Simonetta Vespucci, la top model del Rinascimento

Questo brano è tratto da “Forse non tutti sanno che a Firenze…”, di Francesco D'Isa e Matteo Salimbeni. Si ringrazia Newton Compton per la gentile concessione.


Sandro_Botticelli_049L’abitudine porta con sé due inganni: l’illusione che sia tutto uguale e l’illusione che sia tutto diverso. Per chi vive in un’epoca in cui la bellezza femminile è rappresentata – dunque dettata – dall’immagine di celebri indossatrici di moda, può sembrare strano che anche cinquecento anni fa l’immagine di una donna abbia imposto il canone di un’epoca, eppure è così. La donna in questione è Simonetta Vespucci, moglie di un cugino alla lontana di Amerigo Vespucci, modella e musa di Botticelli e Piero di Cosimo, una donna alla cui bellezza tra il 1475 e il 1515 viene dedicata l’opera di più di tredici poeti, tra cui Angelo Poliziano e Lorenzo de’ Medici.

Ovviamente ci sono differenze sostanziali; prima della nascita di fotografia, riviste, televisione, computer e internet l’immagine di una modella non era in grado di invadere paesi e metropoli con la sua proposta di bellezza. La responsabilità della scelta, inoltre, non spettava alle multinazionali dell’abbigliamento, ma agli artisti e ai politici che rappresentavano l’immagine del potere.
Chi per primo ha indossato un oggetto con una valenza simbolica ha creato la moda; non è possibile una datazione certa ma è probabile che sia accaduto almeno diciottomila anni fa. Da allora si sono susseguiti notevoli cambiamenti, il più recente dei quali in seguito alla Rivoluzione industriale; eppure l’abbigliamento, e con esso la moda, mantiene intatto la sua utopia: invertire il celebre proverbio «l’abito non fa il monaco».


Chi per primo ha indossato un oggetto con una valenza simbolica ha creato la moda; non è possibile una datazione certa ma è probabile che sia accaduto almeno diciottomila anni fa.


È sempre esistito chi è pronto a sfidare con i propri abiti l’ordine e la morale di un’epoca, e per quanto si tratti di un attacco mille volte più debole di una rivolta politica o culturale, in passato i potenti sono decisamente meno tolleranti (e meno strategici), tanto che già in epoca romana esistono le leggi suntuarie, che limitano il lusso nella moda maschile e femminile. A Firenze delle leggi analoghe sono in vigore sin dal 1330; il 19 ottobre 1546 si pubblica un editto «sopra gli ornamenti et abiti degli uomini e delle donne» e il 4 dicembre 1562 «sopra il vestire abiti et ornamenti delle donne ed uomini della città di Firenze», redatto da Cosimo i de’ Medici per moderare gli eccessi del lusso. Le cause di questi atti sono per lo più economiche, perché tali leggi vietano gli abiti troppo costosi o di importazione estera, ma anche certi abbigliamenti “osceni” sono proibiti. Un divieto che non colpisce solo le scollature; anche la moda maschile viene severamente regolamentata, come dimostra la messa al bando dei pantaloni corti da uomo venuti di moda alla fine del Quattrocento, perché mostrano le mutande e mettono in rilievo i genitali. Nell’osservare questi mutandoni ci si potrebbe domandare come sia possibile rischiare una multa o addirittura l’esilio pur di indossarli, ma basterà tornare un istante alla contemporaneità per ricordarsi come anche oggi molte persone sono disposte a tutto pur di indossare abiti di dubbio gusto, ma di moda.
Portrait_of_Antoine_de_RivarolLe leggi suntuarie comunque non funzionano e, come spesso accade con le norme proibizioniste, ottengono il risultato opposto. È emblematico il caso della Francia del 1789, alla vigilia della rivoluzione, quando i borghesi si presentano all’apertura degli Stati generali in abito nero e cravatta bianca, una divisa che viene loro imposta per umiliarli in confronto allo sfarzo dell’aristocrazia. È facile immaginare, se si guarda la moda contemporanea, che il contrasto provocò l’effetto opposto e questi semplici abiti si trasformarono nel simbolo dei nuovi ideali. In seguito, raggiunto e consolidato il potere da parte della nuova classe, la ruota dei simboli compie un altro giro e questi indumenti vengono a designare la classe dominante. In ogni modo perché la moda diventi un costume condiviso bisogna aspettare la seconda metà dell’ottocento, quando l’invenzione di macchine per tagliare le pezze di tessuto e del telaio meccanico permette la produzione di vestiti complessi in grande quantità. Con l’aumentata disponibilità, gli abiti fanno sempre meno il monaco, per tornare al vecchio adagio; eppure l’idea che uno specifico modo di apparire sia in grado di aprire le porte del potere illude ancora le masse, tanto da facilitare il fiorire dell’industria della moda e la nascita di una nuova classe dominante, che detta i gusti della maggioranza secondo la propria utilità e capriccio. «Una questione interessantissima», scrive Henry David Thoreau in Walden, «è quella di sapere fino a che punto gli uomini conserverebbero i loro ruoli nella gerarchia se non avessero i vestiti». Interessante, è vero, ma un po’ fuori tema, considerato che si parlava della top-model del Rinascimento.


