Una vasta gamma di film, fumetti, romanzi e serie TV fanno risalire a galla sentimenti, ansie e preoccupazioni sul cambiamento climatico che, appare chiaro, sono ormai diventati inconsci.
IN COPERTINA e lungo il testo, Shark drop, di Caleb Brown (2009)
Questo testo è tratto da L’antropocene inconscio, di Mark Gould. Ringraziamo Perrone Editore per la gentile concessione.
di Mark Bould
A metà dell’estate del 2013, l’uragano David travolge la costa occidentale del Messico, spingendo un numero mai visto di squali verso nord, in acque sconosciute. L’11 luglio la tempesta si avvicina a Santa Monica, costringendo i poveri predatori spaesati a rifugiarsi nelle secche, dove attaccano surfisti e bagnanti. Pochi minuti dopo, l’uragano colpisce. Una colossale mareggiata si abbatte sull’entroterra, su West Los Angeles e oltre, riversando i voraci pesci nelle strade allagate. Contemporaneamente si forma la prima delle tre massicce trombe d’acqua che travolgeranno la città, dalla quale gli squali iniziano a piovere addosso ai losangelini ignari.
È il primo sharknado mai documentato.
Prodotto da The Asylum, noto colosso dei mockbuster, e trasmesso sul canale televisivo Syfy, Sharknado, costato appena un milione di dollari, non ha subito il successo previsto, guadagnandosi appena 1,37 milioni di spettatori alla prima trasmissione, un centinaio di migliaia in meno di quanto ci si aspettava da uno dei classici film di quel canale, consapevolmente economici e ridicolmente “originali”. Tuttavia, il live tweeting da parte di alcune celebrità minori (e non solo) lo fa andare in tendenza, con picchi di cinquemila tweet al minuto, mentre il pubblico cresce a ogni nuova trasmissione, attirato tanto dal film quanto dal tam-tam sui social, anch’esso ampiamente chiacchierato sia online che sui media tradizionali. Così, un film che nasce come mash-up di commedia, film d’azione e film apocalittico in stile natura-che-si-vendica, il cui attore protagonista aveva accettato la parte solo per pagare l’assicurazione sanitaria della sua famiglia, è diventato un autentico fenomeno. In seguito è uscito un sequel ogni anno per cinque anni, e ogni film era ogni volta più ridicolo e più fantascientifico – concetti che non sono per forza equivalenti.
Il primo Sharknado ci presenta Fin Shepard, uomo divorziato ed ex campione di surf reinventatosi proprietario di bar, interpretato da Ian Ziering, il quale dona al ruolo un’intensità da Tom Cruise del tutto ingiustificata. Aiutato da Nova, una cameriera rimasta orfana per colpa degli squali, dovrà salvare – e riunire – la sua famiglia andata in pezzi.
Nel secondo film, tre sharknado convergono su New York, dove Fin deve ancora una volta domare le tempeste per salvare la sua non-più-ex-moglie April, la sua famiglia e la città.
Nel terzo, molteplici sharknado atlantici minacciano l’intera Feast Coast. Fin, suo padre Gil (ex-astronauta con cui ha tagliato i ponti da anni) e un’April molto incinta volano in orbita per riattivare lo Scudo spaziale SDI, abbandonato da decenni, per placare le tempeste – e per sconfiggere gli squali, scagliati fin nello spazio da fenomeni climatici estremi. Rientrando nell’atmosfera all’interno di uno squalo, April dà alla luce un figlio, a cui dà il nome di Gil, ma viene poi schiacciata e uccisa da una cascata di rottami di uno shuttle.
