, grazie anche a un mercato sempre più disponibile ad accoglierle. In più, dai grandi maestri questo genere di ricerche sono dilagate alle figure minori, con l’obiettivo di riscoprire “geni” dimenticati fornendone vita e opere. La mitizzazione degli autori è sempre più indispensabile alla loro commercializzazione, prova ne sia la scarsa vendibilità delle opere pittoriche anonime.
Non si creda che il Modernismo abbia introdotto una frattura con queste idee, al contrario. Pur assumendo atteggiamenti da artigiano nel periodo cubista, Picasso ha sostenuto che «la vita di un’opera è come quella di una creatura vivente», e che «non conta quello che un artista fa, ma quello che è». Il «sovversivo» Duchamp credeva che l’arte «fosse l’unica forma di attività in cui l’uomo si mostra come vero individuo», e che la storia dell’arte, crocianamente, fosse la storia dei singoli artisti. Questo non vale solo per i pittori. Un oggettivista come T.S. Eliot ha scritto: «Sembra possibile che a un uomo giovanissimo / magari si materializzi una poesia: ma una poesia non è la poesia: / questa è una vita», e «la concezione astratta / dell’esperienza privata alla sua massima intensità / quando diventa universale che noi chiamiamo ‘poesia’ / si può forse affermare in versi». La stessa idea venne ribadita con parole diverse da Thomas Mann, il quale, discutendo di Goethe, affermò che un poeta è una persona «la cui vita è simbolica» (Keats aveva detto esattamente lo stesso in riferimento a Shakespeare). La vita di un poeta, scrisse W.B. Yeats, è un «esperimento di vita», come la sua opera è un esperimento nella scrittura. Per Joyce ognuno, qualunque cosa scriva, non fa che scrivere la propria vita. Detto per inciso, come al solito Joyce sta citando: l’idea che ogni pittore non fa che dipingere sé stesso si diffuse nel Quattrocento ed era associata soprattutto alla figura di Leonardo da Vinci.
Poiché l’individualismo moderno ha come elemento fondativo la ricerca dell’autenticità esistenziale, vivere autenticamente significa diventare chi si è, realizzare sé stessi tramite un processo che non può compiersi mai del tutto, ma solo venire interrotto dalla morte. Una vita è autentica quando in essa si realizza questo processo di autorivelazione, a sé stessi e agli altri. E siccome il linguaggio e l’arte vengono ora intesi come mezzi privilegiati per questo processo, l’artista diventa l’essere umano per eccellenza, una persona che passa tutta la vita in un’attività il cui fine primario è l’epifania di sé. Il genere letterario in cui ciò si realizza in modo più chiaro è la poesia lirica, considerata il vertice dell’estetica romantica in quanto espressione intima dell’io. È particolarmente interessante che questa idea venga condivisa anche da scrittori come Leopardi, che per molti versi furono anti-romantici. Se non nel rapporto con il pubblico, nel rapporto con il testo nessuno negò che tutto ruotasse attorno all’autore come soggetto, il che metteva in moto automaticamente il problema del rapporto fra vita e finzione, faccia e maschera, identità privata e pubblica. Con il Romanticismo anche l’epica, il genere poetico più oggettivo, sarà sempre soggettiva e avrà al suo centro l’artista o lo scrittore, in modo esplicito o mediato, dal Prelude di Wordsworth a Leaves of Grass di Whitman, da Ulysses di Joyce ai Cantos di Pound alla Recherche di Proust.
Ma i romantici non si accontentarono di cercare un’alternativa all’economia e alla politica, anche perché si resero conto che la sovrapposizione tra vita e scrittura richiede un’autenticazione di tipo sacrale. Perciò, in un’epoca di crisi della religione istituzionale proposero l’arte e la letteratura come suoi sostituti; specularmente, la religione venne vista come opera d’arte, in una simultanea estetizzazione del religioso e sacralizzazione dell’estetico. Novalis scrive in Polline (1798) che poeta e sacerdote erano originariamente la stessa cosa e solo in seguito si sono separati. Tuttavia, il vero poeta è sempre rimasto sacerdote, e le due figure torneranno a unificarsi. Per Schiller il bello è l’infinito incarnato nel finito, la manifestazione dell’assoluto nel relativo. La ricerca del bello, che esige un’educazione estetica, sostituisce quella del sacro religioso. Blake aveva visioni profetiche trasferite in poemi che volevano essere una nuova Bibbia. Wordsworth e Coleridge si sono descritti ripetutamente come poeti-profeti, e il termine profeta non era utilizzato da loro come una boutade o una metafora. Una generazione dopo, Carlyle riassunse la questione, dicendo che in un’epoca di crisi della religione ogni artista scrive il suo Vangelo.
