Siamo sempre più mitologici

ATTUALITÀ DEI MITI DI IERI – BARTHES E JESI

Nel dichiarare attuale un autore lontano nel tempo sorge sempre il sospetto di un raggiro, come se l’intenzione stessa ti annunciare la sua attualità nasconda la consapevolezza di rianimare un cadavere.

Parlando di un libro come Miti d’oggi, titolo italiano delle Mythologies di Roland Barthes, scritte tra il 1954 e il 1957 e arrivate in Italia nel 1974, il sospetto si fa forte anche della sbandierata contemporaneità del testo, contemporaneità di sessanta anni fa. Ma nel caso presente non trovo aggettivo migliore per invitare alla lettura di un lavoro che non smette di essere insieme completamente intelligibile e teoricamente imprescindibile a più di mezzo secolo dalla sua redazione.

Infatti possiamo intendere l’attualità in due sensi: il primo riguarda il rapporto del lettore contemporaneo con la lettera del testo, la quale si offre limpidamente alla sua comprensione, senza bisogno di introduzioni, note o conoscenze particolari; il secondo rimanda l’uso che oggi si può fare delle informazioni contenute in quel testo. Per le Mythologies sono veri entrambi e li esporrò in ordine.

1065px-Odin_(Manual_of_Mythology)Barthes scriveva nella Francia degli anni cinquanta, della Francia degli anni cinquanta. In una società pretelevisiva, i materiali sui quali lavorava erano articoli di giornale, film e talvolta romanzi. È naturale aspettarsi che la distanza temporale e geografica precluda quel mondo alla maggior parte dei lettori contemporanei. Invece non solo non succede, ma talvolta si verifica il contrario.


Ci sono nelle Mythologies altri casi fortunati di oggetti semiotici che sono arrivati pressoché inalterati ai giorni nostri: lo sciopero, i detersivi, l’astrologia, il vino, certe vigliaccherie retoriche dei critici.


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La lavagna magica di Einstein

È il caso delle due pagine sul cervello di Einstein che potrebbero essere state scritte ieri o forse domani. L’immagine che provoca il discorso del semiologo è il disegno di una famosa foto di Einstein che ritrae lo scienziato davanti alla formula E= mc2 scritta alla lavagna. Barthes avverte che nel passaggio tra la fotografia originale, che mostrava una lavagna ricoperta di calcoli matematici, e la sua riduzione grafica che riporta solo la formula, si attua la sintesi mitica: Einstein è lo scienziato-stregone che, in virtù della potenza sovrumana del suo cervello, decifra il mondo con un gesto che “è di essenza magica, è semplice come un corpo primordiale, come una sostanza principale, pietra filosofale degli ermetici, acqua di catrame di Berkeley, ossigeno di Shelling”. Chi non ha mai visto oggi, nel 2015, quell’immagine? Le immagini pervadono la nostra società molto più aggressivamente della Francia degli anni cinquanta nella quale si sporgevano solo dai quotidiani o dai magazine: noi abbiamo la televisione, noi abbiamo internet. Icone particolarmente resistenti, come quella di Einstein, sono più diffuse oggi di quanto non lo fossero sessanta anni fa, di conseguenza è più urgente farci i conti. Ci sono nelle Mythologies altri casi fortunati di oggetti semiotici che sono arrivati pressoché inalterati ai giorni nostri: lo sciopero, i detersivi, l’astrologia, il vino, certe vigliaccherie retoriche dei critici.

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Ecco la vera lavagna.

Ma ciò che davvero sorprende è la capacità di Barthes nel coinvolgerci in mondi alieni. Il catch, per esempio, antenato del wrestling, è uno sport-spettacolo familiare a pochi. La straordinaria prosa di Barthes ci restituisce i caratteri di lottatori che mai abbiamo sentito nominare, con un’oscillazione continua tra il particolare e l’universale, tra la descrizione dell’oggetto e la decifrazione dei suoi significati. Gli appassionati di ciclismo conosceranno la storia del Tour de France; io che non me ne sono mai interessato, a malapena so chi era Fausto Coppi. Eppure ho difficoltà a trattenere il riso ogni volta che rileggo Il Tour de France come epopea. Con un solo movimento, la scrittura di Barthes costruisce e decostruisce l’oggetto semiotico, lo mostra e lo svela, prende il lettore per mano e gli indica una cosa mentre la spiega. Così, per esempio, della rivalità tra i ciclisti :


Hugo Koblet (1956)
Hugo Koblet (1956)

“Questi screzi omerici hanno per contropartita gli elogi che i grandi si rivolgono l’un l’altro al di sopra della folla. Bobet dice a Koblet: “ti rimpiango”, e questa parola delinea da sola l’universo epico in cui il nemico non è tale se non in proporzione alla stima che gli si concede”.

