L’ultimo videogioco di Hideo Kojima sembra avere molto in comune con la nostra società alle prese con la pandemia da Covid-19. E può insegnarci come affrontarla, a partire dall’idea di cosa possiamo fare come collettività.
In copertina un frame da video, diritti di Kojima Productions
L’umanità vive rinchiusa in bunker sotterranei, decimata da un evento apocalittico. Uscire all’esterno è pericolosissimo, ma pochi, audaci individui si avventurano per un territorio ormai irriconoscibile. Sono semplici corrieri, dipendenti di un’azienda – che in tempi migliori avremmo chiamato un colosso multimiliardario – costretti a trasportare carichi da una città-bunker all’altra; senza il loro lavoro le città, divise e recluse, morirebbero.
Le fondamenta narrative di Death Stranding, ultimo videogioco del game designer di culto Hideo Kojima (sua la saga di Metal Gear Solid, e a testimoniarne il valore artistico c’è una recente e voluminosa monografia a lui dedicata dal New York Times) uscito nel novembre 2019 per Playstation 4, sono quanto di più sinistramente vicino alla vita quotidiana nel pianeta in quarantena per contenere la pandemia di Covid-19. Del resto, lo scenario della catastrofe virale (come quella zombie o nucleare) è uno dei più frequentati dalle distopie letterarie e cinematografiche, da qui l’impressione di vivere in un mondo che ha agganciato le fantasie più cupe e ha bisogno di un nuovo immaginario per guardare oltre. Perché è questo che fa la fantascienza e, in generale, la speculative fiction: allungando lo sguardo offre strumenti per interpretare e agire sul presente. E qui sta anche la particolarità e l’importanza del plot twist che Kojima opera sul genere distopico, svecchiandolo da un certo sapore stantio e immaginando strategie di reazione e rivoluzioni silenziose. Mettendo al centro della storia un lavoratore, un corriere, ha intercettato una sensazione che è diffusa e destabilizzante in questi giorni. Viviamo all’interno di una macchina che, quando tutto fila liscio, è invisibile e ci permette di coprire distanze enormi in brevissimo tempo, al punto che il concetto di spazio acquista caratteristiche virtuali, come quando esploriamo una nuova città orientandoci con una mappa digitale prima che sui punti a portata d’occhio; ma nel momento in cui il sistema s’inceppa, ci rendiamo conto che mentre noi ci trinceriamo in casa è necessario che qualcuno esca in strada, produca beni e li trasporti, faticando e interagendo in maniera prettamente fisica con l’ambiente, poiché se si bloccasse anche un solo ingranaggio, l’intera macchina della civiltà crollerebbe su se stessa.
Nell’opera di Kojima ci sono molti spazi di approfondimento per la “logistica dell’apocalisse”, come ha titolato Claudio Cugliandro nella sua recente indagine che muove proprio da questi temi. C’è ad esempio una riflessione di classe a cui Kojima accenna modellando la figura del corriere protagonista, Sam Bridges, sui rider dagli zaini cubici e goffamente sovraccarichi, una delle categorie lavorative più deboli (ma d’importanza sempre crescente) della contemporaneità, e inserendo antagonisti come i Muli, uomini che nel mondo pre-catastrofe avevano perso il lavoro a favore dell’automazione e che ora cercano riscatto, ossessionati, rubando i carichi dei corrieri. Potremmo insomma leggere quel “corriere” come un operaio e quella “macchina” come nello specifico la macchina del capitale.