Il percorso dall’eccentricità al genio, dal genio all’incomprensione, dall’incomprensione al martirio, dal martirio alla santità è delineato nitidamente nei saggi di Baudelaire su Poe. Baudelaire si concentra sempre più sulla biografia e la figura di Poe, relegando progressivamente a margine le opere. Il santo-dandy d’oltreoceano è insieme modello e maschera di un Baudelaire sempre più infuriato con la società e il genere umano. L’odio degli americani per Poe era simile a quello degli inglesi per Byron. Poe era un aristocratico per natura, un «Byron smarrito in un mondo malvagio». Poe viene esplicitamente descritto come un Cristo moderno che ha sofferto per la salvezza dei suoi persecutori. Nel secondo saggio Baudelaire afferma che deve «aggiungere un nuovo santo al martiriologio», uno sventurato pieno di poesia venuto nel mondo a fare «il rude apprendistato del genio tra le anime inferiori».
Dall’epoca di Baudelaire in poi queste idee diventano moneta corrente. Santità, martirio, eremitismo riappaiono ovunque, in dosi e forme variabili, nella teoria e nella pratica letteraria. Schopenhauer estremizza la separazione fra artista e uomo comune. L’artista deve soffrire se vuole produrre capolavori. Non può avere una vita sociale normale perché è un essere eccezionale, il cui destino è la solitudine. Il genio è una specie di eremita e la funzione delle donne è quella di occuparsi per lui delle faccende pratiche. Idee esaurite nell’Ottocento? Basti pensare a Rilke, Pessoa e Salinger per rendersi conto di quanto attive siano rimaste. Se la sovrapposizione fra religione e arte non può essere derubricata a esagerazione retorica, occorre metterne a fuoco le conseguenze dall’ottica che ci interessa, quella dell’immagine degli scrittori, per capire quali funzioni svolte in passato da santi, martiri e eremiti siano state in parte trasferite su di loro con gli opportuni adattamenti.
Secondo una formula classica, ogni società produce i santi che le servono – martiri, anacoreti, vescovi fondatori, re sofferenti, missionari, contemplativi, patroni, guide del popolo o intercessori, testimoni o contestatori del potere ecclesiastico, crociati o mistici. La società crea in queste figure delle immagini ideali di sé stessa, un ideale che poi si riverbera sulla società che lo ha prodotto. Nella definizione di S. Bonnet, il santo è un uomo in cui in cui Dio abita, ma è anche una risposta ai bisogni spirituali di una generazione, e costituisce l’illustrazione delle idee che i cristiani si sono fatti della santità26. Tre sono le funzioni principali dei santi: soteriologica, magica, sociale. La prima di esse è solo metaforicamente accessibile agli scrittori moderni, che possono però benissimo svolgere le altre due.
L’eremita non vive fuori ma al margine del mondo civilizzato, che per questo lo ritiene un sant’uomo. Anche in Occidente la Chiesa lascia questo spazio per gli spiriti anarcoidi, traendone beneficio e controllandone gli eccessi. Gli eremiti medievali sono di due tipi: individuali (S. Giovanni Battista, S. Antonio) o organizzati in gruppo. Gli ordini eremitici, ad esempio certosini e cistercensi, godono di un prestigio superiore agli ordini più coinvolti nelle cose del mondo, come i benedettini. Ma il modello vero resta l’eremita isolato, che in Occidente ha più influsso di quelli organizzati. Gli eremiti isolati erano più anarchici e più assimilati dal popolo agli stregoni. L’eremita rifugiato nel bosco (l’equivalente occidentale del deserto) è il modello, il confidente e il maestro per eccellenza. Dal Duecento, sotto l’influenza degli ordini Mendicanti, si diffuse l’idea che la grandezza dei santi non stava nei miracoli ma nella loro vita. Questo ideale di isolamento al margine della civiltà sopravvive nei secoli, evidentemente perché svolge una funzione sociale rilevante. Ed è significativo che all’eremita dei nostri giorni, lo scrittore moderno per definizione in conflitto con la propria società e quindi isolato (almeno prima di raggiungere il successo), si attribuiscano la stessa purezza morale e la stessa ammirazione riservata agli eremiti medievali.
