Sesso e sostenibilità

Quanto inquina la nostra libido? A partire da questa domanda sorprendente, l’autore approfondisce l’influenza reciproca fra desiderio umano e crisi ecologica.


IN COPERTINA e lungo il testo, Valerio Adami, Azzurra (1984) – Acrilico su tela – Asta Pananti in corso

Questo testo è tratto da Ecologia Erotica di Dominic Pettman. Ringraziamo Tlon editrice per la gentile concessione.


di Dominic Pettman

Soltanto la Natura è divina ed essa non è divina…

Fernando Pessoa

Questo libro prosegue la mia ininterrotta esplorazione di alcune connessioni e tensioni culturali, storiche ed estetiche tra éros, téchne e phýsis, e in particolar modo di come esse si collegano alla nostra percezione di “essere appartenente a una determinata specie” e di specie in divenire. Non c’è dubbio che passando al setaccio quasi ogni testo, sito o manufatto si possano trovare connessioni implicite o esplicite tra consapevolezza ecologica e affetti erotici. Eppure è sorprendente constatare come nell’età moderna questa dinamica, o questa congiunzione, siano tanto cruciali quanto poco riconosciute. L’ecologia libidinale è il quadro di riferimento di ogni problema che dobbiamo affrontare e di qualsiasi potenziale soluzione. Perciò è inderogabile prestare maggiore attenzione a entrambi i concetti che questo sintagma delinea.

Dopo il 1945, per la prima volta ci troviamo di fronte alla minaccia reale e concreta di un’estinzione di specie su larga scala. E da qui sorgono alcune domande: come possiamo “far fruttare i raccolti alla luce del sole”, quando gli unici frutti a nostra disposizione sono brevettati dalla Monsanto e il sole è così forte da far avvizzire qualsiasi pianta prima che possa crescere? Come possiamo spassarcela a seminare qua e là, se i semi sono stati geneticamente modificati?

Anche se ormai i segreti della Natura ci vengono svelati sempre più nel dettaglio portando a una “demistificazione” del suo ruolo di enigmatica autorità allegorica abbiamo ancora la tendenza a fare di un ordine naturale coerente la nostra guida morale. Conservatori e omofobi, per esempio, ritengono i matrimoni gay “contro natura”, e trovano così un’apparente spiegazione agli uragani e agli altri disastri “naturali” che ci flagellano (un senso di giustizia cristiana che ha forse la sua origine in un’interpretazione retroattiva dell’eruzione del Vesuvio come punizione degli abitanti di Pompei per la loro dissolutezza e depravazione). La natura è sempre stato un simbolo o un significante estremamente duttile. E oggi, dopo che diverse interpretazioni del nostro ambiente si sono moltiplicate nel corso delle epoche successive, non è da meno.

In effetti, “l’oggetto discorsivo precedentemente conosciuto come Natura” è stato utilizzato in così tanti modi, e all’interno di così tanti programmi ideologici, che ogni epoca ha aggiunto il proprio tocco alla storia senza però eliminare del tutto il carico e il peso culturale di quelle precedenti. Ecco quello che potremmo cogliere con una panoramica vertiginosa sulla storia del pensiero:

Mutamenti epistemici del concetto di “natura”

Presocratici natura a-storica

(miti e leggende)

Epoca classica natura analogica

(Ovidio, Aristotele)

Epoca cristiana natura anagogica/angelologica

(Scolastica)

Epoca medioevale natura alchemica

(Bacone, Alberto Magno)

Prima età moderna natura allegorica/pedagogica

(Leonardo, Shakespeare)

Età moderna natura assoggettabile/adattabile

(Frankenstein, Robinson Crusoe)

(ecologica in senso proprio)

Età postmoderna natura assemblabile/algoritmica

(Baudrillard, Zuckerberg)