-->Il quarto film è ambientato cinque anni dopo. All’insaputa di Fin, il padre di April, uno scienziato pazzo, l’ha trasformata in un cyborg volante che ripete citazioni alla Terminator – il che, oltre a dare un ruolo più attivo al personaggio, è anche una soluzione geniale alla palese incapacità dell’attrice Tara Reid di interpretare qualcosa di anche solo lontanamente simile a un essere umano. Gli Stati Uniti hanno adottato un rivoluzionario sistema nazionale di soppressione degli squali, ma quando questo si blocca, gli sharknado si abbattono sulle città della costa occidentale e del Midwest. Tuttavia, dopo che uno sharknado potenziato dall’elettricità – un fulminado – colpisce la centrale nucleare di Perry, Fin e April devono costruire una scatola quantica intorno alle cascate del Niagara per bloccare questo nuclearnado (non ho idea di cosa voglia dire, o di come funzioni, ma tanto non lo sanno nemmeno gli sceneggiatori).
Il quinto, un film on the road, inizia nelle grotte sottostanti Stonehenge. Fin e Nova – che ha smesso di fare la cameriera per fondare la Sorellanza, un’organizzazione segreta di sole ragazze convenzionalmente sexy in costumi neri attillati – scoprono un’antica tecnologia contro gli sharknado, consistente in una rete che collega i luoghi sacri di tutto il mondo, ma per sbaglio la disattivano. Uno sharknado con dentro un vortice dimensionale si porta via il piccolo Gil. I suoi genitori si lanciano in un folle inseguimento facendo tappa in Svizzera, Australia, Brasile, Italia, Giappone – dove un gigantesco Sharkzilla radioattivo calpesta Tokyo e uccide Nova – e infine in Egitto. Nelle piramidi di Giza, Fin e April scatenano il potere devastante degli antichi, che ferma gli sharknado di tutto il mondo, ma così facendo distruggono, accidentalmente, il pianeta. Fin, l’ultimo uomo, vaga tra le rovine con la testa cyborg di April, mozzata ma ancora funzionante, in una borsa. Un giorno appare un veicolo, guidato da Gil, che è ora un vecchio ingrigito. Il vortice/sharknado lo aveva catapultato nel passato remoto, e gli ci erano voluti decenni per inventare il viaggio del tempo…

Dopodiché, viaggiando in avanti nella storia, Gil ha salvato i personaggi morti nei film precedenti, afferrandoli una frazione di secondo prima della loro morte e depositandoli al sicuro in svariati periodi storici. E così il sesto film si apre 65 milioni di anni fa, pochi minuti prima dell’impatto dell’asteroide nel Cretaceo-Paleogene. Fin, Nova (che non è più morta nel quinto film), l’April umana (che non è più morta nel terzo) e la testa della April cyborg fermano il primo sharknado della storia. Poi saltano in avanti nel tempo, inseguendo le iterazioni del giovane-ma-sempre-più-vecchio Gil e combattendo gli sharknado a Camelot, nella Guerra d’indipendenza americana, nel selvaggio West e nella Santa Monica degli anni Cinquanta (dove Fin spinge i suoi genitori ad andare a letto insieme). Nella San Francisco del 1997 Nova salva suo nonno, ma gli squali che lo avevano ucciso divorano lei e April. Fin e Skye (la sua fidanzatina del liceo, che non è più morta nel secondo film) sbagliano a impostare il loro condensatore di flusso, ritrovandosi in un 20013 post-apocalittico pieno di cloni di April e squali robot volanti, sotto il comando della testa cyborg di April, diventata malvagia.
In qualche modo, Fin riesce a tornare a quella prima estate mortale, rivive l’inizio del primo film e mette fine per sempre alla minaccia degli sharknado. Intanto, tutto questo scompiglio crononautico ha alterato irrevocabilmente il mondo. Questa volta, Fin e April hanno lavorato sul loro matrimonio e non hanno rovinato i rapporti con figli, famiglie e amici; e Nova, non più orfana, non ha motivo di odiare gli squali.
I film di Sharknado sono artefatti creati con elementi di recupero, messi insieme a partire dagli scarti e dai rottami della TV americana. Veri reportage di inondazioni, disastri e incidenti – a volte conditi con tempeste, squali volanti e altri fenomeni meteorologici realizzati con una CGI scadente – si scontrano con scene girate frettolosamente sia in studio che in esterni, appesantite dal green screen e anch’esse sottoposte a una postproduzione digitale volutamente sciatta.