Un’altra sfumatura in cui Death Stranding si differenzia dagli scenari post-apocalittici “classici” è l’evento apocalittico stesso. La sua cifra è quella dell’ambiguità, dell’incomprensibilità, del dubbio: a partire dal titolo, intraducibile e giustamente non tradotto nella versione italiana. Stranding è l’incagliarsi, l’incastrarsi, lo spiaggiarsi delle balene quando vanno a morire sulla sabbia, ma si riferisce anche ai fili, strands, che possono indicare unione – quando si diramano da un centro e si cercano per intrecciarsi – o frammentazione – quando si disperdono come le rette parallele di individui coesistenti ma isolati l’uno dall’altro. Il mondo dei morti si è incagliato, si è spiaggiato su quello dei vivi. Questa è la catastrofe, che ci viene presentata senza un motivo e senza una risposta. Intuiamo che il mondo fosse avanzato di qualche decennio rispetto alla nostra epoca, per via delle tecnologie sopravvissute nei bunker, ma il Death Stranding ha avuto un impatto simile alla caduta di un impero: tagliando i ponti tra città e persone, ha sepolto la memoria storica dell’umanità (compresa la vera natura della catastrofe stessa) lasciando trapelare soltanto rare informazioni, come reperti archeologici. I due mondi adesso sono a contatto, ma non sono fatti per convivere. L’analogia su cui insiste Kojima è quella di due mani appoggiate palmo contro palmo che tuttavia non combaciano perfettamente. L’asimmetria produce paradossi. Sopra la terra compare un arcobaleno rovesciato, a cui manca il colore blu; paiono scomparire alberi e animali, ma talvolta in cielo nuotano balene e piovono pesci. Alcuni individui, come il protagonista Sam Bridges, sono dei “riemersi”: non possono morire. Quando accade (ed è un acuto gioco meta-narrativo sul valore del game over nei videogiochi, che infrange l’illusione di realismo) il giocatore transita in una sorta di limbo rappresentato da un mare che è anche liquido amniotico, e rinasce come dal ventre di una madre. Gli altri, invece, quando muoiono si trasformano in CA, Creature Arenate (BT, Beached Things, in originale): ectoplasmi tentacolari che ricordano fantasmi incapaci di trovare pace nella morte e che si aggirano per la terra attaccando chiunque passi loro davanti. I corrieri devono evitarle o sconfiggerle, oppure liberarle recidendo il cordone ombelicale che le tiene sospese tra i due lati dello specchio; il contatto con un essere umano produrrebbe una gigantesca esplosione, capace di cancellare in una voragine intere città. E poi c’è la cronopiogga (timefall) che accelera lo scorrere del tempo: ha cancellato ogni infrastruttura umana presente in superficie prima della catastrofe e deteriora le nuove costruzioni. L’unico legame tra i due mondi sono i Bridge Baby: bambini estratti dall’utero della madre prima del tempo e conservati in una teca protettiva, non sono mai stati vivi ma non sono nemmeno morti. Ogni corriere ne porta uno con sé, poggiato sopra la pancia, perché appartenendo contemporaneamente a entrambi i mondi i BB possiedono una sensibilità superiore e possono avvertire il corriere, in una sorta di simbiosi, di pericoli e CA, le creature arenate, in avvicinamento.
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I nostri sentieri diventano strade
Questo è il genere di mondo in cui ci troviamo catapultati, in medias res, impersonando Sam Porter Bridges (sul suo e sugli altri nomi torneremo più avanti). È il figlio della presidente degli Stati Uniti d’America, ma non ha mire politiche. Fa parte dell’azienda di famiglia, la Bridges – un colosso della distribuzione come l’odierna Amazon. È un lavoratore infaticabile ma disilluso e nichilista, solitario per inclinazione e necessità (soffre di afefobia, le repulsione per il contatto fisico con altre persone, che nel suo caso gli provoca anche dolore e segni permanenti sulla pelle). Alla morte della madre accetta l’incarico di spostarsi dalla costa est a quella ovest, in una riproposizione della conquista del Far West, con due obiettivi: rintracciare sua sorella Amelie, che sarebbe diventata il nuovo presidente, e collegare alla rete chirale (una sorta di internet, che prende il nome dall’analogia della mano – cheirós – di cui parlavamo in precedenza) le varie comunità-bunker isolate, trasportando da un luogo all’altro preziosi materiali.
