Shadow of the Colossus e i videogiochi come forma d’arte


I videogiochi sono una forma d’arte? Si direbbe di sì, giocando al remake di Shadow of the Colossus


di Andrea Cassini

I videogiochi sono una forma d’arte? Se credevate che la discussione fosse sopita, date un’occhiata alle comunità di appassionati e vi convincerete del contrario. Ogni testata del settore ha pubblicato almeno un articolo sul remake del momento, Shadow of the Colossus, uscito per PS4 l’8 febbraio, con una scia decine di commenti per ogni articolo. C’è un’accesa diatriba tra chi si strugge per la poesia dei lavori di Fumito Ueda e del Team ICO e chi invece ricorda l’originale come un’avventura pretenziosa e scarna, che non reggerebbe il  confronto con la vastità degli open world attuali. Sarà interessante attendere le opinioni di chi affronterà Shadow of the Colossus per la prima volta, per scoprire se i suoi pregi sono rimasti intatti a 13 anni dall’uscita o se ormai si tratta di un’opera datata.

Shadow of the Colossus diverte, ma fa sentire in colpa. Intrattiene, ma disorienta. Coinvolge in una competizione, ma senza mai sapere se fare il tifo per il tuo personaggio o per i suoi avversari.

Basta l’ambientazione a collocare questo videogioco nell’ambito della poesia; significativamente, l’ambientazione è anche lo scoglio contro cui s’infrangono le critiche dei detrattori. Fumito Ueda compie un’operazione ermetica, minimalista. Il mondo che ci presenta è desolato, una terra proibita che ospita un microcosmo di vallate, montagne, deserti, strapiombi e specchi d’acqua. Ogni immagine, proposta nei suoi elementi essenziali, acquista un’espressività rara. Ogni gesto è ingigantito, caricato di significato. Un palco sconfinato a disposizione di un unico attore, il protagonista Wander. Gli altri personaggi, infatti, sono inanimati, non senzienti: Mono, la ragazza amata, attende il risveglio dalla morte, il cavallo Agro è semplicemente un fedele servitore, gli stessi Colossi,costituiti dalla medesima roccia e terra che compone il paesaggio, si destano dal sonno solo se attaccati. Mentre ci si orienta senza mappe, guidati dal solo riflesso di una spada, ci accompagnano solo il suono del vento, degli zoccoli di Agro e di una colonna sonora che asseconda i suoni della natura. Silenzi lunghissimi e assordanti. Per riempirli, non possiamo far altro che assecondare il dubbio,  attraverso il quale il gioco inizia a ripiegarsi su se stesso.

I videogiochi canonici, infatti, ci tengono impegnati in un dedalo di avventure e dialoghi, ci meravigliano con scenari zeppi di dettagli, ci riempiono le orecchie con combattimenti continui, spari, esplosioni. Non ci lasciano il tempo di affrontare una domanda fondamentale: che senso ha la nostra missione?

Wander riceve la propria quest da Dormin, un personaggio che agisce in absentia. Di lui conosciamo solo la voce, né maschile né femminile, e il patto che offre. Se Wander ucciderà i sedici Colossi riporterà in vita Mono. L’idioma in cui si esprime è comprensibile solo attraverso i sottotitoli. Fumito Ueda l’ha definito una miscela di giapponese e latino, entrambi pronunciati al contrario. L’ha utilizzato anche nel suo titolo più recente, The Last Guardian, e ha spiegato la scelta: voleva suscitare nel giocatore la stessa sensazione che provava lui, insieme a migliaia di altri appassionati della sua generazione, quando si cimentava in videogiochi americani d’importazione: la lingua inglese, alle sue orecchie, assumeva un suono misterioso e del tutto oscuro. È tramite dettagli come questo che si manifesta l’originalità di Shadow of the Colossus: più passano le ore e più il giocatore matura una dissonanza emotiva nei confronti di chi è manovrato dal controller. Wander sembra comprendere bene la portata delle proprie azioni. Lo vediamo infrangere il sigillo che conduce alla terra proibita e puntare dritto al santuario di Dormin, portando con sé il corpo di Mono e una spada rubata, ma non sappiamo nulla della sua storia pregressa, né ci è permesso entrare nei suoi pensieri. Complice l’assenza di interlocutori, Wander è un eroe che non parla mai, nemmeno con se stesso. In nostro aiuto non accorre nessuna voce narrante, ci dobbiamo accontentare di qualche scena dall’esterno. Gli abitanti del villaggio di Wander, coi volti coperti da maschere, cavalcano verso la terra proibita per fermarlo. Dal loro punto di vista la nostra missione è un crimine, eppure non possiamo fare altro. Per quanto a lungo si esplori lo scenario, non esiste alcuna via di fuga, non si può temporeggiare con avventure secondarie e nemmeno cambiare l’ordine in cui Dormin ci ordina di affrontare i Colossi. Siamo intrappolati dentro la cieca determinazione di Wander e come lui ci troviamo a subire gli effetti dell’impresa. Dopo ogni combattimento, infatti, il protagonista sviene, trafitto da fasci di luce nera. Si risveglia al centro del santuario, maa sua pelle si fa scura, marchiata dagli stessi simboli che indicano i punti vitali dei Colossi in cui affonda la spada. Ogni scontro è più brutale del precedente, e anche l’escalation di violenza sortisce un effetto straniante. È più facile provare empatia per il cavallo Agro, perché Ueda ha voluto rendere l’idea di un animale vero, dotato di un proprio istinto, e i controlli per manovrarlo non sono intuitivi come pilotare un’auto – un’idea già esplorata nel precedente ICO e portata ai massimi livelli con Trico in The Last Guardian. Nonostante le bizze, però, Agro è un compagno onesto. È significativo che Wander si trovi ad affrontare una parte della missione da solo, come forzato ad abbandonare il proprio lato umano.