In mezzo a questo patchwork visivo scorre un torrente di allusioni a serie TV – Baywatch, Taxi, Ai confini della realtà – e film – L’aereo più pazzo del mondo, Ritorno al futuro, La casa 2, Terrore dallo spazio profondo, Lo squalo, Lilli e il vagabondo, Mission: Impossible, Quinto potere, I predatori dell’arca perduta, Vacanze romane, Scarface, Tutti insieme appassionatamente, Space Cowboys, Star Wars, Non aprite quella porta, Toy Story, Il Mago di Oz e quel pezzo di Independence Day che fa il verso all’Enrico V di Laurence Olivier. Alcuni di questi cenni, plagi, riff e furtarelli contribuiscono a creare una rete di inside jokes ricorrenti. Altri – come la rielaborazione di April della copertina di Action Comics #1, o il riferimento a Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione – sono inaspettati, forse persino oscuri. Ma niente di tutto ciò è sottile.
Allo stesso tempo, lo schermo è pieno di facce vagamente familiari, recuperate dalle innumerevoli schiere di attori bambini (spesso dalla carriera ormai finita), star di soap opera, concorrenti di talent show, truffatori usciti da qualche reality, presentatori di telegiornali e di previsioni del tempo, conduttori di chat show, autori, rapper, cantanti country e western, chitarristi rock, cantanti crooner di Las Vegas, comici, veejay, cacciatori di taglie, prestigiatori, scienziati, drag queen, pattinatori artistici, sciatori, sommozzatori, skateboarder, lottatori di wrestling, i Chippendales, top model, modelle glamour, modelle attiviste, modelle da copertina di romanzi rosa, opinionisti di destra, una deputata repubblicana, una Plymouth Fury del 1958 posseduta dal demonio, ex allievi dell’Accademia della Flotta Stellare di Star Trek, attori caratteristi che hanno fatto e dovrebbero fare di meglio, scrittori e registi di film orrendi (compresi gli Sharknado), tecnici di scena, persone i cui quindici minuti di fama sono passati da veramente troppo tempo, scollature a caso, mancanze totali di carisma, tristi vittime di un uso poco saggio della chirurgia estetica… Molti di loro interpretano se stessi, e alcuni si portano dietro anche la famiglia. E come le continue allusioni di cui sopra, tutti sono lì per essere notati, indicati, commentati.
I film di Sharknado non sono omogenei né coerenti. Sfuggono alle norme testuali borghesi ed esigono il mantenimento dell’incredulità, non la sospensione. Non hanno alcun interesse ad ammaliare lo spettatore, nessuna aspirazione verso l’illusionismo. Sono Brecht andato a male. Digressivi, dispersivi e composti quasi interamente da punti di fuga, scelgono di interpellarci in modo differente. Ci bombardano con momenti testuali disseminati in giro allo scopo di attirare l’attenzione, di suscitare il piacere del riconoscimento, o gemiti di incredulità, ma anche grida di scherno e, soprattutto, tweet, post, meme, tam-tam. Sono epifenomeni dei media globali che vivono in rete la loro essenza commerciale, sono scorci di quell’iperoggetto che è l’informazione.
È un franchising che si nutre di detriti culturali, rianimandoli e rimettendoli in circolo, capitale che ridiventa capitale.
Tutto diventa cibo per i pesci. Anzi, per squali.

Ma proprio a causa di questo “appetito per la distrazione” rapace e indiscriminato, le nove ore tentacolari e iterative di Sharknado non possono fare a meno di parlare del cambiamento climatico. Il termine vero e proprio viene usato solo una volta, in un telegiornale appena udibile in sottofondo, ma come suggerisce il sottotitolo di Sharknado 5: Global Swarming il cambiamento climatico e altre crisi antropogeniche sono evidentemente intrecciati al tessuto sempre sul punto di scucirsi dei film.