Ma dicevamo, il mondo di Death Stranding ha perso il suo passato. Si aggrappa nostalgico ai pochi residui, come a una certa idea patriottica di America che si rivela ben presto un’ideologia vuota, a cui Sam non si aggrappa preferendo lavorare a testa bassa. Sam si trova a fare i conti con una geografia nuova, tutta da inventare. Gli Stati Uniti diventano Città Unite (United Cities of America) ma nessuna ha nomi riconoscibili bensì titoli pratici, programmatici: Capital Knot City, Lake Knot City, Mountain Knot City, e via dicendo. E non potrebbe essere altrimenti, perché la stessa conformazione fisica del continente è cambiata, irriconoscibile sulla mappa: le voragini causate dalle CA, ad esempio, hanno prodotto vasti laghi mentre la West Coast pare separata da una terra incognita di catrame che ha sostituito il mare. L’interazione con lo spazio, dicevamo, è cruciale. Senza treni, aerei e nemmeno strade (Death Stranding, che trabocca di giochi meta-narrativi, ribalta il sistema di spostamento rapido esasperato dai videogiochi fino al cliché del “teletrasporto”: qui è assolutamente vietato, ogni centimetro va percorso faticando) l’inganno della civiltà che annulla le distanze è svanito e Sam Bridges ha di fronte a sé una carta bianca: sarà lui a tracciarvi delle linee scegliendo la rotta migliore da seguire, e col tempo i solchi lasciati dai piedi si faranno sentieri e infine strade, ponti, teleferiche. Interagire con lo spazio significa fare architettura, e il design degli edifici ha un ruolo centrale. Mirko Tommasino, ad esempio, ha definito “periscopi architettonici” i centri logistici e le knot cities sparse per la mappa, che assolvono unicamente la funzione di landmark per chi viaggia in superficie e di oblò sul mondo per chi è rintanato nei bunker, notando come richiamino, nella struttura essenziale e squadrata, edifici come la Banca Globale del Seme sulle Isole Svalbard.
Death Stranding insiste a più riprese sull’idea di geografia come scoperta dello spazio che ci circonda; in questo caso è una riscoperta perché l’America che ci era familiare è diventata a tutti gli effetti un paesaggio alieno, a tratti lunare, composto da brughiere inospitali, distese solforose, lagune, montagne innevate. E soprattutto è un terreno inesplorato, perché in pochi si avventurano sotto la cronopioggia. Se si affronta il gioco con pazienza e si accetta la disposizione contemplativa suggerita dai ritmi lenti e dalla colonna sonora eterea, il paesaggio regalerà squarci di bellezza inaspettata, di una comunione con la natura che è possibile solo in un mondo nudo; verrà voglia di scalare le montagne più alte o visitare un punto estremo della mappa per il solo gusto di farlo. Metà cartografo e metà architetto, Sam Bridges modella il territorio mentre lo scopre, aprendo varchi e spianando vie con il suo passaggio. È una metafora che parla anche di ambiti più quotidiani di quelli immaginati da Kojima: basta muoversi in un bosco fuori dai sentieri battuti per riscoprire come gli animali disegnino tutt’ora le proprie strade, oppure riflettere sul fatto che quando visitiamo una città, la sua mappa digitale e l’esperienza sensibile dei nostri piedi sull’asfalto sono due spazi che coesistono e si accavallano.