Prima dell’invenzione della scrittura, la natura è solo ciò che ci tiene al caldo, ci ferisce, ci nutre, ci copre e alla fine ci riaccoglie nella terra. La cultura è una breve deviazione, attraverso e con la natura, non un tentativo di aggirarla o contrastarla. Nelle culture orali, miti e leggende sottolineano come umani, animali ed elementi naturali coesistono; e come ognuno di questi svolge il proprio ruolo nella grande storia cosmica. Al tempo dei greci, l’Uomo si innalzò a straordinario testimone dell’ordine naturale autoproclamandosi sua guida e suo signore. Questi nostri antenati dell’epoca classica conservarono però un riconoscimento del carattere volubile del fato, e mantennero un pantheon di dèi e dee che trattavano i mortali come fossero loro giocattoli. Il cristianesimo affinò l’idea dell’eccezionalità umana inserendola in una struttura teologica in cui la Natura aveva un duplice ruolo: tentatrice ed elargitrice di doni, puttana e Madonna. Il mondo non era più popolato di atomi come ritenevano gli antichi (e come sarebbero ritornati a credere i moderni) , ma traboccava di entità angeliche. La Natura, in quanto opera di Dio, era divina. Ma era anche il palcoscenico in cui mettere continuamente alla prova la propria fede. Appena prima della Rivoluzione scientifica, gli alchimisti iniziarono a trattare la Natura come una risorsa trasformabile. Pur operando con strumenti magici, furono in un certo senso i precursori dei chimici e dei tecnocrati. In pieno Rinascimento la Natura divenne una promessa arcadica, e un green screen su cui proiettare un insieme di fantasticherie che avevano di nuovo al centro l’eccezionalità umana, incarnata soprattutto dalla supremazia bianca. In epoca vittoriana, la Natura si dimostrò sempre più compiacente di fronte alle nostre ambizioni: era disposta a venir imbrigliata, arginata, incanalata, depredata, modificata e potenziata. In questo momento appare il termine ecologia, e insieme a esso si sviluppa una nuova sensibilità, consapevolezza e visione che investe un’antichissima relazione. A metà del Novecento, la Natura viene eclissata dall’infrastruttura sociotecnologica e dai tentativi di simulare quelle condizioni naturali che stiamo rapidamente distruggendo. E viene appaltata alle macchine, come nel caso dei “bambini in provetta” e della pecora Dolly. Infine, l’ecologia viene ora immaginata e configurata attraverso dati e codici che creano modelli che non si limitano a rappresentare la realtà, ma ambiscono a ricrearla.

Oggi, mentre cerchiamo di farci strada verso una comprensione più profonda del nostro contesto terrestre, tutta questa stratificazione concettuale produce ancora i suoi effetti.

Secondo le stime del think-tank australiano Breakthrough (National Center for Climate Restoration), solo trent’anni ci separano dall’effettivo crollo dell’agricoltura, del sistema commerciale mondiale e della civiltà stessa. Un orizzonte temporale così ristretto per la prosecuzione della cultura umana e il martellamento quotidiano di profezie così apocalittiche, provocano un paesaggio affettivo soverchiante segnato dal panico e dal fatalismo. Chi ha il potere di attenuare i problemi di fondo del capitalismo tanatico sembra interessato solo a spingere più forte sull’acceleratore, puntando con decisione verso il dirupo. Il problema del nostro scopo metafisico che per millenni ha perseguitato i nostri antenati è stato improvvisamente soppiantato dall’urgenza della sopravvivenza materiale delle specie. La tormentata ricerca di un significato della vita appare oggi un lusso, al punto che nel 2020 la decisione di avere figli non è solo complicata dal fenomeno della sovrappopolazione globale ma, se si pensa alla probabile esperienza traumatica del neonato, rappresenta anche un dilemma etico, sempre stando a ciò che dicono questi report.

L’idea di “accelerazionismo” che, con il suo fascino oscuro, contiene l’estremizzazione dei problemi e delle contraddizioni del capitalismo e rappresenta per noi la speranza di impadronirci del sistema e, in ultima battuta, di far ripartire la civiltà “dall’altro lato”, appare oggi irrimediabilmente ingenua e, soprattutto, assomiglia a un cavallo di Troia per i programmi scellerati di soggetti come i fratelli Koch. Alla luce dell’impressionante fallimento di questa posizione, faremmo bene a investire tempo, idee e risorse in un programma di radicale decelerazione (e in questo caso Fourier potrebbe tornarci utile). Non si tratta però di sostenere e propugnare una prospettiva antiscientifica. I nostri problemi sono così complessi che non possiamo ritirarci in orizzonti epistemologici precedenti (sempre che una cosa del genere sia possibile) o, per esempio, tornare ad antichi modi di produzione energetica. Per fortuna, se usiamo con creatività i panelli solari e le turbine eoliche, disponiamo di una tecnologia per alimentare una società su vasta scala purché si possa perdere l’abitudine dei viaggi internazionali. Purtroppo le proposte che vengono avanzate oggi all’insegna dell’“ecomodernismo” sembrano contenere gli stessi errori, o le stesse ipocrite affermazioni, che segnavano l’impostazione degli accelerazionisti. Posizioni simili si abbandonano alla pretesa di volere tutto senza rinunciare a nulla, basti pensare per esempio alle modalità di fissione nucleare più all’avanguardia e apparentemente sicure (cosa non molto distante dalla cinica idea di un “carbone pulito”).