«Una questione interessantissima», scrive Henry David Thoreau in Walden, «è quella di sapere fino a che punto gli uomini conserverebbero i loro ruoli nella gerarchia se non avessero i vestiti»


Schermata 2015-11-17 alle 14.39.28Il modo in cui la “bella di Firenze” ha influenzato il gusto dell’epoca, comunque, presenta delle peculiarità altrettanto interessanti, che per certi versi l’avvicinano e per altri allontanano dalla contemporanea figura dell’indossatrice. L’immagine di questa donna infatti, per lo meno come ci viene presentata da poeti e pittori, è, per citare Simonetta Vespucci di Giovanna Lazzi e Paola Ventrone:

[…] una vera e propria “invenzione” pensata per esprimere un’idea non meramente estetica ma filosofica e politica insieme, e per rappresentare, proprio come una sintesi iconica, la elitaria cultura neoplatonica coltivata e maturata nella Firenze laurenziana degli anni settanta e ottanta: quella stessa cultura che la congiura dei Pazzi (1478) rese repentinamente e tragicamente obsoleta nel volgere di breve tempo.

Prima di parlare dell’icona però, è bene introdurre la persona. Nei registri del catasto di Firenze del 1469-1470 si legge di «Marco di Piero di Giuliano Vespucci età d’anni xvi», il futuro marito, e «Simonetta di messer Guasparri Catani sua donna d’anni xvi», dunque la dama nasce probabilmente nel 1453. Quanto al luogo, secondo le Stanze del Poliziano si direbbe in Liguria, «[…] mia natal patria è nella aspra Liguria, / sovra una costa alla riva marittima, / ove fuor de’ gran massi indarno gemere / si sente il fer Nettunno e irato fremere», probabilmente a Portovenere, nomen omen, almeno se si vuole seguire l’interpretazione che Farina e Carrai danno dell’espressione «nacqui in grembo a Venere», sempre nelle Stanze. Sulla famiglia si sa qualcosa di più: il padre è Gaspare Cattaneo, nominato due volte “anziano” nella Repubblica genovese; la madre Caterina Violante Spinola di Obizzo, vedova di Battista Campofregoso, doge di Genova nel 1437. Dopo l’esilio di Campofregoso nel 1457, la famiglia di Simonetta è costretta ad abbandonare la Repubblica marinara e trovare rifugio a Piombino, in Toscana, il cui signore è Jacopo iii Appiani, marito della sorellastra di Simonetta: Battistina Campofregoso. Non si sa nulla della vita di Simonetta a Piombino, se non che Jacopo III garantisce una dote per il matrimonio con Marco Vespucci, figlio di Piero Vespucci, mercante di successo e ambasciatore dei Medici a Piombino.

1400,_Italian._-_057_-_Costumes_of_All_Nations_(1882)Sulla vita della fanciulla a Firenze si sa ancora meno, perché le prime notizie sono in forma poetica e non è dunque facile stabilire quanto siano veritiere, sia per quel che riguarda la vita privata che l’aspetto fisico; da qui in poi la vita di Simonetta coincide col suo romanzo. Le ultime notizie accertate riguardano la tragica morte, perché, com’è ovvio per ogni icona, la ragazza ha vita breve e nessuno ne vedrà sfiorire la bellezza: Simonetta muore di tisi il 26 aprile 1476, all’età di soli ventitré anni. Sulla malattia abbiamo testimonianza delle lettere di Piero Vespucci al Magnifico: la prima, datata 18 aprile 1476, dove lo informa che «la Simonetta si sta quasi nelli medesimi termini che quando voi partisti», nella seconda invece, di due giorni dopo, Piero ringrazia il signore per aver mandato un suo medico, «maestro Stefano», e dice che la ragazza sta meglio. La speranza però dura poco e il 27 aprile l’agente di Lorenzo, Sforza Bettini, lo informa della morte della giovane, avvenuta il giorno prima. A questo punto leggenda e cronaca sono indistricabili, perché i resoconti che abbiamo provengono dallo stesso Magnifico, che narra come al funerale di Simonetta tutta Firenze piangesse la bellezza della donna. Il rampollo mediceo scrive in suo onore persino un sonetto:

O chiara stella, che co’ raggi tuoi togli alle tue vicine stelle il lume, perché splendi assai più del tuo costume? Perché con Febo ancor contender vuoi? Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi Morte crudel, ch’omai troppo presume, accolti hai in te: adorna del lor lume, il suo bel carro a Febo chieder puoi. O questa o nuova stella che tu sia, che di splendor novello adorni il cielo, chiamata esaudi, o nume, e voti nostri: leva dello splendor tuo tanto via, che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo, sanza altra offension lieta ti mostri.