Per suggerirci tutto questo, Kojima mette in bella vista l’elemento corporeo. Sul fronte visivo, prima di tutto: Sam Bridges compare spesso nudo e muscoloso (ma è una muscolosità tutta pratica e per niente estetica), può urinare e defecare (le deiezioni e il sangue sono fondamentali per produrre armi letali contro le CA), fare docce e bagni termali; sulla pelle sono ben visibili le cicatrici, i segni del pesante zaino da corriere e la sporcizia rimediata lungo il viaggio. Ma soprattutto, e qui sta la componente più peculiare e discussa del gioco, Kojima vuole trasmettere la fisicità dell’esperienza di Sam Bridges tramite il gameplay. Ancora una volta, Death Stranding sembra divertirsi a ingannare il videogiocatore che si aspetta il solito protagonista power-player, instancabile, velocissimo, capace di spostarsi su ogni superficie senza cambiare passo. Sam invece è un uomo comune che fa il più umile dei mestieri. In una sorta di parabola cristologica, gli abitanti delle città-bunker finiranno per idolatrarlo, per eleggerlo a simbolo di speranza chiamando “Il Grande Messo”, ma è solo perché Sam svolge con abnegazione un lavoro che ha i tratti del sacrificio. L’inizio del gioco ha un effetto disarmante. Il carico sulla schiena, che può raggiungere proporzioni ridicolmente grandi, è pesante e ci sbilancia. Sam cammina a passi lenti, rischia di fermarsi in salita e di cadere in discesa, di inciampare sulle rocce e di farsi trascinare dall’acqua dei fiumi. Per bilanciare il carico è necessario tenere premuti i tasti R2 e L2, a simulare le mani che afferrano le cinghie dello zaino, una pressione continua che funge da piccolo simulacro della tensione muscolare di Sam, esattamente come accadeva in Shadow of the Colossus di Fumito Ueda per restare aggrappati ai corpi dei colossi. Dagli scontri con le CA sarà meglio fuggire trattenendo il respiro, perché la priorità è salvaguardare il carico: se cade, può rompersi. In un colpo solo, Kojima si prende gioco di due cliché del genere, tanto consolidati da minacciare la credibilità del mezzo videoludico nel momento in cui cerca di spingersi verso l’arte, verso un’espressività più raffinata. Uno è l’inventario pressoché infinito dei giochi di ruolo, che in Death Stranding dobbiamo invece pesare e distribuire minuziosamente sulla schiena. L’altro è il sistema delle fetch quest, missioni secondarie che diluiscono la trama principale dei giochi di ruolo dal game design più pigro invitando il protagonista a raccogliere un oggetto lontano e portarlo al personaggio richiedente: qui le fetch quest sono il cuore della trama, e l’effetto di ripetitività, per quanto rutilante, è voluto. Più avanti potremo sfruttare moto e autocarri, ma anche questi mezzi saranno lenti e goffi, inadatti a muoversi su terreni accidentati. Ci ritroviamo così a macinare chilometri su chilometri per aggirare le asperità del terreno, un fiume inguadabile o una zona soggetta a rovesci di cronopioggia, o magari a percorrere la stessa strada più e più volte per riportare indietro i carichi smarriti dagli altri corrieri. Il tutto in una mappa che, a ben vedere, non è affatto sconfinata come quella di altri videogiochi open world: ma ci appare grandissima perché faticando insieme a Sam capiamo quanto anche delle brevi distanze possano apparire enormi, e apprezziamo l’aiuto prezioso di scalette, chiodi da arrampicata, o anche un semplice segnale lasciato da un altro corriere per indicare la strada più agevole. In certi casi, per un imprevisto o per aver calcolato male le distanze, ci troveremo a sperimentare la disperazione più nera: persi sotto la pioggia o in una tempesta di neve, con la moto che ha esaurito la batteria oppure scivolati in un crepaccio, con un carico troppo pesante sulle spalle e un nugolo di CA alle calcagna. Sono attimi di grande frustrazione, ma sono anche le occasioni in cui il meccanismo di immedesimazione del giocatore con Sam Bridges, con i suoi grugniti di fatica e il suo ansimare, dà il meglio di sé.