Ci sono rappresentazioni di sovrapesca illegale e di estinzioni di massa. Riferimenti vari a rifugiati, migrazioni e confini. Fantasie di magici proiettili hi-tech e soluzioni prese dalla geoingegneria. Sconvolgimenti dello spazio e del tempo, variazioni di grandezza e intensità che rappresentano la causalità asincrona, non lineare e sempre sull’orlo del disastro che regola il cambiamento climatico. E la narrazione è ripetutamente interrotta da notizie in cui i presentatori (reali) mettono in mostra la loro (reale) acritica, stereotipata, sentimentale, iperbolica ma annoiata fascinazione per la crisi, normalizzando gli eventi meteorologici estremi persino mentre crescono in dimensioni e frequenza.
E poi ci sono gli sharknado.
Immagini ridicole, rappresentazioni crude di perturbazioni e destabilizzazioni metereologiche che rimandano alla stranezza e agli eccessi del nostro clima che cambia. Moniti enormi, impossibili da ignorare, che ci ricordano che condividiamo il mondo con altre specie.
Nel franchise, la storia dell’umanità si svolge in un’epoca in cui gli sharknado vengono soppressi artificialmente – ed è solo grazie a questa soppressione che l’umanità può esistere. Questo implica che un clima inospitale per gli esseri umani è diventata la norma del pianeta Terra, che la civiltà umana si è sviluppata in un periodo di stabilità climatica insolita nella storia terrestre, e che il caos climatico è destinato a tornare. Nel mondo reale, quel periodo di stabilità si chiama Olocene, e in questo momento noi ci troviamo in bilico sul bordo di ciò che verrà dopo, in attesa di eventi che abbiamo già reso inevitabili.
Quando guardiamo un film, entriamo in una contraddizione. Ci arrendiamo a una fiction che sappiamo essere, appunto, fittizia. Gli effetti speciali accentuano questo gioco di credulità e incredulità: ci mostrano cose che sappiamo non possono essere reali. Questa piacevole esitazione viene spesso sconvolta nel momento in cui gli effetti non riescono a convincere, e anche le tecniche più all’avanguardia sbiadiscono, diventano ovvie, sembrano false.
Ma nei film di Sharknado accade qualcosa di diverso.
Gli effetti speciali non vogliono dare l’illusione del reale: sono utilizzati deliberatamente per risultare inadeguati fino al ridicolo. Non sono fatti per persuaderci, ma per stuzzicarci.
Tuttavia, il tono e l’estetica generale dei film rischia di essere rovinata dalla dipendenza dai filmati di repertorio. Grande risorsa per qualsiasi regista con un budget basso, il filmato di repertorio è un espediente appena decente per evitare le riprese in esterni e gli alti costi di realizzazione di scene spettacolari. Ma, proprio come gli effetti speciali, questo tipo di filmati porta con sé le proprie contraddizioni. Di solito fanno parte di una retorica visiva tesa a mantenere la sospensione dell’incredulità dello spettatore all’interno del mondo dove si svolge la storia, ma, allo stesso tempo, le visibilissime differenze nella qualità dell’immagine ci distraggono, attirando di continuo l’attenzione sugli artifici operati dal film.
Nei film di Sharknado, questo contrasto tra le scene narrative, la goffa CGI che spesso e volentieri interviene a intervallarle e modificarle, e i filmati di repertorio diventa fin troppo evidente, sottolineando così l’estremo realismo di questi ultimi. Sotto la superficie, si nasconde la vera catastrofe. Emerge sotto forma di frammenti di verità apparentemente fuori luogo, ma viene subito spazzata via da un inesorabile fiume di distrazioni.
Ma il rimosso torna sempre, e qui lo fa sotto forma di sintomi meteo-ittiologici esagerati, di paraprassie climatiche, di lapsus antropocenici.
La riluttanza del franchise a dire apertamente “cambiamento climatico” non è una timida reticenza.
