Come si pongono i giovani scrittori rispetto ai classici? Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori di immaginare un breve testo che ben si sposerebbe con la loro ultima opera (d’esordio o meno che sia). Ecco il risultato.
In Come non letto (Ponte alle grazie) Alessandro Zaccuri riscopre 10 classici + 1 che possono ancora cambiare il mondo, appellandosi a Don Chisciotte e a Il conte di Montecristo, a Dracula e a Moby Dick; Fare i conti con i classici di Mary Beard (Mondadori) scava fino alla radice greca e latina, mentre in Classici per la vita (Nave di Teseo) la biblioteca ideale di Nuccio Ordine abbraccia tutta la storia della letteratura, da Omero a Calvino: il rapporto con i classici diventa un classico per il lettore moderno (Il canone occidentale di Harold Bloom rimane testo di riferimento) e per chi scrive ancor di più.
Esempio classico proprio Italo Calvino (si immaginava già un classico?), allo scoperto con Perché leggere i classici (poi in un’omonima raccolta pubblicata da Mondadori nel 1991), ma il Novecento pagò il suo debito già in narrativa, basti pensare a due splendidi Premio Strega: Guido Piovene che se la vide col redivivo Dostoevskij in Le stelle fredde (1970, Bompiani) e Mario Pomilio che scandagliò l’animo di Alessandro Manzoni ne Il Natale del 1833 (1983, Bompiani), specchiandosi nei suoi conflitti con la fede; la manzoniana Monaca di Monza delude invece Antonio Mathis, protagonista de La suora giovane di Giovanni Arpino (Einaudi 1959, ora Ponte alle grazie): «Questa storia di Getrude è molto lontana, non mi pare vera.»
E i giovani scrittori di oggi come si pongono nei confronti dei Classici?
Ciclicamente la questione si riaccende e fa discutere (di recente Andrea Caterini sul Giornale ha risposto a un’indagine di Francesco Musolino sul Fatto quotidiano, additando coloro che “si vantano” di non averli letti), del resto sono in pochi a svelarsi con la propria opera narrativa (Nicola Lagioia esordì nel 2001 per minimum fax con Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj, ma già poneva l’accento sul sottotitolo: senza risparmiare se stessi) o a compiere operazioni tipo quella di Paolo Di Paolo in Vite che sono la tua. Il bello dei romanzi in 27 storie (Laterza).
Intendiamo stanarli, stanarCi?
Un’idea: ogni editore imponga a ogni autore esordiente (e non solo) un’appendice, in fondo al romanzo da pubblicare, un breve corpo a sé stante in cui confrontarsi con un Classico della Letteratura raccontandolo, analizzandolo, sfidandolo, anche screditandolo se crede: nel giro di pochi anni avremmo una mappatura esaustiva ed “emozionale” della materia, nonché una rinnovata rete di classici nella quale adescare nuovi giovani lettori.
Un esempio? Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori di immaginare un breve testo che ben si sposerebbe con la loro ultima opera (d’esordio o meno che sia). Ecco il risultato.
-->Valerio Callieri, autore di Teorema dell’incompletezza (Feltrinelli, 2017)
Ho riletto Amleto dopo aver consegnato l’ultima versione di Teorema dell’incompletezza.
Si scrive che sia il dramma della coscienza occidentale: per la prima volta vediamo sotto i nostri occhi l’evoluzione del personaggio; non è più immutabile e trascinato da un intento per tutta la narrazione. Il personaggio – come scrive Harold Bloom – origlia se stesso mentre parla, e muta. Quello che mi ha colpito maggiormente è stato il fatto che il cervello di Amleto fosse un territorio di guerra. Eserciti disertori di vendetta, guerriglie sarcastiche, cortei scettici, giullari per le truppe della convenzione, fortezze interiori imprendibili e misteriose lo abitano simultaneamente e furiosamente. Prima di Tolstoj, Pirandello, Foster Wallace, prima dei Sopranos, Breaking Bad, Mad Men, i personaggi diventano ambivalenti e attraversati da contraddizioni che li rendono “inconoscibili” a livello profondo, quindi esseri umani e non esseri metafisici da tragedia greca, né casi clinici da sceneggiatura mediocre. Il testo è complesso e popolare al tempo stesso, un culmine letterario. L’assoluta padronanza struttura narrativa mi ha fatto domandare: Shakespeare aveva letto la Poetica di Aristotele o altre teorie dell’intreccio? Perché sembra che il tessuto generale della narrazione sia importante quanto le metafore poetiche particolari. Shakespeare era consapevole di aver creato una sottotrama allineata tematicamente alla trama principale con Laerte che cerca vendetta per il padre Polonio? Di rendere chiara subito, senza presentazione dei personaggi, la posta in gioco della storia? E che il fantasma fosse allo stesso tempo il lutto di Amleto – qualcosa avvenuto prima che la storia cominci e che determina il suo stallo emotivo – e l’innesco della storia?