Qui, dicevamo, risiede l’elemento più dibattuto da critica e appassionati e che può concentrarsi in una domanda: Death Stranding è un videogioco divertente? Può esserlo, quando il protagonista è un uomo comune e non un power-player? È una domanda che è destinata a restare aperta e che fa parte di un discorso più grande su cosa definisce oggi a un videogioco in termini di intrattenimento, interattività e dimensione artistica. A parere di chi scrive, le pecche di Death Stranding risiedono principalmente in una gestione un po’ frettolosa della trama, ansiosa di rivelare tutto e tutto insieme al punto da rendere il finale una sorta di film manovrato da un punto di vista onnisciente – forse un’ambizione, malcelata ma ancora acerba, dello stesso Kojima che ha avuto il via libera per produrre un blockbuster impreziosito da un cast hollywoodiano in performance capture (Norman Reedus nei panni del protagonista Sam, e poi Guillermo del Toro, Mads Mikkelsen, Léa Seydoux e altri ancora), ma spostandosi in territorio cinematografico ha forse mancato di dare la dovuta fiducia alle caratteristiche peculiari del medium videogioco. All’atmosfera del gioco avrebbe probabilmente giovato una narrazione più rarefatta e meglio distribuita, meno fitta di dialoghi e più misteriosa, fedele alla prospettiva dei personaggi che brancolano nel buio. Nel gameplay risiedono invece l’unicità, la carica espressiva e il potenziale interattivo del gioco. Soprattutto, il gameplay è onesto e mira dritto alla propria missione. Nello sconforto per la geografia oscura e per la fisica inesorabile del mondo di Death Stranding, il giocatore giungerà all’unica conclusione che conta: da soli le difficoltà non si possono affrontare. Bisogna aiutarsi a vicenda, anche con persone che non conosciamo e non vediamo. Ecco perché la funzione multiplayer è la chiave di lettura più importante del gioco. È un multiplayer asincrono: significa che non giochiamo in contemporanea con altri utenti, ma i giocatori all’interno dello stesso server potranno usufruire delle infrastrutture lasciate dagli altri e costruirne di nuove a beneficio della comunità, nonché occuparsi della manutenzione per evitare che vengano distrutte dalla cronopioggia. È un’emozione assistere alla mappa buia che poco per volta si riempie di puntini. Non ci sono le città o i comuni punti di riferimento InRealLife, ma appena vediamo le strade prendere forma la mappa ci restituisce subito una sensazione familiare, e realizziamo quanto il nostro essere umani significhi comunicazione, sia mentale che fisica. È come assistere a una civiltà che nasce in provetta, un singolare esperimento di collaborazione a distanza in ambiente sandbox, che peraltro smonta un’altra consuetudine dei videogiochi seguendo l’esempio virtuoso di titoli come Journey: solitamente il multiplayer è uno strumento che mette i giocatori l’uno contro l’altro, mentre le potenzialità della collaborazione restano ancora in gran parte inesplorate.
Ma tutta questa attenzione posta sulla fisicità sortisce anche un altro risultato, un effetto straniante. Percepiamo una grande solitudine mentre viaggiamo per il continente, tanto che è previsto un tasto apposito per gridare a gran voce in cerca di compagnia. A volte c’è qualcuno che ci risponde, a simulare quei compagni d’avventura in multiplayer che però non vediamo. Se ci aggiungiamo l’aura di mistero che avvolge Death Stranding, si sperimenta a tratti il dubbio che la vicenda di Sam non sia reale. La grandissima maggioranza delle persone che incontriamo e con cui interagiamo sono ologrammi, con i corpi al sicuro nei bunker sotterranei. Quando raggiungiamo una nuova città le informazioni su schermo ci dicono che conta 70.000, 80.000, 100.000 abitanti, ma non li vediamo. Potrebbe essere