Paul Virilio, in un saggio del 1986 intitolato Velocità e politica, comprese appieno il significato sociale della perversione per la velocità, presente in ogni ambito della vita comune: modalità di trasporto più veloci, algoritmi di trading più veloci, cicli di moda e informazione più veloci, rendimenti degli investimenti più veloci, risultati più veloci, tempi di risposta più veloci; tutto messo insieme in una vorticosa impossibilità di riprendere fiato. L’andatura si è velocizzata a tal punto che la vita è arrivata ad afferrarsi la coda, così da sembrare immobile o stagnante. Tutto vola via, ma nulla sembra cambiare. Lo sfacelo e il disordine dilagano, eppure i problemi di sempre si moltiplicano e si cristallizzano. In queste condizioni la libido fa una fatica enorme a trovare spazio, perché non è un impulso cieco ma una capacità o facoltà vigile che abbiamo disimparato da tempo a usare o sperimentare. In ultima battuta, la libido potrebbe infatti essere un sinonimo di attenzione ispirata dagli altri ma generata e sostenuta dal sé. Intesa in questo modo, la libido non è che un’altra entità nella lista delle specie in via di estinzione, privata del suo habitat naturale, ovvero una situazione sociale che detta i suoi ritmi, i suoi interessi e i suoi legami). Quello che è certo è che non ci libereremo mai dei desideri, sia sul piano individuale che collettivo. Ma le voglie incostanti e fugaci che costituiscono la nostra esperienza quotidiana non sono autentici investimenti libidinali: non sono disposte a (o non sono in grado di) prendersi il tempo per nutrire i propri affetti, né per coltivare una relazione attenta e premurosa con il proprio oggetto. Si tratta piuttosto di rapide simulazioni, che così come vengono adottate sono poi abbandonate. Ci troviamo quindi sempre più spesso in balia di spasmi pseudolibidinali, condizionati da tecnologie progettate nel dettaglio per farci salivare, senza neanche la ricompensa di un pasto nutriente (come aveva capito Adorno, oggi la nostra cultura si basa sul menu, non sul pasto). Ma la libido, libera da coercizioni, viene soddisfatta sempre e solo dal pasto. E ha tutto l’interesse di coltivare, raccogliere, pianificare, preparare e condividere il pasto, quanto di mangiarlo (aspetto che Fourier ha appreso da Epicuro).

Valerio Adami, Azzurra, 1984

Nelle sue lezioni dal titolo Come vivere insieme, Roland Barthes coglie almeno due punti fondamentali. Il primo è che mentre abbiamo sempre pensato e scritto soprattutto dell’individuo in quanto società di massa, e viceversa, abbiamo prestato poca attenzione a quell’importante sfera dei gruppi di medie dimensioni: la scuola, l’ufficio, il monastero, la comune. Forse, quando si tratta di ripensare la socialità, questo angolo cieco che dopotutto è dove la maggior parte di noi passa gran parte della propria vita quotidiana è anche un’opportunità per ripensare la società stessa. L’altro punto è che chi detiene il potere inizia sempre dal dettare un ritmo. Anche se con diverse gradazioni, esiste quindi una certa tirannia espressa nelle nostre motivazioni e nei nostri movimenti, nei nostri pensieri e nelle nostre azioni. E se insieme partissimo tutti dal livello dell’“idioritmia”: quel particolare contro-ritmo fatto su misura per la nostra volontà e i nostri scopi? E se cercassimo consapevolmente di ricomporre le relazioni sociali secondo una logica, una coreografia e un’impronta temporale molto meno dominanti e implacabili e più fantasiose?

