Come si è evoluto l’immaginario degli scacchi, e cosa ci dice sulla contemporaneità?
in Copertina: Gianfranco Ferroni, Senza titolo (1980) – Litografia – Asta Pananti in corso
di Davide Burgio
“Il gioco degli scacchi è tutto: arte, scienza e sport.” Lo sostiene Anatolij Karpov, uno dei migliori giocatori del secolo scorso, che ha dato vita, insieme a Garri Kasparov, a una rivalità leggendaria. Non è sorprendente dunque il fascino che gli scacchi hanno saputo esercitare su tutte le forme d’arte e in particolare sulla letteratura e sul cinema. Sulla pagina e sullo schermo, gli scacchi hanno preso mille forme: dal giudizio moralistico dei grandi autori del Rinascimento, epoca in cui il gioco acquistò nuova popolarità in Europa, con l’introduzione di nuove regole e l’avvento dei primi maestri protomoderni (Greco, Polerio, Ruy Lopez) attirando gli strali di Petrarca e Montaigne; all’entusiasmo ingenuo e dilettantesco di scrittori come il Boito di L’alfier nero, che nel tentativo di descrivere la superiorità del fittizio campione americano Anderssen gli fa commettere lo strafalcione di mettere i due cavalli agli estremi della scacchiera; per arrivare alle raffinate composizioni di connoisseur come Nabokov (Poems and Problems) e Duchamp, e infine alle rappresentazioni cinematografiche. Queste ultime a loro volta oscillano fra la mera suggestione (la partita con la Morte del Settimo sigillo, in cui gli scacchi vengono adoperati semplicemente come emblema della sfida intellettuale, senza particolare interesse per la verosimiglianza) e la cura maniacale: così, per esempio, può capitare di imbattersi in una citazione della Partita del Secolo di Bobby Fischer, nascosta in Prospero’s Books di Peter Greenaway, o che esperti scacchisti vengono consultati per progettare a tavolino le combinazioni di Harry Potter e The Queen’s Gambit, per la gioia (e lo scrutinio) dei nerd della scacchiera.
E proprio la figura del nerd può essere un punto di partenza interessante per analizzare l’immaginario che circonda il gioco, perché gli scacchi sono stati probabilmente uno dei primi antenati di quella che oggi si definirebbe una sottocultura. Non uso il termine in senso dispregiativo, ma per descrivere una situazione in cui una branca del sapere fiorisce in sostanziale isolamento, nel disinteresse dei settori mainstream: il destino degli scacchi è spesso stato questo, anche in periodi in cui la cultura era molto più circoscritta e unitaria. In un certo senso, è paradossale che gli scacchi siano diventati qualcosa di più di un gioco proprio nel Rinascimento, l’epoca dell’uomo universale, dato che si tratta di una branca del sapere in larga parte autosufficiente, persino sterile. Gli scacchi non sono certo l’unica disciplina inaugurata dal Rinascimento, che è anche il secolo d’origine della saggistica moderna, ma è la loro sterilità a suscitare stupore e quasi scandalo. Così Montaigne:
Vedete quanto la nostra anima gonfia e ingigantisce questo ridicolo passatempo […] Quali passioni non ci suscita? Collera, rancore, odio, impazienza, e una violenta ambizione di vincere, là dove sarebbe più giustificabile l’ambizione di esser vinti. Perché l’eccellenza rara e fuori del comune mal si addice all’uomo d’onore in ambiti frivoli.
Insomma, una passione smodata rivolta a un oggetto ritenuto futile, come quella che può venire imputata, ancora oggi, ai membri dei fandom più disparati. Di conseguenza la figura dello scacchista assume il carattere dell’eccentrico invece che dell’intellettuale o dello scienziato: la disciplina, che come tale si sta costituendo (compaiono nel Rinascimento i primi trattati di teoria), passa sostanzialmente sotto silenzio, e sarebbe probabilmente definita un hobby, se gli hobby fossero già nati. È infatti nell’Ottocento, secolo dei primi hobby , che ha origine il mito moderno dello scacchista. Il ritratto delineato finora, a metà tra l’erudito eccentrico e il comune perdigiorno, si arricchisce di un dettaglio ulteriore, andando a fondersi con l’immagine del genio romantico.