una menzogna, e Sam potrebbe essere una sorta di ultimo uomo sulla terra, per quel che ne sappiamo. Ci troviamo, del resto, in un mondo i cui confini sono nebulosi e i cui punti cardinali sembrano ribaltati allo stesso modo dell’arcobaleno. Sembra di trovarci nella Zona di Stalker, il film di Andrej Tarkosvkij, o nell’Area X di Jeff Vandermeer, entrambi luoghi-personaggio che non si curano dell’individualità umana e dettano le proprie leggi fisiche. Oppure nella Seconda Unione Sovietica di Terminus Radioso di Antoine Volodine, dove gli individui si aggirano senza movente, senza coscienza e senza un’idea dello scorrere del tempo, come se abitassero nel sogno di qualcun altro, incapaci di morire e pertanto impossibilitati a dare significato alla propria esistenza. Vita e morte in Death Stranding cessano di essere concetti polarizzanti: ci sono i riemersi come Sam e le CA, entrambi intrappolati in un limbo, e ci sono le Spiagge, approdi verso l’aldilà, luoghi spirituali a cui ogni uomo può accedere come in un viaggio mistico. Ma le Spiagge sono anche luoghi geografici, autentiche tasche di realtà da cui si può osservare il mondo pur non facendone parte. Con questa soluzione, inscenando un’esperienza narrativa che ha le qualità del viaggio onirico, della simulazione, del tuffo psicanalitico nel subconscio, Kojima avanza la sua soluzione al paradosso di Eugene Thacker, l’impossibilità per l’uomo di pensare a un mondo privo di se stesso, e disegna a tutti gli effetti una bozza del mondo-senza-di-noi thackeriano. È un mondo che, per restare sul piano filosofico, ha superato la metafisica antropocentrica che l’occidente ha abbracciato da Kant in poi, dove ogni fenomeno è valutato attraverso il filtro della nostra mente. O meglio; la prospettiva di chi abita questo pianeta dilaniato è sempre centrata sull’uomo – e forse non potrebbe essere diversamente – ma il mondo è finito fuori dalla portata del pensiero umano e procede con un’ontologia indipendente, del tutto simile alla object oriented ontology, filiazione heideggeriana tra i cui prodotti troviamo la recente disamina di Timothy Morton in Iperoggetti: fenomeni così ampiamente distribuiti e dall’impatto talmente grande da trascendere la specificità spaziotemporale – il Death Stranding rientra a pieno titolo nella descrizione.
Le reazione di Sam Bridges a questa realtà straniante è una strategia nichilista, anedonica, che crea una spaccatura tra il protagonista e il giocatore che lo interpreta. Sam è di poche parole e non si apre nemmeno quando emergono cenni di un passato travagliato, ha un volto inespressivo, professa indifferenza per la missione che pure ha intrapreso con tanta diligenza, non si affeziona ai personaggi che incontra (e come potrebbe, del resto? O si tratta di ologrammi, o di colleghi come Fragile, che però non può toccare per via della sua afefobia). L’unico legame che stringe è quello con il Bridge Baby, al punto da battezzarlo con un nome, Lou: da un lato è in gioco l’istinto paterno, dall’altro la sintonia con una creatura che come lui non appartiene pienamente al mondo dei vivi, che lo osserva di sbieco, dall’esterno. Eppure Sam continua a viaggiare a testa bassa e con la schiena ingobbita, e l’immedesimazione nella sua fatica è totale. La dissonanza cognitiva tra personaggio è giocatore è stridente, a tratti dolorosa, ma rispecchia la natura stessa del protagonista, incapace di comunicare con gli altri tanto quanto con se stesso. Per certi versi, appassionandosi alla vicenda il giocatore si ritrova a incarnare il subconscio di Sam, quei sentimenti che restano sopiti e che soltanto nel finale verranno espressi: per quanto labili, Sam finirà per trovare conforto, speranza e stimolo proprio in quei rapporti umani che all’inizio disprezzava.