Il futuro è il sommo oggetto libidinale. Un futuro imprecisato e indeterminato. Purtroppo, questa catessi temporale umana viene sabotata e dirottata con facilità (basti pensare a quanto è stato, e continua a essere, potente il significante vuoto di “speranza”, indipendentemente dalle volte in cui essa viene delusa o differita). Le nostre proiezioni affettive si concentrano su obiettivi specifici, come la fama o la ricchezza. Quindi, l’unico modo per salvare il nostro “essere appartenente a una determinata specie” a rischio è attraverso un atto di volontà collettiva, agendo nel presente con lo scopo di mettere in salvo il futuro dagli abissi in cui sta per sprofondare. Dobbiamo creare una nuova ecologia libidinale che sia veramente sostenibile e duratura. Questo sforzo può iniziare dalle sfere più piccole. Una di queste è la famiglia, come è riconfigurata nell’epoca dei legami queer, delle “comunità intenzionali” e degli esperimenti di poliamore. Associazioni, gruppi, scuole, network, parrocchie, ambienti culturali, subculture, incontri informali, clan, tong: tutti questi elementi hanno il loro ruolo. Per radicarsi, queste modalità coscienziose di “micropolitica” devono probabilmente partire da questo livello. Ma devono anche espandersi oltre i movimenti locali, per arrivare a comporre il ritratto di un’alternativa che sia valida per i decenni a venire. E inoltre devono immaginare qualcosa di veramente alternativo agli scenari logori, ma purtroppo non per questo meno persistenti e rilevanti, delle distopie fantascientifiche che ci vengono propinate da quando si è consolidato il “neomiserabilismo”.

È chiaro che questo programma generale incanalare collettivamente le nostre libido verso un progetto duraturo può assomigliare moltissimo alla cara e vecchia sublimazione. Infatti potrebbero introdursi di soppiatto alcune austerità puritane («Cosa? Questa sera vuoi andare a ballare e a fare l’amore? Ma è miope e improduttivo da parte tua!»). Per questo motivo sostengo sia necessario mescolare abbondanti cucchiaiate di Fourier con Stiegler, visto che il primo si è speso più nel rendere onore alla libido, e ai suoi infiniti desideri e richieste, che a lamentarne in astratto la perdita. Per sgombrare il campo da ogni dubbio, se sottolineo con forza i temi dell’attenzione, della cura e di una temporalità estesa, non significa che stia, surrettiziamente, reintroducendo le basi per un’etica protestante. Voglio piuttosto avanzare l’ipotesi che Dionisio sia molto più apollineo di quanto abbiamo sempre pensato, e che si divertiva tanto a partecipare alle orge quanto a pianificarle.

Ribadiamolo: la libido è intrinsecamente ecologica. Ciò significa che cerca relazioni simbiotiche ed emerge da esse (è chiaro che anche il parassitismo fa parte di un qualsiasi sistema ecologico, quindi non si tratta sempre di una semplice storia d’amore). Visti i rischi e le vulnerabilità connesse al dipendere dagli altri, alcune persone si rivolgono a quel grossolano distillato occidentale di saggezza buddhista che professa il “non attaccamento”. Ma questo credo troppo spesso decontestualizzato rispetto all’insegnamento originario può ricordare, in maniera sinistra, il solipsismo politico di Ayn Rand. È vero, abbiamo praticamente perso l’arte del vivere insieme, del vivere l’uno per l’altro (sarebbe da vedere, in realtà, se ne siamo mai stati capaci). Gli americani hanno in larga parte smarrito l’arte del mangiare, mentre gli spagnoli stanno abbandonando quella della siesta. Ci sono modalità culturali che stanno scomparendo come gli insetti. Ed è un problema che supera di gran lunga quello della “salvaguardia”. Non possiamo più tornare indietro, se non altro perché il particolato della terra è pieno di plastiche e di altri inquinanti prodotti dall’uomo. Anche se riuscissimo a capire come “ritornare all’Eden”, lo troveremmo cambiato, abbellito, ottimizzato, dotato di Wi-Fi, disseminato di rifiuti, ricostruito, geneticamente modificato. Ma non è questo un motivo per arrenderci del tutto. In fondo, il pianeta è tutto quel che abbiamo (nonostante le fantasie degli straricchi della Silicon Valley).