The Asylum e Syfy vogliono mantenere un’immagine leggera, divertente, per giustificare la spazzatura che producono e mettono in onda deliberatamente. Rispondono a un imperativo commerciale: massimizzare il proprio segmento di pubblico, la propria nicchia, grazie alla superficialità. Allo stesso tempo, il franchise mette in atto e interpella l’ormai familiare desensibilizzazione nei confronti dell’onnipresente minaccia esistenziale costituita dalla crisi climatica antropogenica. Ma non importa da dove provenga: questa avversione, questo silenzio così caratteristico, non significa che il franchise non parli del cambiamento climatico.
Non dovremmo sorprenderci.
Il fantastico esprime le nostre paure e le nostre ansie, i nostri desideri, e talvolta anche le nostre speranze. Il mostro di Frankenstein incarna terrori legati alla riproduzione e prefigura la rivoluzione proletaria e anticoloniale. King Kong che imperversa su Manhattan mette in scena le paure bianche della mascolinità nera e della vendetta coloniale. Gli alieni che rapiscono corpi umani sono avatar del conformismo consumista. I robot siamo noi, disumanizzati. Godzilla è la bomba.
Quindi la prima cosa che dovremmo sempre chiedere a un mostro è: cosa rappresenti?
In 28 giorni dopo (2002) di Danny Boyle, alcuni esseri umani scappano da un laboratorio infettati da un virus misterioso. Il contagio si diffonde rapidamente in tutta l’Inghilterra. È impossibile curarlo, controllarlo o contenerlo. Le infrastrutture rimangono intatte. La vita non-umana, ignara, continua a esistere. Ma quasi tutti i cittadini britannici che non sono morti sono ormai morti viventi.
In una casa signorile vicino a Manchester, barricati contro l’assalto degli zombie, un gruppo di soldati si chiede quando le cose torneranno alla normalità. Il sergente Farrell li corregge: “Se pensate all’intera vita del pianeta, noi… uomini, donne, siamo qui soltanto da pochi miseri istanti, perciò se l’infezione ci spazza via, quello sarà il ritorno alla normalità”.
Tuttavia, di solito, i film sui mostri confrontano la brevità dell’esistenza umana con l’età del pianeta in altri modi: i personaggi evocano creature dal passato remoto, o dissotterrano dai ghiacci polari oggetti alieni precipitati secoli fa per poi scongelarli allegramente, o ancora recuperano dinosauri da mondi perduti, magari ricreandoli in laboratorio a partire da DNA fossilizzato.

In Pacific Rim (2012) di Guillermo del Toro, delle creature di un’altra dimensione aprono un portale tra le placche tettoniche del Pacifico e dalla breccia emergono i Kaijū, pronti a spaccare, calpestare e distruggere tutto. Ma non è la loro prima volta sulla Terra. Uno scambio di battute fugace rivela che i dinosauri avevano in realtà fatto parte di un precedente tentativo dei Kaijū di colonizzare il pianeta, fallito a causa del clima terrestre inospitale. Tuttavia, il cambiamento climatico antropogenico ha ora reso il pianeta abitabile anche per loro.
È una narrazione assurda anche soltanto dal punto di vista matematico, figuriamoci da quello storico. I dinosauri sono esistiti per circa 165 milioni di anni e sono stati i vertebrati dominanti per 135 milioni; l’Homo sapiens si è differenziato dall’Homo erectus (o da un’altra specie intermedia) solo 350.000 anni fa, ed è quindi esistito per 1/400 del tempo dei dinosauri.
Questa incoerenza è piuttosto rilevante: allude al ritmo terrificante con cui gli esseri umani stanno trasformando l’atmosfera. Se prendiamo l’Antropocene più lungo, quello di Clark (1,6 milioni di anni), questo rappresenta comunque solo per l’1% degli anni in cui i dinosauri hanno scorrazzato per il pianeta. Se invece consideriamo il più breve (settant’anni), la percentuale diventa dello 0,0000042%.
Ma stavamo parlando di zombie.
Non tutti gli zombie muoiono con un colpo in testa, e alcuni non basano la loro dieta sui cervelli umani. In realtà, l’unico punto in comune a tutti gli zombie è che significano qualcosa. Il malinconico I morti non muoiono (2019) di Jim Jarmusch lo dice chiaro e tondo, senza sottigliezze: che si tratti di alienazione, consumismo, conformismo, ricchi, poveri, neri, bianchi, immigrati, nazionalisti, suprematisti bianchi o trumpiani, gli zombie sono tremendamente allegorici.