Un altro nucleo caldo e misterioso del testo è la dinamica padre-figlio. Al di là delle migliaia di ficcanti pagine ermeneutiche degli ultimi cinque secoli, quello che è evidente è che sono quasi due estranei: il primo un guerriero fiero e intransigente, il secondo scettico e sottile, niente di strano a livello letterario ma chissà – il testo non lo dice ma nemmeno lo nega – che Amleto avesse paura di essere figlio dello zio Claudio o che invece in qualche parte remota, che spiegherebbe a livello ereditario anche la sua ironia, sperasse di essere il figlio di Yorick, buffone di corte della sua infanzia e famoso cranio che reggerà in mano nell’atto quinto? Calvino scrive che un classico si rilegge sempre, un po’ per vergogna di dire che è la prima volta, un po’ perché il classico ci ha parlato ben prima dell’effettiva lettura. Io credo anche che ci legge sempre.
Michele Cocchi – La casa dei bambini (Fandango, 2017)
Ti ho conosciuto che soffrivo molto. Soffrivo e non per me stesso, bensì per il dolore del mondo offeso. Soffrivo ed ero preda di astratti furori. E tu mi parlavi di questo, ma come un arrotino, o come un Ezechiele, o un Porfirio, dicendo senza dire. E io mi fantasticavo partigiano tra i monti, con gli eroi che rendono liberi, possedere una lama, forbice o coltello, tridente o ferro arroventato. Furore di giovane che rompe argini, e taglia cordami e corre a largo in cerca di avventure. Giovane tra giovani furenti, eroe che libera il mondo offeso. Mentre tu eri arrotino, e Ezechiele, e Porfirio, e parlavi come un oracolo.
Oggi soffro ancora, e ancora il mondo è offeso, e tu mi offri nuove parole che allora non avevo orecchio per sentire, perché i classici fanno questo: offrono, ieri, oggi e domani, diverse risposte a medesime domande. Oggi sei Muso di Fumo, l’intermediario tra il dentro e il fuori, che sa guardare dove l’uomo non guarda, e dice: Tu ed Io. Dice: Noi. Oggi, adulto, ti conosco due volte, perché molte volte si conoscono i classici, e mi parli di questo: non più di forbici e coltelli d’ arrotino, ma di occhi e voce per l’altro; non di tridenti e di ferri arroventati ma della forza di guardare dove abbiamo paura di guardare.
(Dedicato a Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini)
Ilaria Gaspari – Etica dell’acquario (Voland, 2015)
Quando ho finito di leggere Il tempo ritrovato, non sapevo più cosa fare. C’erano voluti anni perché arrivassi in fondo ai sette tomi; qualcuno me l’ero trascinato dietro per anni, nel mio disordine, fra un trasloco e l’altro, leggendo nel frattempo mille altre cose. Ogni libro aveva una storia diversa: chiunque, fra gli appassionati, avesse una parvenza di devozione non dico filologica, ma almeno ordinata, al testo, inorridiva apprendendo le origini dei sette volumi, divaricate in una miriade di prestiti, regali, ritrovamenti su bancarelle, librerie dell’usato; alcuni erano in italiano ma in traduzioni discordanti, altri in francese. Ma dopo lo stracco trascinamento iniziale, l’insolenza che spesso, per timidezza, si ha verso una passione che nasce, mi ero arresa. Da Sodoma e Gomorra in poi avevo letto avidamente, nel giro di qualche mese completai tutto il ciclo, durato in totale quasi cinque anni. Arrivata alla fine, avevo la sensazione di aver intravisto un segreto, il bandolo della mia ossessione per il tempo, la memoria, le facce che sbiadiscono, le ore buttate. Ma sapevo che non avrei mai potuto raccontare cosa fosse stato, per me, leggere Alla ricerca del tempo perduto. Non ci riesco, neanche ora, eppure ricordo tutto; le scarpe rosse della duchessa, il suo naso da uccello, il Grand Hotel di Balbec, i pomeriggi dell’infanzia, Gilberte e Albertine, e Odette volgare e sublime; e Swann e Saint-Loup, il barone di Charlus, e i Verdurin. Ritrovo i tratti dei personaggi, come fossero vecchi conoscenti, in chi incontro nella vita o in altri libri. Mi sorprendo a pensare – ecco, questo sembra il direttore dell’albergo di Balbec, come se ci fossi stata davvero. Ricordo tutto e non ne so parlare; perché quel libro in sette libri è la cosa più vicina a un segreto rivelato che mai abbia visto socchiudersi. Mi sentivo stupidamente sola, finito l’ultimo volume: allora pensai di iniziare a scrivere qualcosa io, più che altro per tenermi occupata, per provare ad acchiappare, con mezzi molto modesti, per un attimo, un balenare della coda del tempo; non pensavo al risultato ma solo all’atto di sguinzagliare parole, cercare di afferrare qualcosa. Avevo poco passato: ne immaginai dell’altro, imbastii una storia cupa, inventata intorno a barlumi di ricordi della vita che avevo fatto fino al giorno prima, in un collegio che già non esisteva più – insomma mi tenni occupata.
0 comments on “Sfidare un Classico in appendice”