Il romanticismo è il primo “ismo” che coinvolge il mondo scacchistico: non esiste una scuola rinascimentale, o barocca, o illuminista degli scacchi, intesa come tendenza teorica legata alla forma mentis dei rispettivi periodi, ma esiste una scuola romantica, capitanata dal geniale dilettante prussiano Anderssen, a cui il personaggio di Boito rende omaggio nel nome, ma non nello stile. Laddove infatti l’americano dell’Alfier Nero incarna la pura razionalità, la strategia di un grande condottiero militare, lo stile del vero Anderssen, e della scuola romantica in generale, è esattamente quel che ci si aspetterebbe: inventiva pura, improvvisazione, combinazioni contorte, sacrifici spettacolari, sprezzante disdegno per la teoria e l’attendismo. Poi, seguendo passo passo le evoluzioni della cultura europea, arriva una sistematizzazione scientifica che ha molto del Positivismo, con le stesse sicurezze e le stesse trionfali ingenuità. La scuola tedesca di Steinitz e Tarrasch propugna il dogma dell’occupazione del centro, introduce il concetto di vantaggio posizionale, e stabilisce le basi della teoria scacchistica successiva, giusto in tempo per vedere le proprie certezze messe in discussione dalla scuola ipermoderna, il Modernismo degli scacchi, che, al pari delle avanguardie artistiche e scientifiche in altri campi, relativizza e ripensa i fondamenti della disciplina: ad esempio, vengono esplorate maniere alternative di controllare il centro della scacchiera, non avanzando subito i pedoni centrali, ma da lontano, con alfieri e cavalli, riservando le mosse di rottura coi pedoni a un secondo momento. Nascono così alcune aperture ancora oggi popolari, come la partita Réti, le difese indiane e la difesa Grünfeld. Gli scacchi, insomma, pur rimanendo una disciplina sostanzialmente isolata, cominciano a seguire il flusso della cultura e ad entrare a loro volta nell’immaginario.
-->L’effetto più sostanziale di questa trasformazione si ha sull’immagine dello scacchista stesso, non più semplicemente un eccentrico, ma un vero e proprio genio, con tutte le peculiarità che il termine comporta: creativo ed eccezionalmente dotato, ma anche bizzoso, altezzoso, tormentato, spesso destinato a una fine tragica e prematura. Lo stereotipo ha trovato riscontro in alcuni giocatori reali, come Morphy, Alekhine, Rubinstein e Fischer, ed è stato reinterpretato in chiave psicanalitica da un saggio di grande influenza (benché ormai obsoleto), La psicologia del giocatore di scacchi (1967), di Reuben Fine, giocatore di livello mondiale fra gli anni ’30 e ’50 e psicologo di mestiere. Ma ben più spesso è stato alimentato dalle opere di finzione: praticamente tutti gli scacchisti immaginari sono talenti maledetti, divorati dalla passione, consumati dalle nevrosi, segnati dal destino.
Tuttavia, qualcosa del concetto originario, dello scacchista come semplice giocatore fissato e bislacco idiot savant, è rimasto. Ad esempio, mentre l’eroe romantico (o il suo erede, il dandy) è dipinto come una specie di superuomo dai mille talenti e dal carisma eccezionale, uno dei tratti più tipici del ‘personaggio scacchista’ è il suo carattere fondamentalmente ottuso. Spesso viene descritto come un bambino assolutamente ordinario, che non mostra alcuna dote particolare, anzi, apatico e chiuso in sé stesso, finché non si trova davanti una scacchiera. Così ad esempio Czentovič, il campione del mondo della Novella degli scacchi di Zweig, o il Luzhin della Difesa di Luzhin di Nabokov, e in parte la Beth Harmon di The Queen’s Gambit. Interessante il parallelo con un romanzo (Il profumo, di Süskind) che parla di un’altra disciplina antica e poco conosciuta, la profumeria. Il protagonista, Grenouille, segue la tipica parabola dello scacchista da romanzo: dopo un’infanzia di abbrutimento, senza talenti degni di nota, scopre la propria vocazione, dalla quale viene totalmente divorato.