Il mondo ha ceduto alla pulsione di morte perché la libido è stata svuotata, ostruita, dirottata, smarrita. La nostra tendenza tanatica è impigliata in un ciclo di retroazione esponenziale e in espansione, che replica l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera. E i nostri desideri si sono compressi; si sono surriscaldati; e si sono resi pericolosi. La situazione è insostenibile. L’unico modo di uscire da questa spirale se non è già troppo tardi è coltivare rinnovate relazioni libidinali con gli altri e con l’ambiente circostante. Relazioni che coinvolgano attivamente l’attenzione, la cura, il gioco, l’espressione, la sperimentazione e pratiche simili. Come sottolineo sin dall’inizio, abbiamo bisogno di comprendere l’ecologia libidinale per sfumare, approfondire e ampliare la nostra comprensione dell’economia libidinale. Ora che la dubbia distinzione tra natura e cultura si è rivelata essere una questione di profonda e reciproca compenetrazione, un’ecologia di questo tipo deve includere anche l’ecologia dei media e di altri sistemi culturali.

In questa direzione, Félix Guattari ha identificato tre «registri ecologici» fondamentali: «Quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e quello della soggettività». Nel 1989, anno in cui ha scritto Le tre ecologie, il filosofo francese segnalava che «una vera risposta alla crisi ecologica si potrà avere solo su scala planetaria e a condizione che si operi un’autentica rivoluzione politica, sociale e culturale che sappia riorientare gli obiettivi della produzione dei beni materiali e immateriali: questa non dovrà riguardare soltanto i rapporti di forza visibili su vasta scala, ma anche i territori molecolari della sensibilità, dell’intelligenza e del desiderio». Tra le figure principali della filosofia francese del maggio del Sessantotto, Guattari insieme al suo sodale Deleuze lavorò per sabotare l’economia libidinale dominante attraverso l’assemblaggio di “macchine desideranti”. In sintonia con Bataille, sottolineò che il desiderio non nasce dalla mancanza (come ritenevano gli psicoanalisti) non è il tentativo di riempiere un vuoto ma da un’incessante creazione e da un surplus ctonio. In quest’ottica, gli esseri umani non possono fare a meno di produrre il desiderio, così come succede con gli estrogeni o con il sebo. Di conseguenza Guattari non avrebbe sopportato l’idea di picco della libido di Stiegler, o l’idea di un declino del desiderio (autentico). Avrebbe avuto problemi anche ad accettare la distinzione tra “desiderio” e “pulsione”, visto che considerava questa separazione una mossa in fin dei conti moralistica e soggettivistica.

La “problematica ecosofica” di Guattari ha a che fare con «la produzione di esistenza umana nei nuovi contesti storici». Dal momento che la nostra soggettività non è mai semplicemente data, come una monade, ma sorge da incontri ed esperienze transindividuali, si tratta di «ricostruire l’insieme di modalità dell’essere-in-gruppo». La radice del problema della nostra epoca è l’interiorizzazione della “soggettività capitalista”: una modalità di essere rachitica, repressa, simile a un bot, che diamo ormai per scontata nonostante non perdiamo occasione per lamentarcene sui social media. È a causa sua che «non scompaiono soltanto le specie, scompaiono anche le parole, le frasi, i gesti di solidarietà umana». Inoltre questa modalità d’essere alienata si basa su quella bugia, sempre più vuota, degli investimenti garantiti e del futuro solido. E, per di più, «si inebria, si anestetizza essa stessa in un sentimento collettivo di pseudoeternità».