I combattimenti con i Colossi sono l’aspetto più tradizionale di Shadow of the Colossus. Servono pazienza, strategia e la giusta maestria col controller. Si tratta tuttavia di uno scheletro da 16 boss fights, nessun’altra occasione per incrociare le armi: ogni scontro rappresenta il culmine di un build-up emotivo, lo sfogo di una tensione accumulata vagando per minuti e minuti lungo valli desolate. Spesso la battaglia si risolve in una sfida di logoramento. A mettere in primo piano lo sforzo sovrumano di Wander, il giocatore è chiamato a tenere premuto un tasto ogniqualvolta cerchi di restare appeso ai Colossi, ma è altresì impossibile opporsi alla loro volontà. Quando non reagiscono con la violenza, si scrollano di dosso Wander e la scalata dovrà cominciare da capo. Ottenuta la vittoria, mentre i tentacoli neri trafiggono Wander, il giocatore sfinito difficilmente può definirsi felice: chi l’ha detto che l’obiettivo di un videogioco debba essere per forza la vittoria?

Shadow of the Colossus è una storia di opposti dotata del respiro che è proprio degli archetipi. Il contrasto più palese è quello tra grande e piccolo. Oltre a offrire spettacolari prospettive cinematografiche, gli scontri di Wander con i Colossi ripropongono il tòpos di Davide contro Golia e ci fanno pensare al titanismo di fine Settecento. “Certe montagne vanno scalate”, recita una delle tagline del gioco, “altre, uccise”. La situazione però si ribalta se consideriamo che i Colossi, enormi, dormono un sonno pacifico mentre Wander, piccolissimo, è violento e bellicoso.

La luce e l’ombra sono due facce della stessa moneta, forme di una magia il cui controllo è sfuggito dalle mani dell’uomo; una magia, nondimeno, così potente che si decise di segregarla in una terra proibita. Il bagliore emesso dalla spada di Wander è lo stesso che si diffonde dalle statue del santuario, che rappresentano i Colossi abbattuti: splende anche in pieno giorno e guida il protagonista. L’ombra è intrappolata nel corpo dei Colossi; una volta sconfitti si rivelano meri contenitori, al pari di un golem. L’ombra, infine, migra nel corpo di Wander, corrompendolo. L’anima di Dormin, ci è dato intuire, appartiene a entrambi gli elementi e le sue mani, una volta ripresa forma corporea, sapranno maneggiarli.

C’è la vita, c’è la morte e c’è un amore che le unisce e le supera. “Quanto lontano saprai spingerti per amore?” recita un’altra tagline, ma la verità su questo amore resta nascosta nella mente di Wander. Il giocatore non sa chi sia Mono, né perché sia morta – la ammira però mentre si mantiene candida, immutabile, distesa sulla sua lapide. Wander, che invece è vivo, cambia, marcisce. Ancora una volta, gli opposti si ribaltano.