Questa tendenza all’assorbimento non caratterizza soltanto la dedizione dei protagonisti,ma riguarda anche la rappresentazione del gioco stesso: un altro luogo comune è infatti la pressoché totale smaterializzazione della scacchiera. L’anonimo protagonista della Novella degli scacchi, forse il più celebre racconto a tema scacchistico, si appassiona al gioco durante la prigionia, sottoposto dai nazisti alla tortura della più totale inattività. Chiuso in una stanza vuota, privato di ogni interazione umana, fatta eccezione per gli interrogatori, rischia di perdere il senno, finché non ruba un libro, che scopre essere un manuale di partite famose. Trattandosi del suo unico stimolo intellettuale, il protagonista legge e rilegge le notazioni, impara a memoria le mosse e infine comincia a rigiocare le partite nella propria mente, con migliaia di variazioni. Il risultato di questa applicazione febbrile e totalizzante, ma tutta virtuale, è un’abilità scacchistica che gli consente di sconfiggere facilmente il campione del mondo Czentovič, il quale invece, col suo intelletto rozzo e goffo, è del tutto incapace di giocare senza avere i pezzi davanti. E tuttavia, la capacità di astrazione del protagonista è anche la sua rovina: Czentovič chiede la rivincita, e la vertigine del gioco, da lungo tempo abbandonato, ha sul protagonista un effetto talmente devastante da portarlo a giocare una partita immaginaria, in uno stato di sovraeccitazione tale da impedirgli di accorgersi che sulla scacchiera le cose stanno andando in maniera completamente diversa.
Allo stesso modo, in The Queen’s Gambit, Beth Harmon viene più volte rappresentata mentre osserva sul soffitto i movimenti di un’enorme scacchiera mentale (un tic, quello di volgere lo sguardo verso l’alto, che condivide con il Gran Maestro Hikaru Nakamura), e quando questa capacità viene meno le sue abilità si riducono notevolmente.
Anche la fine tragica del Luzhin di Nabokov è una conseguenza della soverchiante presa che gli scacchi hanno sulla sua mente: egli arriva a concettualizzare la sua vita come un’enorme partita, bloccata senza scampo in pattern predefiniti, che lo condurranno inevitabilmente all’ossessione divorante per gli scacchi, al punto da considerare il suicidio quale unica difesa praticabile nei confronti del gioco stesso. Al contrario della sua vita, però, la sua ultima partita è compromessa non da un sospetto di cieco determinismo, bensì dalla vertigine delle possibilità:
Improvvisamente, qualcosa accadde al di fuori del suo essere, un dolore bruciante— e lui cacciò un urlo, agitando la mano scottata da un fiammifero che aveva acceso e poi dimenticato di avvicinare alla sigaretta. Il dolore passò immediatamente, ma nella voragine di fuoco aveva visto qualcosa di intollerabilmente sublime, tutto l’orrore delle profondità abissali degli scacchi.
In tutti i casi, dunque, c’è qualcosa che va oltre le mere mosse della partita, e che ha luogo soltanto nel teatro della mente. È la sensazione descritta anche da Hans, uno dei personaggi della Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig:
Io dovevo concentrarmi solo sul gioco, trascendendo quasi la materia, passando oltre le apparenze, per poter accedere a un mondo fatto di pura energia mentale. Quando giungevo in questa dimensione – e sempre più spesso varcavo quella soglia –, avrei potuto chiudere gli occhi e lasciare che qualcuno mi togliesse la scacchiera da sotto il naso, che quell’universo dotato di energia propria avrebbe continuato a vibrare per conto suo.
Insomma, non solo il gioco passa dalla materialità della scacchiera alla mente, ma finisce per occuparla in maniera totalizzante e distruttiva. È possibile che questa tendenza alla mentalizzazione estrema non sia dovuta soltanto alle esigenze di enfasi spettacolare ed introspezione psicologica della narrativa di finzione: essa può anche essere vista come un riflesso dello statuto di isolamento degli scacchi come attività intellettuale, che ancora oggi permane. Nonostante, come si è visto, il gioco sia entrato a far parte dell’immaginario collettivo, esso ha anche raggiunto, come tutti gli altri campi, vette di specialismo un tempo impensabili, risultando sempre più inaccessibile ai profani, già a partire dall’Ottocento. Ovviamente, con l’avvento del computer, le connessioni con altre discipline sono aumentate, in particolare nel campo dell’intelligenza artificiale, tanto che Garri Kasparov ha definito gli scacchi “la drosophila della mente”, ma essi rimangono un’avventura intellettuale sostanzialmente autoreferenziale. Al giorno d’oggi, i più grandi campioni si allenano soprattutto con il computer, l’avversario di gran lunga più impegnativo, in grado di suggerire mosse e varianti, in particolare nelle fasi di apertura, con una profondità ed esattezza di calcolo inimmaginabile. Queste mosse vengono studiate, memorizzate e riproposte in partita, sperando di cogliere l’avversario impreparato.