Così riguardo lo scatto che:
“implica un ordine soprannaturale in cui l’uomo riesce in quanto ci sia un dio ad aiutarlo […]; egli riceve la sua elettricità da un intermittente commercio con gli dei; a volte gli dei lo visitano e lui fa strabiliare; a volte gli dei lo abbandonano, lo scatto è esaurito, Charly non è più buono a niente”

E viceversa il doping:

“una terribile parodia dello scatto, la “bomba”; drogare il corridore è tanto criminale, tanto sacrilego quanto voler imitare Dio; è rubare a dio il privilegio della scintilla. In questi casi Dio sa vendicarsi: lo sa il povero Malléjac che una “bomba” provocatoria ha condotto alle soglie della follia (punizione per il furto del fuoco)”.

Tour de France. Louison Bobet (Frankrijk) *4 juli 1951
Louison Bobet (1951)

I linguaggi presi di mira da Barthes ci diventano familiari proprio nel momento in cui sono trattati dal tocco ironico e demistificante dell’autore che, nelle sue parole, vive le contraddizioni del suo tempo in cui “un sarcasmo può fare la condizione di verità”.

Vediamo quindi più da vicino il meccanismo generale che adopera Barthes per decifrare i miti e l’uso che possiamo farne noi, cioè il secondo senso in cui si dà l’attualità di Miti d’oggi.
Nel capitolo “Il mito, oggi” che chiude la raccolta, Barthes si propone di dare una forma teorica, financo schematica, alla semiologia del mito. In seguito, minimizzerà l’ambizione metodologica che lo aveva colto nella stesura di questo testo, descrivendola quasi come una sbronza teorica dovuta all’aver “appena letto Saussure”. Come rilevò Umberto Eco in una conferenza del 1984 che apre l’edizione Einaudi dei Miti d’Oggi, Barthes non era un autore sistematico. A differenza di Greimas, considerato tra i padri della semiotica, non è quel tipo di maestro “che spende la vita a costruire modelli, teorici o sperimentali, da applicare” che i suoi allievi saranno chiamati a perfezionare. Piuttosto, gli allievi di un maestro come Barthes che “lavora offrendo la sua vita e la sua attività come modello” sono chiamati a una “continua e impossibile imitatio magistri”.
“Il mito, oggi” è una delle poche proposte metodologiche scritte da Barthes e gli si riconoscono i vizi strutturali di un autore che non ha mai ragionato per sistemi.
Ma se l’ipotesi Barthesiana ha inciso poco nella storia della semiologia, non credo si possa dire lo stesso riguardo alla storia della scienza del mito.

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Miti moderni I, Nike.

Un anno prima dell’uscita dell’edizione italiana di Miti d’Oggi, Furio Jesi diede alle stampe un saggio intitolato Mito. Archeologo, storico, critico letterario, germanista e filosofo, Jesi come Barthes non era solito adottare una cornice sistematica nei suoi lavori e Mito è l’unica eccezione che presenta un tentativo in questo senso: un’analisi cronologica dei punti di vista sul mito e sulla mitologia.
Per Jesi e per gli autori che affronta (da Platone a Jung, passando per Vico, fino ad arrivare ai mitologi propriamente detti: Eliade, Kerenyi, Otto, Levi-Strauss) il mito è sì un linguaggio, come sostiene Barthes, ma la sua sostanza è inaccessibile e si può parlare solamente di mitologie perché il mito in flagranti si sottrae al nostro sguardo. Del mito è difficile parlare perché la sua essenza si suppone abbia luogo in un’esperienza epifanica della quale ci giunge solo l’eco in materiali mitologici dalle molte forme (racconti, dipinti, sculture, persino danze). Soprattutto va sottolineato che il minimo comune denominatore che Jesi riesce a rintracciare nei materiali mitologici consiste nel loro raccontare storie “intorno a dèi, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà”; una definizione presa in prestito a Platone che per Jesi rimane il modello più affidabile per riconoscere una mitologia.

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Miti moderni II, la Sirena.

Qui Roland Barthes compie una vera rivoluzione copernicana affermando che “la nostra società è il campo privilegiato delle significazioni mitiche”. L’essenza del mito non va ricercata in un’esperienza, forse metafisica, accessibile solo agli antichi greci che possiamo appena intravedere nelle produzioni discorsive più moderne che ripropongono contenuti simili: dei, eroi, regni dell’aldilà. Barthes risolve completamente il mito nel linguaggio: il mito è una parola, il mito è un’inflessione della parola, il mito è un sistema semiologico che deforma le lingue naturali. E, poiché nessuna società è stata tanto attraversata dai linguaggi come quella contemporanea (e soprattutto da quel linguaggio particolarmente imperativo che sono le immagini), è intorno a noi che il mito si dispiega in tutta la sua forza, onnipresente e inaggirabile.