Ci sono infine il peccato e la redenzione. I richiami mitologici sono così potenti che Ueda non ha bisogno di sporcare la propria tela con delle citazioni. Dormin è un Lucifero, ultimo erede di una civiltà che condivideva l’anima con la natura e ne manipolava gli elementi. Se fossimo in un gioco di ruolo canonico parleremmo di un “legale malvagio”: Dormin offre un patto a Wander e mantiene la sua promessa. Eppure, ha piegato il proprio potere al male. Le sue colpe, significativamente, sono taciute, e così quelle di Wander che le eredita. Sono l’infrazione delle leggi della natura. Il riportare in vita qualcosa che è morto. Dormin è come il crudele dio Morgoth del Silmarillion tolkieniano, un ribelle imprigionato dagli altri dei affinché non possa spargere il suo seme. La terra sigillata è la sua cella e il santuario è una Torre di Babele che resta eretta, seppur disabitata, come un monito – i castelli diroccati, labirintici di ICO e The Last Guardian rappresentano ancora meglio il concetto . C’è una differenza sostanziale, però, con quanto accade nel pàntheon tolkieniano. Qui gli uomini del villaggio di Wander, gli altri testimoni di quella civiltà, non sono più dei. La spada rubata è l’unico artefatto che conserva un legame con la magia. Per scacciare l’ombra, hanno dovuto rinunciare anche alla luce; ecco che la terra proibita, più che a una prigione, comincia ad assomigliare a un paradiso perduto.

Il finale, come si conviene a un’opera del genere, è ciclico, a rammentarci la futilità della nostra missione. Torna il tema del paradiso, un vero e proprio giardino, che tuttavia è anche un luogo di costrizione. C’è una nascita, però, che rappresenta la speranza. La possibilità di espiare le colpe attraverso una maledizione, una sofferenza da perpetrare tra le generazioni. Un simbolo che ti rende oggetto di persecuzioni per il solo fatto di esistere. Il marchio di Caino. ICO, l’opera precedente di Ueda e del suo team, racconta forse la storia di questa redenzione, ed è significativo che il protagonista la persegua comportandosi, in fondo, allo stesso modo di Wander. Entrambi procedono a testa bassa verso la meta, ma se l’eroe di Shadow of the Colossus eredita il ruolo luciferino da Dormin, consapevole di ogni azione e rischio, il bambino di ICO si ritrova come lascito una maledizione senza nome, che solo l’innocenza può cancellare. La differenza sta nei moventi opposti: Wander vuole rovesciare la morte, l’altro – come sarà anche in The Last Guardian – proteggere una vita.

Giunti alla fine dell’avventura, possiamo giudicare il remake un progetto azzeccato, anche a 13 anni di distanza; Shadow of the Colossus rivela la sua natura di opera senza tempo, atipica oggi così come lo era nel 2005. La nuova veste grafica rende piena giustizia alla sua dimensione artistica, ed è più piacevole immergersi nella poesia dello scenario. E la nostra risposta alla domanda iniziale, il nostro contributo al dibattito? Questa considerazione sembra condurci proprio lì.

Chris Melissinos, tra i più influenti critici del settore, ha offerto parole che prendiamo volentieri in prestito, proprio riferendosi a Shadow of the Colossus.

“Mentre mi arrampicavo sul dorso della bestia, perdevo la presa e, in preda al panico, mi aggrappavo a qualsiasi appiglio pur di non precipitare. Allungandosi sopra un artificio luminescente, la mia spada individuò il marchio e affondò il colpo. Arto dopo arto, quella magnifica creatura su cui mi reggevo in piedi soccombeva alla gravità, priva di vita, scuotendo la terra stessa con la sua caduta. Scivolando via dal cratere, mi ritrovai con lo sguardo piantato negli occhi della bestia nel momento esatto in cui l’anima esalava l’ultimo sussulto dal suo corpo. Non ero io, ovviamente. Ma un videogioco mi aveva permesso di immedesimarmi nella sua storia in un modo che nessun altro mezzo espressivo potrà mai imitare”.

Che i videogiochi siano una forma d’arte, continua Melissinos, è assodato. Una delle più alte, forse quella dominante nella prospettiva del ventunesimo secolo, perché sposta il giocatore sul piano del creatore, dell’artista. Nel caso di Shadow of the Colossus, ci permettiamo di aggiungere, il videogioco è anzitutto una meravigliosa narrazione; e in questo risiede il suo essere un’opera d’arte.


Andrea Cassini Nato a Pistoia, classe 1988, filologo medievale di formazione. Si occupa di sport per La Giornata Tipo, Play.it USA e BasketInside. Scrive racconti su Spaghetti Writers e ha un romanzo in uscita con Astro Edizioni.
Copertina: Il Colosso, di Francisco Goya.

1 comment on “Shadow of the Colossus e i videogiochi come forma d’arte

  1. Andrea Fantasticini

    Bellissimo articolo. Apprezzo davvero come questo gioo possa essere interpretato in maniera diversa a seconda della sensibilità di chi lo gioca. Di nuovo, Mi congratulo per l’ottimo prodotto

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