Se dunque i computer hanno accentuato il solipsismo della competizione pura, hanno però anche dato al gioco un’inedita dimensione sociale, anzi social: in particolare negli ultimissimi anni, a partire dalla pandemia, gli scacchi si sono trasformati a tutti gli effetti (anche) in un e-sport, con un enorme seguito online. Oggi, tutti i maggiori tornei del mondo, che siano in presenza o al computer, in modalità classica o rapida, vengono trasmessi in streaming e commentati da giocatori famosi, alcuni dei quali sono diventati delle star della scacchiera. I content creator di maggior successo giocano quotidianamente in diretta su Twitch, la piattaforma del gaming per eccellenza, e caricano regolarmente i loro video su Youtube. L’apripista è stato il Gran Maestro americano Nakamura, ma in molti hanno seguito le sue orme, non solo altri Gran Maestri come Daniel Naroditsky e Ben Finegold, ma anche Maestri Internazionali, come Levy Rozhman, Anna Rudolf ed Eric Rosen, e giocatori non titolati (Andrea Botez, Antonio Radic). Si tratta spesso di personalità brillanti, calorose, a loro agio di fronte alla telecamera e nell’interazione col pubblico, che hanno ben poco a che vedere con il tradizionale modello di scacchista umbratile e scostante. Anche i giocatori che non si dedicano allo streaming, oggi, sono tendenzialmente meno maledetti e più professionali: fanno attività fisica, addirittura modeling come Magnus Carlsen, ingaggiano schermaglie su twitter come l’olandese Anish Giri, promuovono il movimento scacchistico e incoraggiano iniziative di beneficenza come l’indiano Viswanathan Anand. I due siti più popolari per giocare online, chess.com e lichess, organizzano tornei settimanali di alto livello, ed è stato addirittura bandito un torneo a invito, rivolto a personalità di altri e-sports e giochi come League of Legends, Team Fight Tactics e poker, il Pogchamps, ormai arrivato alla quarta edizione. Insomma, gli scacchi, un tempo sport elitario per eccellenza, hanno anche imparato a prendersi meno sul serio. È suggestivo, se vogliamo, un dettaglio che compare nella Variante di Lüneburg, e che appena qualche decennio dopo ritroviamo in una cornice impensabilmente diversa: quello della scacchiera che, al minimo errore, infligge una scossa elettrica. Si tratta di un cimelio di famiglia del mentore di Hans, Tabori, e contribuisce a rinforzare il tema dell’enorme peso che può assumere la consapevolezza delle proprie scelte, tema centrale, visto che nel romanzo da certe mosse dipende letteralmente la vita di persone in carne e ossa. Ancora una volta si tratta di un fenomeno tutto mentale, perché la scacchiera funziona soltanto per forza di suggestione, ma ciò non toglie nulla, né dal punto di vista dell’allievo, né da quello del lettore, alla tragicità del motivo. Motivo che compare anche in questo video di youtube, e il contrasto non potrebbe essere più straniante. La scossa elettrica si trasforma in un gioco, per testare la prontezza di due maestri, nelle mani del campione del mondo Magnus Carlsen, in veste di allegro aguzzino.
Questa nuova ondata d’interesse è stata abilmente sfruttata (e in parte creata) dalla serie Netflix The Queen’s Gambit (2020).