L’essenza del mito non va ricercata in un’esperienza, forse metafisica, accessibile solo agli antichi greci che possiamo appena intravedere nelle produzioni discorsive più moderne che ripropongono contenuti simili: dei, eroi, regni dell’aldilà.


Furio Jesi non ha mai scritto di Roland Barthes, neppure in Mito nel quale, però, lo cita in bibliografia. Non è peregrino supporre che “Cultura di destra”, ultimo lavoro di Jesi redatto negli anni immediatamente successivi a Mito e pubblicato nel 1978, è stato scritto sotto l’influenza del rovesciamento operato da Barthes nella definizione di mito. Infatti è il primo testo in cui Jesi fa i conti con la cultura di massa, analizzando allo stesso titolo le poesie di Rilke e i romanzi di Liala, i discorsi dei gerarchi nazisti e l’infomercial di un vino portoghese.

Se in Mito Jesi rilevava che:

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Miti moderni III, Hermes.

“Le parole “mito” e “mitologia” sono di origine greca, ma vengono usate per designare qualcosa di non necessariamente greco. Si parla di mitologia classica e di mitologia maya, di mito di Prometeo e di mito di Napoleone, di mito del superuomo, di mito della società giusta, ecc. Alcune di queste accezioni si riferiscono direttamente alla Grecia antica, altre non paiono riferirvisi se non di lontano, di riflesso, nella misura in cui le parole “mito” e “mitologia” – in qualunque contesto si trovino – ci fanno innanzitutto pensare al mito e alla mitologia della Grecia (anzi, alla mitologia “greco-romana”, e forse più ad Ercole che ad Eracle, più a Giove che a Zeus)”.

Rimaneva però scettico sulla possibilità di, per così dire, fare a meno della Grecia, di permettere una gr-exit filosofica nella comprensione del mito. Ed era del resto in buona compagnia, solidale con la totalità dei pensatori che ha passato in rassegna, tutti uniti nel visualizzare il mito sempre con le fattezze di un archetipo eterno, composto tramite le suggestioni di religioni antichissime, forse primordiali.

In “Cultura di destra”, invece, l’analisi esclusivamente linguistica dei testi lo porta a includere nel linguaggio mitico anche quei materiali studiati da Barthes, distintivi della società contemporanea, scoprendovi assonanze significative con il vaniloquio dei maestri della Tradizione e il repertorio classico della letteratura reazionaria. E non è casuale che entrambi gli autori giungano alla medesima conclusione politica: la destra è il luogo privilegiato del discorso mitico. Infatti per Barthes il mito è costitutivamente reazionario perché è la parola che trasforma la Storia in Natura, occultando e deformando i reali rapporti sociali, contrapponendosi frontalmente ad ogni analisi storico-materialista della realtà. Il mito, che ha un intento politico, si presenta come parola depoliticizzata, si impone con la forza della tautologia: la vita è la vita, l’arte è l’arte, il mondo è il mondo. È il gesto ricorrente dell’ideologia dominante, come già sottolineava Marx: presentare lo stato di cose presente come l’unico possibile, l’assetto naturale dell’essere, non lo stadio attuale di un processo storico. Allo stesso modo Jesi sostiene che nella cultura di destra il passato è “una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile” e il linguaggio mitico delle parole con la lettera maiuscola (Tradizione, Cultura, Nazione e via dicendo) permette l’evocazione di una Storia privata della storia. . Tali parole si comportano come le tautologie di Barthes, sono opache e assolute, non si possono capire ma si possono sentire (nel duplice senso che il termine ha in italiano). Ogni tentativo di comprensione, e di rivoluzione, della realtà viene ricondotto all’ordine da una strategia retorica, quella del mito, che strutturalmente fiancheggia l’attitudine conservatrice: il mondo è questo, dice il mito, ed è sempre stato così.

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Si trova cose strane googlando MITO.
Si trova cose strane googlando MITO.

Le analogie tra le due prospettive teoriche ci aprono gli occhi su un’interpretazione del mito che è allo stesso tempo radicalmente politica e ben piantata nella contemporaneità. Infatti, come ho già anticipato, se il mondo di Barthes (o di Jesi) era “il campo privilegiato delle significazioni mitiche”, nonostante lo sviluppo dei mass-media fosse appena iniziato, lo stesso possiamo dire circa il nostro mondo che fonda la sua stessa esistenza nell’ordine simbolico in cui, incessantemente, le immagini imitano i discorsi e i discorsi imitano le immagini.

di ALESSANDRO LOLLI


Alessandro Lolli nasce a Roma nel 1989. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, Polinice, Soft Revolution Zine, Crampi Sportivi e DUDE MAG. È laureato in filosofia. A tempo perso lavora in un centro scommesse sportive.
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