Dall’artista ribelle alla sacerdotessa della musica: il viaggio di Sinéad O’Connor.
In copertina: Isolated Being, Louis le Brocquy, Collection & image © Hugh Lane Gallery. Donated by P.J. Carroll & Co. Ltd. through the Contemporary Irish Art Society, 1962. © The Estate of Louis le Brocquy.
Questo testo è estratto da “Rock’n’Soul, Storie di Musica e Spiritualità” di Noemi Sarracini. Ringraziamo l’autrice, la casa editrice Arcana e il festival Popsophia, dove Serracini ha parlato di Sinéad O’Connor nel 2021, tema ripreso a Rocksophia nel 2023.
di Noemi Serracini
Non esiste niente che racconti Sinéad O’Connor, o che le renda giustizia più della sua musica e delle sue interpretazioni. Del resto, l’artista stessa afferma: «quello che devo dire lo dico nelle canzoni». Spesso la stampa internazionale, alla ricerca del sensazionalismo, ha speculato sulle sue dichiarazioni scomode, sui suoi gesti estremi, provocatori e discutibili. Uno su tutti il famigerato episodio della fotografia del papa da lei strappata sul finale di un’esibizione in diretta tv al Saturday Night Live (1992) al grido di: «Noi confidiamo nella vittoria del bene sul male. Combatti il vero nemico!». Gesto emblematico di protesta contro gli abusi della chiesa cattolica, rispetto alla quale ha sempre nutrito una certa ostilità, soprattutto per la posizione di ingerenza e di oppressione che ha giocato nel suo paese di origine, l’Irlanda. Non si può negare che i suoi atteggiamenti, a volte ingenui, altre impulsivi, ne abbiano minato il percorso artistico. Persino la scelta coraggiosa di mostrarsi con la testa rasata è stata oggetto di scherno, di osservazioni infelici e fuori luogo in più occasioni. Con le sue affermazioni, le prese di posizione e il rifiuto dei compromessi in certi contesti – come quello di non lasciar cantare l’inno nazionale americano prima di un suo concerto al Garden State Arts Center, New Jersey – si è esposta a forti giudizi da parte del mondo circostante, al punto che il sistema musicale, di cui tanto desiderava far parte, le si è ritorto contro. […]
Nonostante i detrattori, Sinéad non si mai è scoraggiata, ha fornito spiegazioni, risposto a tono, ritrattato posizioni, taciuto. Tra mille difficoltà ha tirato dritto per la sua strada, trovando la forza di non arrendersi nei momenti più disperati grazie anche alla sua profonda spiritualità e a una spiccata fede nel divino, che l’ha salvata più di una volta.
Sinéad Marie Bernadette O’ Connor nasce l’8 dicembre 1966, terza di quattro figli. A partire da questa data di nascita e dal nome, vale la pena soffermarsi sulle parole del traduttore Antonio Vivaldi: «Nascere il giorno dell’Immacolata Concezione e venire battezzata Sinéad Marie Bernadette è, anche per chi a certe cose non crede, un segno del destino. In quei tre nomi c’è già, infatti, tutta la Sinéad O’Connor degli anni a venire: la riaffermazione della diversità gaelica, l’aspirazione a un’impossibile purezza virginale, la trasfigurazione visionaria delle proprie vicende personali». E, forse, anche qualcosa di più.