La serie è ambientata durante la Guerra Fredda (anni ’50-60), ma ciononostante riflette in maniera interessante alcune delle evoluzioni che hanno caratterizzato l’immagine del gioco negli ultimi anni. Rispetto ai romanzi e racconti discussi finora, essa presenta differenze notevoli, dovute soprattutto ai diversi generi a cui attinge. Infatti, il suo grande modello implicito sono i film e le serie di narrazione sportiva. La protagonista Beth Harmon, in piccola parte ispirata alla figura di Bobby Fischer, ha sicuramente molto del genio autodistruttivo che abbiamo imparato a conoscere, compresi i problemi di dipendenza da alcol e dalle pillole di dubbia origine che le propinavano all’orfanotrofio, ma la sua storia è quella di un’atleta, e segue (spoiler alert) la classica struttura narrativa che il cinema americano ha da sempre riservato a questo tema: inizi precoci in un contesto sociale difficile, talento da predestinata, debutto esplosivo, ascesa vertiginosa, insuperbimento e difficoltà personali, caduta rovinosa, training montage e redenzione finale. Gli scacchi, insomma, sono presentati come uno sport, più che una forma d’arte, anche se il riferimento esplicito ai geni maledetti del passato (ad esempio Paul Morphy) è presente: per certi versi viene persino insinuato il dubbio che Beth introietti questa malsana narrativa dall’esterno (in particolare dagli avvertimenti, benintenzionati ma un po’ paternalistici, dell’ex ragazzo ed avversario Harry Beltik), più che essere naturalmente portata a riviverla in prima persona. In ogni caso, lo stereotipo dello scacchista va incontro, nella serie, a notevoli innovazioni. Innanzitutto, il fatto che la protagonista sia una ragazza influenza inevitabilmente il ritratto di alcune sue caratteristiche. Certi tratti tipicamente associati ai personaggi femminili vengono neutralizzati dal suo ruolo di giocatrice: Beth, ad esempio, è un personaggio freddo, riservato ed emotivamente un po’ scostante, invece che caloroso ed empatico. D’altro canto, alcuni tratti “da scacchista” vengono rivisitati in chiave tradizionalmente femminile, rivelando per contrasto quanto il ritratto ‘classico’ del giocatore tutto genio e sregolatezza, ma anche fanaticamente devoto alla sua arte, sia una fantasia marcatamente maschile: l’iniziale disinteresse di Beth per ciò che non riguarda gli scacchi viene mitigato dall’opportunità di viaggiare e vedere il mondo, tramite un percorso di empowerment che passa per la scoperta delle grandi città, dei bei vestiti, della musica e del sesso (anche se la narrativa di stampo sportivo finisce in parte per associare quest’ultimo, moralisticamente, ad una caduta che influisce sul suo benessere psicofisico e sulle sue performance).
Infine, la serie presenta un ritratto del mondo degli scacchi molto più comunitario rispetto alla maggior parte dei romanzi e film sul tema: fin da subito, Beth viene inserita in un ambiente di giocatori che diventano rapidamente familiari, e che nella maggior parte dei casi la aiutano nel suo percorso di crescita (una visione certamente idealizzata dell’atteggiamento verso le donne da parte della comunità scacchistica, soprattutto per una serie ambientata negli anni ‘60). La sua crisi viene risolta dall’incontro con una vecchia amica dell’orfanotrofio. Persino i suoi rivali russi le mostrano rispetto e stima, e vengono proposti come il modello di una scuola di giocatori compatta, i cui membri si aiutano a vicenda per creare una superpotenza scacchistica: infatti, Beth ha bisogno del supporto di tutti i suoi ex rivali americani, che la assistono nella preparazione delle partite e la incoraggiano, per riuscire a sconfiggere i maestri russi. Infine, dopo la vittoria dell’ultimo importante torneo, a Mosca, il primo festeggiamento di Beth consiste in una passeggiata nel parco, durante la quale si mette a giocare con i vecchietti, godendosi l’adorazione generale.
Quella che emerge da The Queen’s Gambit è dunque una concezione degli scacchi che affonda le radici in una lunga storia, ma che ne rivisita i tòpoi in maniera innovativa, sottilmente influenzata dal nuovo contesto digitale e comunitario in cui il gioco sta muovendo i primi passi. Potenzialmente, le novità sono appena cominciate, e di sicuro c’è ancora molta strada da fare su temi come l’inclusione delle giocatrici a tutti i livelli, ma sarà interessante vedere come sarà mutata, fra qualche decennio, nei film, nei romanzi, nelle dirette streaming e in chissà quali altri nuovi media, l’immagine dello scacchista (e della scacchista).
Articolo molto interessante, l’ho trovato completo e l’ho letto con piacere. Una panoramica sul gioco degli scacchi nella letteratura che consiglio a chi gioca a scacchi e anche a chi semplicemente subisce il fascino di questo gioco millenario.