Un altro ruolo portante ricoperto dagli scrittori è quello del martire, la forma dominante di santità nei primi secoli. Il martire ripete la passione di Cristo ed è poi a sua volta imitabile come esempio. La Chiesa organizzò un calendario dei martiri-santi, ne indicò i luoghi di sepoltura o del martirio sollecitando i pellegrinaggi. La funzione psicologica e sociale del martire nel medioevo riappare nell’artista perseguitato odierno: un individuo che si sacrifica per un’idea, mostrandone in tal modo la verità a chi già la condivide. Così gli artisti perseguitati dell’ex blocco sovietico o del Terzo Mondo diventano icone nei paesi avanzati, facendo leva sul senso di colpa degli occidentali, che viene fatto sfogare nella misura in cui il pubblico occidentale prende le loro difese e li fa assurgere a simboli, autorità da ascoltare, modelli di combattenti per la libertà (di stampo occidentale) da imitare.
Come si è detto, nel medioevo l’autenticazione delle opere tramite la vita era richiesta solo ai santi. Gli artisti, invece, erano poco visibili e le opere valevano o significavano indipendentemente da come loro vivevano. Ciò perché erano riferite a un sistema etico oggettivo diffuso in tutta la società, ovvero la religione. Con il declino della religione come sistema di valori condivisi, occorre autenticare la propria autorità morale individualmente, con la vita. Il processo base dell’affermazione del valore dell’artista moderno, giovane e tendenzialmente sempre postumo, riproduce quello della vita retta nelle religioni: «rinuncia a qualcosa di importante che questa vita ti offre e ne sarai ripagato nella prossima». Vivi da artista, negletto e incompreso, e postumo diventerai un classico. Salvo che nella religione era l’individuo a essere ripagato direttamente, mentre l’unica ricompensa che un mondo laico può fornire è la fama. I cui benefici materiali andranno nell’immediato agli eredi, mentre in forma simbolica e permanente spettano alla società a cui quello scrittore apparteneva. Come nei culti religiosi, memoria simbolica e memoria materiale si alimentano a vicenda: i calchi delle parti del corpo, i manoscritti, gli oggetti personali, le dimore sono le reliquie del culto dell’artista a cui sono preposti università, accademie, musei, mostre, convegni, archivi, database e quant’altro.
Per ogni atto biografico e artistico dei grandi autori si trovano a posteriori delle coerenti motivazioni, sempre di grandiosa portata morale, che le spiegano costruendo un disegno intelligente preordinato. Per dirla con Joyce, “a un uomo geniale niente accade per caso”. Ne sono convinti in genere anche i critici, che si comportano come creazionisti inconsapevoli e spiegano teleologicamente ogni dettaglio della vita e dell’opera di un autore, specie se di grande talento. In questo modo l’ombra, magari patologica, che la biografia proietta sull’opera viene rimossa. Depurata dei legami profondi con la personalità e gli interessi materiali, non sempre esaltanti, del suo autore, organizzata secondo una rete di legami logici come fosse un’opera d’arte, la biografia può così continuare a svolgere il suo ruolo portante. Per rendersene conto, basta ascoltare un’intervista, leggere una recensione, ma anche partecipare a un seminario o un convegno universitario. Nei discorsi critici le opere vengono in genere spiegate tramite continui riferimenti alla vita, degli autori e del loro tempo. L’interesse estetico viene spesso relegato in secondo o terzo piano, come fosse scontato, quando non se ne dichiara apertamente la marginalità nel caso di autori minori studiati per interesse storico, culturale o sociologico. Agli uditori che cosa si offre, dunque? Biografie romanzate di persone di cui si discutono, più che le opere, il comportamento e l’etica, casi di vite in qualche misura esemplari, cioè degne di essere ricordate nei dettagli. Eppure il poema di Lucrezio non ha bisogno di tutto ciò per dire qualcosa.
Certo, questa filosofia dell’individualismo ha avuto anche molti nemici, lo hegelismo in primis: deprezzare il singolo, ritenendolo rilevante solo come ingranaggio della collettività, ha portato alle mostruose società che sappiamo. Ma nelle società di massa chi riesce più a credere che la vita di ognuno significhi davvero qualcosa? L’impressione è che si insista su questo credo proprio perché appare sempre meno plausibile. Senza contare che ci sono culture aliene a queste idee: in Cina, in India e in molti altri paesi la concezione dell’individuo e il suo significato sociale sono molto diversi da quelli occidentali.