Il padre di Sinéad, John, è un ingegnere votato alla legge, la madre Marie è una sarta; si sono sposati giovanissimi e sono scontenti del loro matrimonio. Se solo l’Irlanda fosse stato un paese meno oppressivo e favorevole al divorzio, gli O’Connor si sarebbero risparmiati molte delle sofferenze di quegli anni, dovute soprattutto all’infelicità di entrambi i coniugi, stipati in una relazione senza speranze. La forzata convivenza, unita a un’adesione materna quasi ossessiva al cattolicesimo incide inevitabilmente sull’atmosfera famigliare soffocante, a tratti violenta. Finalmente nel 1975 Marie e John riescono a separarsi e la piccola Sinéad trascorre i primi anni della separazione dei genitori con la madre. Il loro è un rapporto complicato: l’artista ricorda quella fase come un periodo buio, durante il quale subisce gravi maltrattamenti da parte di Marie, profondamente instabile e infelice, anche perché impossibilitata a rifarsi una vera vita. Soltanto in seguito sarà considerata dalla figlia stessa una vittima del sistema sociale irlandese. Dopo cinque anni di tormenti, violenze e frustrazioni dovute al rapporto con la mamma, la giovanissima Sinéad si stabilisce dal padre e dirada sempre di più gli incontri con lei. Le esperienze dell’infanzia, il complicato e sofferto rapporto materno, incidono in modo indelebile sulla sua personalità, sulle scelte e sulla sua musica. Durante l’adolescenza manifesta atteggiamenti difficili e comportamenti a rischio (piccoli furti, troppe assenze scolastiche). Preoccupato John compie alcuni tentativi presso diverse strutture di recupero per contenere la vivacità della figlia. Nella speranza diventi più disciplinata arriva a farla stabilire alla Newton School di Waterford. Per Sinéad sono anni complicati, ma fondamentali, durante i quali si rende conto di trovare conforto nel suonare e si forma in lei una vera coscienza musicale. Un’insegnante, riconoscendole un grande talento, le chiede di cantare al suo matrimonio, fornendo l’occasione per l’incontro con il fratello Paul Byrne, batterista degli In Tua Nua. Con questo gruppo ha inizio l’avventura di O’Connor nel mondo della musica. L’artista contribuisce al loro primo singolo, Take My Hand, e per qualche tempo collabora con la band. Vedendola appassionata e motivata il padre la incita a studiare musica, così per un breve periodo Sinéad frequenta il College of Music di Dublino. Nell’estate 1984 inizia la parentesi nei Ton Ton Macoute, grazie ai quali entra in contatto col fondatore dell’etichetta Ensign Records, Nigel Grainge. Colpito dalla presenza scenica e dall’intensità di Sinéad, oltre che dalla sua audacia, Grainge decide di darle un’occasione. Di lì a poco O’Connor volerà a Londra per tentare la carta della carriera discografica da solista e, proprio con la Ensign Records, ottiene il suo primo contratto.
Nel suo bagaglio ci sono già alcuni dei brani del primo disco che dedicherà alla madre, Marie O’Connor, scomparsa nel 1985 a causa di un incidente stradale. L’accaduto sconvolge non poco Sinéad, la induce a fare riflessioni importanti sul suo vissuto, a guardare con altri occhi la figura materna, fino a tornare a sentirne la presenza quasi palpabile al suo fianco. La morte della madre la riavvicina alla fede religiosa e rappresenta una spinta ulteriore a lasciare l’Irlanda.
Gli anni in Inghilterra si rivelano fondamentali anche per gli incontri: quello con il discusso manager Fachtna O’Ceallaigh, che decide di credere ciecamente in Sinéad, nel suo potenziale artistico e l’incontro con il futuro marito e padre di suo figlio John Reynolds, reclutato in qualità di batterista per l’album di esordio. In breve, la vita si stravolge. Durante i primi tempi della relazione con Reynolds resta incinta. Nonostante qualche tentativo da parte dell’entourage discografico e dello stesso John di indurla a considerare l’aborto decide di tenere il bambino.