Ma a prescindere da tutti i loro altri possibili significati, in questo momento storico qualsiasi rappresentazione di una popolazione massiccia, in movimento e “indesiderata” non può non riferirsi ai rifugiati climatici, che secondo una stima saranno 250-500 milioni entro il 2050.
Questa necessità di mobilità umana all’interno del mondo interconnesso del capitalismo globale – e la resistenza a essa che si manifesta alle frontiere e in altre forme di violenza di Stato – viene ribadita per tutto World War Z: La guerra mondiale degli zombi (2006) di Max Brooks. Il romanzo raccoglie una serie di interviste a uomini e donne di tutto il mondo (ma soprattutto provenienti da Stati Uniti e Asia) che erano state ritenute troppo personali per essere incluse nel rapporto ufficiale dell’ONU riguardo le origini e la diffusione di un virus zombie e la conseguente guerra contro le orde dei morti viventi.
Il libro si apre vicino alla diga delle Tre Gole in Cina. Una notte, un bambino viene morso da qualcosa mentre si tuffa in acqua nella speranza di recuperare qualche oggetto di valore dai molti insediamenti evacuati e ora sommersi. Il medico tarda ad arrivare per colpa di una confusione sui nomi dei luoghi. Obbligati ad abbandonare Dachang per trasferirsi in un altro villaggio senza nome, gli abitanti avevano preso a chiamarlo informalmente Nuovo Dachang. Tuttavia, il paese originale era stato ricostruito mattone per mattone sopra il livello dell’acqua e trasformato in una destinazione turistica, una specie di “museo storico nazionale”, chiamato anch’esso, ma ufficialmente, Nuovo Dachang. Anche se non è chiaro se il ragazzo sia il paziente zero, il suo caso lega l’epidemia virale con il “nuovo Grande balzo in avanti” e con l’emarginazione a cui sono soggette le persone forzate a trasferirsi altrove da obiettivi di sviluppo come questi.
Questi siti di sradicamento e di esclusione giocano un ruolo chiave nelle strategie di lotta agli zombie. Un ex ufficiale ormai in pensione, tristemente famoso per aver ideato un piano per mantenere il potere bianco nel caso in cui i sudafricani neri si fossero sollevati contro il regime dell’apartheid, torna un’ultima volta al lavoro per realizzare uno schema simile, ma adattato alle nuove circostanze: abbandonare la maggioranza della popolazione, usare alcuni di loro come esca per distrarre gli zombie e infine trasportare pochi eletti in un luogo isolato e difeso da barricate, in cui aspettare la fine del mondo. Allo stesso modo, Israele annuncia un ritorno ai territori del ’67, ma solo perché è più facile costruire e rinforzare un muro di separazione attorno a un’area piccola; inoltre, in quello che forse è l’evento più fantastico del romanzo, estende ai palestinesi il diritto al ritorno. Come spiega un ex agente del Mossad nell’adattamento cinematografico di Marc Forster del 2013, la misura viene adottata perché “ogni essere umano che salviamo è uno zombie in meno da combattere” – anche se ovviamente, appena qualche secondo di islamofobia più tardi, una giovane hijabi prende un microfono per festeggiare la salvezza dei palestinesi, e il fischio del feedback attira le orde di zombie, che scalano il muro e invadono Gerusalemme.
Il romanzo sottolinea le interconnessioni globali attraverso cui il contagio si diffonde: il turismo, i viaggi internazionali, le spedizioni commerciali, il commercio di organi, il traffico di esseri umani. Come dice il film, “il virus si è diffuso grazie agli aeroporti”.