In un altro passaggio, con straordinaria preveggenza e palpabile esasperazione, Guattari scrive: «Un’altra specie di alga, in questo caso relativa all’ecologia sociale, consiste in quel tipo di libertà di proliferazione che viene lasciata a uomini come Donald Trump, che si impadronisce di interi quartieri di New York». Che magra consolazione per Guattari non essere vissuto così a lungo per vedere fino a dove è riuscita a espandersi quest’alga! A ogni modo, aggiornando la politica filosofica di Herbert Marcuse, l’unica risposta efficace contro questa virulenza è l’«Eros di gruppo». Diventano urgenti «nuove pratiche ecologiche» progettate per combattere contro la produzione intenzionale di «singolarità isolate, rimosse, che girano e rigirano su se stesse». Guattari scrive che «nessuno viene dispensato dal giocare il gioco dell’ecologia dell’immaginario!», un gioco che funzioni «per l’umanità e non per un semplice riequilibrio permanente dell’universo delle semiotiche capitalistiche». Per questo motivo l’ecologia è di interesse universale, e «non dovrebbe più essere legata all’immagine di una piccola minoranza di amanti della natura o di specialisti accreditati». La posta in gioco è semplice: «Fino a che prassi collettive politicamente coerenti non vi subentreranno, saranno sempre le iniziative nazionaliste reazionarie oppressive per le donne, i bambini, le minoranze e ostili a qualsiasi innovazione a prendere il sopravvento». Secondo Guattari, la nostra riverenza sociale per la «remuneratività» deve essere strappata dagli angusti spazi della finanza e trasferita a «ben altri sistemi di valore», tra cui «i valori del desiderio».

Il messaggio che Guattari lascia alle generazioni di oggi, traumatizzate da una profonda sensazione di precarietà esistenziale, è di lottare su fronti diversi e interconnessi, per il nostro futuro e per quello della nostra moltitudine di alleati. Dobbiamo essere soldati, amanti, artisti e ingegneri; dobbiamo costruire macchine eccentriche e geniali per paralizzare la matrice del puramente macchinico. Solo prestando particolare attenzione alla natura interconnessa di soggettività, relazioni sociali e ambiente, avremo la possibilità di salvare tutti questi aspetti dall’oblio. Scrive Guattari: «Come reinventare delle pratiche sociali che ridiano all’umanità se lo ha mai avuto il senso di responsabilità, non soltanto per quanto riguarda la propria sopravvivenza, ma anche per l’avvenire della vita sul nostro pianeta, la vita delle specie animali e vegetali e la vita delle specie incorporee come la musica, l’arte, il cinema, il rapporto con il tempo, l’amore, la com-passione all’altro, il sentimento di fusione nel cosmo?». Parole da hippie, forse. Ma necessarie ed evolute. Infatti, se dobbiamo superare le misteriose tempeste che stanno già devastando il pianeta, abbiamo bisogno di imparare a sposare l’abbracciatore di alberi che abbiamo dentro o perlomeno l’accarezzatore di piante da vaso. Persino Donna Haraway, famosa per aver rifiutato la dea in favore del cyborg, ha reso più complesso il suo pensiero e ha fatto ritorno al naturale, secondo modalità strategicamente contaminate e competenti.

Haraway ribadisce l’idea di “restare a contatto con il problema”, invece di affondare le nostre agitate teste da struzzo dentro la sabbia silicica dei media digitali. Anche Guattari comprese che non si tratta più di sfere diverse: «Un’ecologia del virtuale è necessaria quanto le ecologie del mondo visibile». Le api hanno iniziato a fare alveari di plastica. Le profezie più fosche di Jünger formano ora il brusio monotono delle nostre vite quotidiane. E i nostri desideri si rivelano quasi sempre opportunità per abbandonarsi a tetre variazioni di crudele ottimismo.

Forse non è troppo tardi per riscoprire noi stessi, e riscoprirci l’un l’altro, lasciando fuori i riflessi narcisistici e tanatici della vita contemporanea.

O meglio, è troppo tardi. Per la maggior parte delle persone. E degli animali. E per gran parte di ciò che un tempo chiamavamo mondo naturale.

Ma mentre alcuni di noi sono ancora nella posizione di creare macchine di compassione come può fare persino un richiedente asilo imprigionato che, di nascosto, scrive un meraviglioso romanzo inviando sms da un telefono Eros continuerà a combattere.


dominic Pettman insegna Media e New Humanities alla New School University di New York, dopo aver lavorato presso le università di Melbourne, Ginevra e Amsterdam. La sua originale riflessione intreccia diversi filoni di ricerca, dalla teoria dei nuovi media all’ecologia dell’attenzione, dalle filosofie del desiderio agli studi sugli animali.

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