Sinéad registra la versione definitiva del disco durante gli ultimi mesi di gravidanza, e a soli 21 anni si trova a dare alla luce il suo primo album The Lion And The Cobra (1987) e il primo figlio, Jake Reynolds. Il disco, considerato dalla critica un esordio fulminante, mette subito al centro i temi principali della poetica dell’artista legati alla religiosità, ai tormenti derivati dalla sua infanzia, alla sua intima e nuda sofferenza. Il pezzo di apertura, Jakie, è un canto sulla perdita, etereo e allo stesso tempo terreno, su cui si innesta qualcosa di poeticamente spettrale ed epico: Sailed the seas for a hundred years / Leaving me all alone / And I’ve been dead for twenty years / I’ve been washing the sand / With my ghostly tears / Searching the shores for my Jackie-oh (Ha solcato i mari per cento anni / lasciandomi sola / E sono morta da vent’anni / Ho bagnato la sabbia / Con le mie lacrime di fantasma / Lungo ogni spiaggia in cerca del mio Jackie). Ciò che contribuisce a conferire una dimensione mistica a quasi tutta la sua produzione è senza dubbio l’interpretazione dei brani, la loro esecuzione. O’Connor non può lasciare indifferenti, è capace di toccare nel profondo chi l’ascolta, di rendere la musica uno spazio sacro. Alla fine di una sua esibizione «il pubblico deve sentirsi come dopo essere stato in chiesa». L’intero album è ricco di pezzi sorprendenti come Mandika, da cui emerge il lato più aggressivo della cantautrice. Non mancano riferimenti alle esperienze personali, al suo desiderio di superare il dolore, alla necessità di mostrarsi per ciò che realmente è. I don’t know no shame / I feel no pain / I can’t / I don’t know no shame / I feel no pain / I can’t see the flame (Non conosco vergogna / Non sento dolore / Non posso / Non conosco vergogna / Non posso vedere le fiamme). Le fiamme di un’esistenza divampata nel bisogno disperato di emanciparsi dalla famiglia la portano a trovare nella musica la sua missione personale, ma anche la sua forma di meditazione. La sola veramente in grado di elevarla al di sopra di ogni pensiero, o preoccupazione. Il repertorio musicale del disco è notevole e tocca le vette della spiritualità con Never Get Old, dove la voce di Enya recita le parole del novantunesimo salmo, scritto in gaelico sulla copertina. Il salmo rappresenta una preghiera di protezione, incoraggia e aiuta nelle avversità. Sinéad sceglie i versetti 11, 12 e 13 e li piazza in apertura della canzone: Egli darà ordine ai suoi angeli / di custodirti in tutti i tuoi passi / Sulle mani ti porteranno / che tu non abbia a urtare nel sasso col tuo piede / Sull’aspide e il basilisco camminerai / e calpesterai il leone e il drago. Non è un caso che il titolo dell’album sia ispirato a questa preghiera, tanto meno che sia dedicato alla madre. Il disco la porta al successo anche oltreoceano, ma se c’è una cosa che O’Connor fatica a gestire è proprio la fama. Non sa tutelarsi, si espone senza filtri, suscita spesso polemiche e perplessità per le sue dichiarazioni […]
Tuttavia, anche la vulnerabilità diventa uno dei suoi punti di forza, un elemento di contatto con il pubblico, in quegli anni sempre più numeroso e affascinato dall’artista e dal suo look così in controtendenza.

Dopo il tour de force vissuto con l’uscita di The Lion And The Cobra e la nascita del figlio, Sinéad attraversa un momento di grande stanchezza fisica e confusione. Nel tentativo di riprendersi si affida a Selina Marshall, una guaritrice spirituale che la introduce allo studio della cabala, riaccende in lei l’interesse per la numerologia e la indirizza sempre di più verso lo spiritualismo, dal quale Sinéad è affascinata sin dall’adolescenza. Segue alcuni incontri condotti dallo spiritualista Warren Kenton. Grazie a queste esperienze racconterà con entusiasmo di avere ritrovato il senso perduto delle cose: «Sentii come di aver capito perché sono nata, capii cosa intendeva Dio quando creò il mondo, compresi che tutti abbiamo un ruolo da svolgere». Alla fine degli anni Ottanta, alla luce della sua esperienza, forte di una nuova consapevolezza, decide di rinnovare alcuni aspetti della sua vita e cambiarne altri. Sposa John Reynolds (da cui si separerà qualche tempo dopo) e scioglie il legame lavorativo con il suo mentore, manager, nonché amico Fachtna O’Ceallaigh, a cui riconoscerà sempre il merito di averla aiutata a fare ciò che desiderava.