Ma la disumanità dei confini emerge soprattutto nei continui tentativi di fermare gli enormi flussi di popolazione che stanno investendo il mondo, mentre le persone fuggono non solo dagli zombie ma anche dagli ecosistemi distrutti da giacimenti di petrolio in fiamme, inverni nucleari e da tutte le altre catastrofi che hanno cambiato il clima. Il disastro è il pretesto per estendere la violenza di Stato, e l’emergenza ne è la giustificazione. Ma i rifugiati, respinti dalla minaccia delle armi, finiscono inevitabilmente a ingrossare le file degli zombie, per poi superare le postazioni difensive e spazzare via le frontiere.
Nel mondo reale, il cambiamento climatico non è riconosciuto come una causa di migrazione. Per esempio, la siccità del 1998-2012 nella Mezzaluna fertile del Mediterraneo orientale – la peggiore mai registrata in quella zona e indubbiamente esacerbata dalla destabilizzazione climatica antropogenica – non viene mai considerata ufficialmente una motivazione dei tentativi di migrazione verso l’Europa, o un fattore della guerra civile siriana.
Allo stesso modo, è improbabile che ai rifugiati climatici venga riconosciuto lo status di rifugiati. Piuttosto, saranno scaricati in categorie intermedie, così da negare loro la protezione speciale a cui avrebbero diritto. Saranno definiti richiedenti asilo e tenuti in centri di detenzione, anche per anni interi, mentre le loro richieste vengono elaborate senza alcuna garanzia di successo. Oppure saranno etichettati come immigrati illegali, lavoratori senza documenti e migranti economici; molti di loro potrebbero avere diritto allo status di rifugiati o all’asilo politico, ma saranno comprensibilmente restii a sottoporsi alla detenzione, soprattutto perché la percentuale di richieste che si concludono positivamente è diminuita significativamente dal 1990 in poi.
La maggior parte delle storie sugli zombie replica una delle due principali narrazioni colonialiste: pochi fortunati si riparano dietro delle mura mentre là fuori si ammassano orde selvagge, oppure, pochi coraggiosi intraprendono un viaggio pericoloso attraverso territori ostili. In entrambi i casi, il protagonista, se vuole sopravvivere, deve sviluppare una coscienza paranoica e diventare capace di uccidere chiunque senza battere ciglio, che sia un estraneo, un avversario nella lotta per le risorse, o qualcuno che, solo un attimo prima, era un amico, un alleato, una persona cara. Questa violenta monade di sopravvivenza, questa idea di umanità smorzata ed evacuata, non troppo diversa da quella dei morti viventi, si applica anche al soggetto neoliberale, ridotto a “un mero calcolo di interessi”: esattamente come il protagonista che cerca di sopravvivere, ma anche come lo zombie stesso.
Annie McClanahan, tuttavia, sostiene che la soggettività tipica dell’era neoliberale è molto diversa da quella descritta in gran parte della letteratura critica: non corrisponde alla soggettività dell’accademico borghese che scopre improvvisamente di essere sacrificabile agli occhi dell’università neoliberale. Né è quella della classe professionista-manageriale gettata nella precarietà da ristrutturazioni aziendali, delocalizzazioni, fusioni e acquisizioni predatorie, dalla volatilità finanziaria e dai debiti tossici, che alla fine accetta l’interpellazione althusseriana in nome di un “calcolo momento per momento dei guadagni e delle perdite, dei rischi e delle ricompense”. Piuttosto, questa soggettività neoliberale si trova tra i più emarginati: i sottoccupati e i disoccupati, i lavoratori poveri, le persone nere, indigene, immigrate, nonché tra la segregata, immagazzinata “popolazione in eccesso che il capitale cerca di contenere, non di valorizzare; di esportare, non di sfruttare; di annientare, non di considerare un buon investimento”.
La si trova tra i già morti.
In questo contesto, e a prescindere dalle altre possibili interpretazioni di ciascun esempio narrativo, le storie di zombie sono reazioni e anticipazioni disumanizzanti e mortalmente inospitali delle molteplici crisi antropogeniche collegate e sovrapposte che stanno già accadendo e che ci attendono.
Raccontano la gestione iperburocratizzata della nostra estinzione.
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