5.1.3

Oltre alla tragica morte concorre alla creazione della leggenda un altro indispensabile ingrediente, quello della struggente storia d’amore: a fornirlo ci penserà Angelo Poliziano. Il 29 gennaio 1475 infatti, Lorenzo il Magnifico indice un torneo a Firenze, per celebrare l’accordo di pace stretto l’anno prima con varie potenze italiane, che sarà vinto da suo fratello minore, Giuliano. Poliziano dedicherà un poemetto (rimasto incompiuto) alla sua vittoria; proprio in questo testo si gettano le basi per una probabile liaison d’amore tra Simonetta e Giuliano, la cui veridicità non è mai stata accertata.
La trama in breve è la seguente: Giuliano è un giovane bello e coraggioso, disprezza l’amore dedicandosi ad attività più nobili come ginnastica, caccia e poesia. A Cupido la cosa non piace e fa apparire una splendida cerva durante una battuta di caccia; Giuliano la insegue finché questa non si tramuta in una ninfa, Simonetta, di cui l’uomo si innamora perdutamente. Ecco come appare la fanciulla:

Candida è ella, e candida la vesta,
Ma pur di rose e fior dipinta e d’erba;
Lo inanellato crin dell’aurea testa.
Scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
E quanto può suo cure disacerba;
Nell’atto regalmente è mansueta,
E pur col ciglio le tempeste acqueta.

Una descrizione che ricorda la Primavera di Botticelli; d’altra parte la prima delle Grazie danzanti ritratte nella parte sinistra del quadro prende spunto proprio da Simonetta, mentre il Mercurio al suo fianco, ritratto nell’atto di scacciare le nubi, ha le sembianze di Giuliano de’ Medici. Poco più avanti, nel poema del Poliziano, Simonetta viene paragonata a una dea:

Sembra Talía, se in man prende la cetra,
Sembra Minerva se in man prende l’asta;
Se l’arco ha in mano, al fianco la faretra,
Giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s’arretra,
E poco, avanti a lei, Superbia basta;
Ogni dolce virtù l’è in compagnia,
Biltà, la mostra a dito e Leggiadria.

Anche in questo caso torna in mente Botticelli, che a differenza del poeta non si limita a paragonare Simonetta a una divinità, ma la ritrae come tale, nel suo celeberrimo dipinto La nascita di Venere, dove Simonetta veste i panni di Venere in persona. Per chi avesse ancora dubbi sulla bellezza di questa donna, citeremo anche questi versi, sempre di Poliziano: «Tanti cuori Amor piglia, fere, e ancide. / Quanto еlla o dolce parla, o dolce ride».

Nelle parti che seguono Cupido corre a vantarsi dalla madre, ma la dea pretende che l’amore di Giuliano sia ricambiato, a patto che dimostri il suo valore combattendo al torneo. È Cupido stesso a comunicare la decisione al giovane, ma evidentemente non lo ha in simpatia, perché approfitta dell’occasione per preannunciare anche la morte dell’amata. Il poema si interrompe mentre Giuliano, innamorato e presumibilmente frustrato per via dell’oracolo, si appresta a gareggiare.


L’idealizzazione della figura femminile, prima come dama e in seguito come ninfa, non ha nulla a che vedere con l’emancipazione della donna, ma rimane un gesto puramente letterario e allegorico. Simonetta è una pedina in mano ai poeti, così come una modella lo è nelle mani degli stilisti.


Questo non è che un cenno sulla figura di Simonetta come viene celebrata nelle poesie, ma il tono delle altre opere è facilmente immaginabile. È però necessario notare la differenza tra quel che la figura femminile rappresenta simbolicamente e quel che è nel quotidiano. Nella vita reale infatti, le coeve di Simonetta devono coincidere con l’immagine di una donna sottomessa al padre e al marito, dedita alla cura della famiglia e della casa, devota e pudica. Per le più fortunate il destino è il matrimonio o il convento, una decisione che spetta al capofamiglia, in base a esigenze finanziarie e politiche. Sempre in Simonetta Vespucci, Giovanna Lazzi e Paola Ventrone scrivono che:

L’idealizzazione letteraria dei rapporti fra i due sessi, che era stata elaborata nella cerchia degli intellettuali e dei poeti laurenziani, non era sufficiente a rendere accettabili comportamenti considerati, di fatto, immorali, indipendentemente dalla provenienza sociale dei soggetti che li assumevano, perché quei comportamenti venivano, per allora, ancora notati e commentati in termini negativi.