Eppure il bisogno di queste immagini idealizzate è tanto forte che esse si sono diffuse dalle arti tradizionali alle tecnologie massmediali, con gli aggiustamenti richiesti sia dal mutare dei tempi, sia dalle specificità di ciascuna arte. I divi del cinema sono stati i primi a trapiantare alcune tipologie dell’artista moderno in un settore in cui l’immagine dell’artista è tutto. Dal cinema il divismo si è poi ramificato nella musica pop, nello sport, nella televisione, nei media digitali. Cambia il linguaggio, restano simili i modelli biografici che incantano il pubblico, il quale, con le parole di Flaiano, «segue la vita dei suoi eroi o simboli quotidianamente, scaricandosi di ogni responsabilità o soltanto della fatica di fare le cose che loro fanno e che egli vorrebbe fare ma non osa». Ai modelli del cinema e delle altre arti il pubblico chiede una vita di scorta, una forma di evasione «che non può essere eroica se non nella misura in cui la moda lo permette: cioè di ribellione alle convenzioni».
Tra evasione allucinatoria e ripetizione di cliché la contemporaneità cerca confusamente qualche strada meno battuta nelle nuove tecnologie. “The Book of Life Today” è una pagina web dove chiunque può registrare la propria autobiografia o la biografia di qualcun altro, non solo in parole ma anche con fotografie e filmati. Siti di questo tipo rappresentano l’estremo opposto dell’epica omerica, punto di partenza ideale della nostra storia. L’epica omerica era incentrata sulla vita dell’eroe, ovvero un uomo speciale che forniva un modello per la sua comunità. Solo una vita esemplare meritava di essere perpetuata nella memoria, come ideale a cui conformarsi. Siti come “The Book of Life Today” sono invece l’esito ultimo dell’individualismo moderno e dell’idea di personaggio emersa nel romanzo settecentesco: non ci sono vite migliori delle altre, la vita di ogni persona, se opportunamente raccontata, è interessante in quanto unica. Tutti e nessuno sono personaggi. È un’idea cristiana, come ci ricordano le parole di John Henry Newman: «Ogni individuo ha molto da dire sulla Provvidenza divina per ciò che lo riguarda. […] L’ultimo giorno ognuno sentirà la sua storia individuale come unica e speciale». Fino a qualche tempo fa, almeno nei paesi cattolici, si metteva una fotografia sulla tomba dei defunti. Oggi, nell’epoca del trionfo dell’autoritratto e dei selfie, si può lasciare un ricordo in parole oltre che in immagini in quegli immensi archivi cimiteriali che sono i social networks. Che cosa comporti a lungo termine questa massa sterminata di ricordi biografici non lo so, così come è difficile definire il loro reale interesse, storico più che estetico. L’unica cosa certa oggi è che sempre più vita viene venduta come arte, nella convinzione che non vi è arte se non mettendo la propria esistenza in vetrina.
Analisi ampia e convincente.
INFATTI, SONO DACCORDO,
OGGI, PURTROPPO SI VA AVANTI PER RACCOMANDAZIONE, O PER DENARO.
PAGHI, E VAI AVANTI.
OPPURE SE FIGLIO DI..
E VAI AVANTI.
UN VERO SCHIFO, MI VIENE DA VOMITARE.
CI SONO TANTI GIOVANI,
CHE SCRIVONO VERAMENTE BENE E HANNO TANTO DA RACCONTARE.
INVECE VEDO CERTE SCHIFEZZE INCREDIBILI,
E DICONO, TAL DEI TALI È FAMOSO ECC.
CONTESTO APERTAMENTE QUESTI SPORCHI GIOCHI.
BASTA, NON SE NE PUÒ PIÙ. CASE EDITRICI, VENDUTE.
OPPURE CHIEDONO SOLO DENARO, DENARO, TI CHIAMANO E TI DICONO, BELLO E INTERESSANTE QUELLO CHE HAI SCRITTO, PENSANDO, SOLO A CHIEDERTI DENARO.
USCIRÀ UN LIBRO, “IL CONTORNO DELLA NOTTE” CHE VUOLE DENUNCIARE LA CONDOTTA DELLE CASE EDITRICI…..
UN VERO CAPOLAVORO.
RIUSCIREMO A PUBBLICARLO?
IO DICO DI SI!