Sull’onda di questa nuova fase nasce I Do Not Want What I Haven’t Got (1990), questa volta dedicato a suo padre. Nel titolo una nuova dichiarazione di intenti: non voglio niente di ciò che non ho. Questa sensazione di fiducia, completezza, appagamento si riversa nell’album, rimasto tra i più iconici dell’artista, anche per la presenza della fondamentale Nothing Compares 2U. Un brano scritto da Prince per i Family, ma reso unico e intramontabile da Sinéad, al punto che si fatica a credere non sia suo.
La canzone, oltre a essere una delle hit del decennio – accompagnata da un video intimista e toccante, vincitore di ben tre MTV Award – diventerà il suo più grande successo.
Il disco si apre con Feel So Different, fotografia musicale dello stato d’animo di Sinéad. Se nell’album precedente la preghiera di Never Get Gold è per la protezione in caso di avversità, qui i primi versi sono affidati alla preghiera della serenità: Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza. Nella canzone l’artista celebra il cambiamento raggiunto grazie alla sua fede e alla spiritualità, fino alla presa di coscienza più profonda: All I’d need was inside me / Now I feel so different (Tutto ciò di cui avevo bisogno era dentro di me / Adesso mi sento così diversa). Il disco rappresenta una sorta di manifesto del percorso fatto fino a quel momento, attraversa Three Babies «una riflessione sui fenomeni emotivi da una prospettiva spirituale» e si conclude con il testamento di O’Connor da cui prende il titolo l’intero album: I Do Not Want What I Haven’t Got. Il pezzo suona come un’orazione, resa ancora più solenne dalla scelta di cantarlo a cappella: I’m walking through the desert/ And I am not frightened although it’s hot / I have all that I requested / And I do not want what I haven’t got (Sto camminando nel deserto / E non sono spaventata anche se fa caldo / Ho tutto quello che ho richiesto / E non voglio quello che non ho). […] Trainato dall’incredibile successo del singolo Nothing Compares 2U l’album sbanca nei mercati internazionali: in una sola giornata in America vende mezzo milione di copie. Le difficoltà nella gestione dello star system aumentano e sollevano polemiche, mentre lei cerca costantemente di riportare il focus sulla sua musica, l’unica cosa che veramente le sta a cuore. Affronta una tournée mondiale, rilascia interviste, rifiuta inviti e fa apparizioni televisive nelle quali l’enfant terrible mina la sua popolarità. Malgrado negli Stati Uniti divampi la polemica per il suo rifiuto ad aprire il concerto con l’inno nazionale (come da tradizione del Garden State Arts Center), nel corso dello stesso anno si trasferisce in California. Partecipa a un concerto in Cile a favore di Amnesty International, al progetto Red, Hot and Blue per la raccolta fondi in favore della ricerca sull’Aids e vince due MTV Award, uno come migliore cantante donna e l’altro per il miglior singolo.
L’anno seguente rappresenta un periodo di passaggio, durante il quale rifiuta di prendere parte ai Grammy e ai Brit – gli oscar della musica assegnati dai discografici americani e inglesi – ed esasperata dalle dinamiche del mercato considera quello musicale il peggior business con cui si possa avere a che fare.
Durante questo anno continua le attività benefiche, lavora a supporto dei più deboli, di chi ha bisogno di una voce, incide My Special Child, un singolo il cui ricavato è devoluto ai profughi curdi, per la stessa causa partecipa a un concerto all’Aja e, seppure contro voglia, prende parte all’album tributo dedicato a Elton John e Bernie Taupin.
Finalmente arriva anche il suo nuovo personale progetto discografico: Am I Not Your Girl? (1992), una raccolta di dodici classici che rappresentano le canzoni della sua infanzia, quelle che, come racconta l’artista, le hanno fatto desiderare di diventare una cantante. Nel 1993 partecipa al Dublin Peace Rally, collabora a Peace Together, album a sostegno dei giovani dell’Ulster e prende parte ad alcune tournée di Peter Gabriel. Quello stesso anno sarà proprio lui – l’angelo delle note di copertina di Am I Not Your Girl? – a salvarla dal suo primo tentativo di suicidio.