Insomma, l’idealizzazione della figura femminile, prima come dama e in seguito come ninfa, non ha nulla a che vedere con l’emancipazione della donna, ma rimane un gesto puramente letterario e allegorico. Simonetta è una pedina in mano ai poeti, così come una modella lo è nelle mani degli stilisti. Il gioco dove si muovono cambia, ma alla fine dei conti lo scopo resta identico: acquisire o consolidare il potere. Anche i metodi presentano delle analogie; per una maison di abbigliamento la strada è dettare la moda per ottenere prestigio e denaro, mentre per i signori del Rinascimento è confermare la propria visione filosofica. Possono apparire come due mete diverse, ma puntano entrambe allo stesso vertice, ovvero dettare il modo di vedere il mondo di un’epoca, e, di conseguenza, creare il mondo a propria immagine e somiglianza.

Botticelli-primavera_crop_SimonettaLa bella “vespuccia” diventa dunque “miss neoplatonismo” solo perché la corrente culturale delle élite della Firenze di Lorenzo il Magnifico si ispira a queste conoscenze ermetiche, destinate a pochi e trasmesse attraverso allegorie nascoste, come nei quadri di Botticelli e le poesie di Poliziano. All’interno di questa visione del mondo – in termini molto semplicistici – l’oggetto del desiderio (rappresentato da una donna) viene divinizzato (la donna diventa ninfa), perché il modello di uomo perfetto (in questo caso Giuliano) coincide con colui che riesce a superare la vita sensuale (l’amore) e civile (il torneo), in favore di una forma più elevata di vita, quella contemplativa (l’amore per la divinità). Non potendo raggiungere l’ineffabile trascendenza del divino, l’uomo contemplativo dovrà accontentarsi della visione dell’immagine della dea: non Venere dunque, ma una sua ninfa. Una linea che ricorda quella del successivo Giordano Bruno degli Eroici furori, soprattutto nella sua interpretazione del mito del cacciatore Atteone, che, dopo aver visto la nudità di Diana mentre fa il bagno, viene trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani.

Per Bruno,

[…] a nessun pare possibile de vedere il sole, l’universale Apolline e luce absoluta per specie suprema ed eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose […] Rarissimi, dico, son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda, e dovenir a tale che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemino splendor de divina bontà e bellezza, vegnano trasformati in cervio, per quanto non siano più cacciatori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie di venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina ed universale viene talmente ad apprendere che resta necessariamente ancora compreso, assorbito, unito.

Ma con tutto questo Simonetta non ha nulla a che fare. La sua unica “fortuna” infatti, è di essere una ragazza carina che muore molto giovane, due tratti perfetti per divenire l’icona dell’incorporea concretezza di un’idea. Poeti e pittori ne hanno celebrato la bellezza e le doti straordinarie, un’intera epoca l’ha eletta a simbolo vivente della perfezione, in mille si sono innamorati di lei, alcuni persino senza averla mai vista. Di questo potere però Simonetta è stata più vittima che beneficiaria, non tanto perché ne abbia sofferto, ma perché nonostante la fama di lei – della vera lei – non è rimasto nulla. L’unico frammento della sua voce è una lettera del 21 marzo 1473, tra Luigi Pulci e Lorenzo, in cui il poeta, riferendo la notizia dell’avvelenamento di Jacopo iii, di Battistina e dei suoi cortigiani, annota che: «La Simonetta dice, è più septimane gli fu detto la sua sorella era morto di questo, et come tutti morrebbono sanza manco, chè haveano beuto». Nulla di interessante, solo la conferma a una notizia dell’epoca, che non ci informa nemmeno di come la donna abbia preso la morte improvvisa della sorella e dell’ex benefattore. Simonetta è un’ombra, inventata dagli artisti e proiettata da una ragazza, di cui, come di milioni di altre, non si sa né saprà mai nulla.

forse-non-tutti-sanno-che-a-firenze_7115_di Francesco D'Isa e Matteo Salimbeni, da Forse non tutti sanno che a Firenze… Newton Compton, 2015.

Immagini: (c) Wikimedia, Newton Compton. La modella accanto a Simonetta è Jaslene Gonzales per Kevin Sinclair. I quadri sono di Sandro Botticelli e il tizio del '700 è Antoin de Rivarol.