A disagio nello showbitz, in contrasto con la stampa, sopraffatta dalle continue difficoltà familiari, Sinéad, nonostante le sue crisi, trova ancora una volta le risposte e la fonte della sua forza interiore nella musica. Incide il singolo You Made Me The Thief Of Your Heart, entrato nella colonna sonora dell’intenso film In The Name Of The Father, del regista irlandese Jim Sheridan.
Nel marzo del 1994 ai Westland Studios di Dublino inizia a registrare il suo quarto album: Universal Mother, che uscirà nello stesso anno. Qui il tema del femminile e della maternità si dilatano: la Madre Universale è la divinità, ma è anche l’Irlanda, terra ferita, che ha perduto la sua innocenza e ferisce i suoi stessi figli. L’attacco del disco è spiazzante, la preghiera da spirituale si fa politica. Questa volta a introdurre non solo un brano, ma l’intero album ci sono le parole della scrittrice femminista australiana Germaine Greer: «Penso davvero che le donne potrebbero rendere la politica irrilevante attraverso una sorta di azione cooperativa spontanea. Qualcosa che non abbiamo mai visto finora. Così distante dalle idee di stato sociale e della vitale idea di struttura sociale, che per loro sembrerebbe anarchia totale. E ciò che è veramente sono forme molto sottili di interrelazione che non seguono una sorta di modello gerarchico, fondamentalmente di stampo patriarcale. Il contrario del patriarcato non è il matriarcato, ma la fratellanza. Ed è compito delle donne spezzare questa spirale di potere e trovare il segreto della cooperazione». A questo punto O’Connor infiamma il dramma personale e lo espande, getta Fuoco su Babilonia (Fire On Babylon), città simbolo, tra le più citate della Bibbia. L’impressione è che l’artista conosca bene il ruolo di Babilonia nelle sacre scritture, la trasporta nel suo testo e la rende luogo di origine, casa alla quale guardare senza poter fare più ritorno. Bruciare Babilonia significa anche liberarsi dai propri traumi: Life’s backwards life’s backwards / People turn around / The house is burned the house is burned / The children are gone / Fire / Fire Fire on Babylon (La vita va a ritroso la vita va a ritroso / La gente si guarda indietro / La casa è bruciata la casa è bruciata / I bambini se ne sono andati / Fuoco / Fuoco / Fuoco su Babilonia).
È incessante, a tratti estenuante, il lavoro che Sinéad fa per conciliarsi con il proprio vissuto, per contenere la sua fragilità e il suo animo tellurico.
La sua musica serve a questo, a tenere in piedi i fili di un’intera esistenza, e lo fa con una tale forza che l’esperienza di ascolto dei brani riesce a essere così intensa «da definire lo stato d’animo di un’audience intera», come dirà Mikal Gilmore. Dio è presente nella sua arte in quanto riflesso dell’opera stessa, per lei inscindibile dalla prospettiva spirituale: «l’arte ha la specifica funzione di riflettere la spiritualità». In All Babies ci fa sapere quanto Dio sia presente anche nella vita di tutti noi dal primo istante in cui nasciamo, come madre e come padre, fino a diventare la Madre Universale che racchiude il senso di ogni cosa. Recuperare l’innocenza dell’infanzia, l’innata saggezza, la spontaneità dei bambini diventa la chiave per incontrare il divino dentro e fuori di noi. Contattare quelle qualità rappresenta il modo per spezzare la spirale di potere e avanzare verso la fratellanza, la cooperazione; quelle qualità forniscono lo strumento per liberarci dal dolore. All babies are born saying God’s name / Over and Over / All born singing God’s name / All babies are flown from the Universe / From there they’re lifted by the hands of angels / God gives them the stars to use as ladders / She hears their calls / She is mother and father / All babies are born out of great pain / Over and over / All born into great pain / All babies are crying / For no-one remembers God’s name (Tutti i bambini nascono pronunciando il nome di Dio / E così sarà sempre / Tutti nascono cantando il nome di Dio / Tutti i bambini sono portati in volo dall’Universo / Sono le mani degli angeli a sostenerli / Dio dà loro le stelle da usare come scale / Lei ascolta il loro richiamo / Lei è madre e padre / Tutti i bambini nascono fra grande dolore / E così sarà sempre / Tutti nascono per un grande dolore / Tutti i bambini piangono / Perché nessuno ricorda il nome di Dio). Il disco raggiunge il suo apice nell’epilogo. Nell’ultima traccia Sinéad racchiude tutta la sua gratitudine verso il mondo e lo fa con un canto che suona come una preghiera di ringraziamento. Thank you for Hearing Me rappresenta il modo con cui ogni essere umano vorrebbe sentirsi nel mondo: ascoltato. Ogni persona desidera essere ascoltata, amata, non essere ferita, essere incoraggiata. In altre parole: essere vista. Ogni persona nel riconoscimento di sé compie il proprio, fondamentale, processo di individuazione. […]
Nel suo percorso l’artista sembra guidata da un’apprensione spirituale che la porterà nel 2000 a diventare Suor Bernadette e diversi anni dopo, nel 2018, a ufficializzare la sua conversione all’Islam con il nome di Shuhada’ Davitt. Conversione che commenterà sul suo profilo Twitter scrivendo: «sono orgogliosa di essere diventata musulmana. Questa è la naturale conclusione del viaggio di qualsiasi teologo intelligente. Tutto lo studio delle Scritture porta all’Islam…». Nel frattempo, riversa la sua incessante ricerca nel quotidiano e nelle canzoni. Le sue inquietudini compromettono le relazioni e il rapporto con i quattro figli. In difficoltà, spesso da sola, abbandonata dai famigliari, accusati di non comprenderla e di rifiutare la sua fragilità psicologica, tenta più volte il suicidio. Condivide momenti di grande crisi personale e sconforto sui social, ringraziando anche il suo psichiatra per essere il solo a tenerla in vita. Ma la sua vera ancora di salvezza resta la musica, unitamente al richiamo per la fede. […]
La sua è una vita spesa a cercare di essere amata, a contattare se stessa attraverso la spiritualità, abbracciando molto presto la musica, prima forma di amore profondo che abbia sperimentato, probabilmente l’unica dalla quale non si sia mai sentita abbandonata, o tradita. Pur consapevole di essere una sopravvissuta, Sinéad non ama definirsi tale, il suo percorso è così denso e ricco di esperienze da portarla a considerarsi una soldatessa, anche se preferisce definirsi sacerdotessa: «in tal senso il messaggio che vorrei diffondere è che se si parla al Signore si può creare il mondo che si desidera».
Un mondo che lei ha decisamente contribuito a rendere più ricco con la sua musica.
A volte portiamo il peso di affetti che sono stati negati da coloro che avrebbero dovuto proteggerci … il dolore di non sentirsi amati segna indelebilmente ogni scelta o l’ impossibilita’ di scegliere.
Se non si affronta la paura di amare e di lasciarsi andare per il timore di affrontare altro dolore, amare diventera’ come morire un’ altra volta, come prima era stato.
Sinead con la sua voce di cristallo, pura acqua di sorgente, ha dato voce all’ anima ….ci ha lasciato brani delicati e ispirati come nessuno mai , altri interpretati con una forza e una energia inarrivabile. La sua voce diventava lama d’ acciaio potente. Ha sollevato coscienze e responsabilita’ e tutto cio’ ha dato fastidio ed e’ stata esclusa per le sue idee. Hanno capito che non si sarebbe arresa.
Come donna desiderava essere amata e accolta con la sua fragilita’ “speciale”. Aveva un bisogno speciale d’ amore , solo suo, ma troppo dolore da gestire che veniva dal passato.
Grazie a Sinead, per la voce sublime e la bellezza che ha donato. Libera dal dolore ora puo’ cantare tra le stelle con gli angeli senza essere giudicata.
Portero’ con me il ricordo di una donna che ha avuto una vita complicata e ha dovuto combattere per sopravvivere e soffrire come se la sofferenza fosse una costante inevitabile.
Un abbraccio forte, il mio cuore e’ con te. La tua voce mi ispira poesia e forza.
Grazie