Il contrappasso dell’antropocene
Death Stranding è certamente una narrazione dell’antropocene. La riflessione sull’impronta umana sul pianeta è centrale, e l’intera trama può essere letta come lo strenuo, a tratti sciocco tentativo di un gruppo di sopravvissuti di tessere una narrazione antropocentrica in un mondo che non è più a misura d’uomo, che ha scalzato l’umanità dal piedistallo. Ma anche qui Kojima opera un plot twist che ne svela la sensibilità sul tema. L’evento che ha scatenato il collasso, il Death Stranding, è privo di colpa e di significato. È un corto circuito cognitivo del mondo, che di colpo ha cominciato a confondere la vita con la morte. Non c’è nessun virus sfuggito a un laboratorio per armi batteriologiche, nessuna guerra che ha dato fondo agli arsenali nucleari, nessuna rivolta di animali o piante per punire la hybris umana. Ma al tempo stesso, non c’è nemmeno una crudele forza aliena o una divinità capricciosa. L’uomo non è la vittima. È spaesato, tremendamente confuso, ma si rimbocca le maniche perché nel darsi di fare, anche se a vuoto, spera di ritrovare una strada. Anzi, per certi versi il mondo di Death Stranding è un trionfo dell’antropocene, è il giardino per cui l’uomo ha lavorato da secoli portato alle sue estreme conseguenze. Intanto, è un mondo che esiste solo per l’uomo. Non ci sono animali, non è dato sapere che fine abbiano fatto, eccetto i pesci – già morti – che piovono ogni tanto dal cielo. Persino la vegetazione è scarna, ci sono solo alcune rare abetaie, e per il resto erba e rocce inerti. Non c’è la notte: Sam può scegliere di riposarsi, ma nulla gli vieta di proseguire il viaggio con il carico in spalla in un’unica, lunghissima giornata lavorativa. E la cronopioggia non è altro che il motore del progresso sfuggito al nostro controllo, un’accelerazione folle che spinge in avanti il tempo deteriorando gli oggetti più velocemente di quanto sappiamo costruirli: un’apoteosi del consumismo. E fondamentalmente, non esiste la morte. In altro contesto sarebbe la più grande conquista della civiltà umana, ma in Death Strading è una sorta di contrappasso dantesco, è il mondo che si materializza quando non si presta attenzione agli effetti collaterali del realizzare un desiderio con la forza bruta. E poi, è significativo che nessuno faccia appello a dio, che non venga mai menzionato nemmeno per lamentare che dio è morto. Death Stranding vuole dirci che nel collasso della civiltà, il fatto che dio sia morto è un dato di fatto, una base di partenza, una tautologia che non vale nemmeno la pena di pronunciare.
Procedendo nella trama, scopriamo frammenti del passato del pianeta e cominciamo a intuire la natura della catastrofe. Ci sono state altre cinque estinzioni di massa prima di quella attuale (noi lo sappiamo, certo, ma non un continente che ha perso la memoria) e il Death Stranding ha lasciato tracce geologiche comparabili alle estinzioni precedenti. L’uomo non è diverso da un dinosauro o da un’ammonite. Il suo impatto sul pianeta, che reputiamo tanto grande da battezzare un’era con il suo nome, è invece insignificante agli occhi degli immensi cicli di creazione e distruzione che dominano l’universo. La natura pare comportarsi come nell’ipotesi di Medea del paleontologo Peter Ward: è una natura matrigna che a intervalli di millenni strangola i propri figli per premere il tasto reset dell’evoluzione e ripartire con il motore biologico dei microbi. Quando capiamo che il fulcro della catastrofe, la chiave del Death Stranding, è proprio Amelie, la sorella di Sam, non è casuale che questa prenda il nome di entità estintiva. Un titolo neutro: Bridget è la causa scatenante della catastrofe, è stata la prima a ritrovarsi spiaggiata nel limbo tra vita e morte e ha aperto il varco, diventando il ponte tra i due mondi e acquisendo il potere di manipolarli entrambi. È responsabile, ma non colpevole. È come se questa natura-Medea l’avesse scelta, in base al puro caso, per fungere da agente dell’estinzione come a suo tempo lo fu il meteorite del Cretaceo-Paleocene. Ma la differenza è che l’uomo non sa abbandonare la narrazione antropocentrica che l’ha accompagnato in ogni step della civilizzazione, nemmeno al cospetto di un evento estintivo che si è già messo in moto. Quello di Death Stranding è un mondo assolutamente non a misura d’uomo: eppure, la visione ecologica di chi vi abita resta irrimediabilmente antropocentrica. Quando Amelie diventa cosciente del ruolo di cui la natura l’ha investita, la sua reazione incarna la componente capricciosa dell’animo umano, che non si rassegna all’impotenza, che vuole continuare a sentirsi speciale, il figlio prediletto del pianeta. Per interpretare la parte dell’entità estintiva, Amelie sceglie la strada del delirio e la dinamica del gioco. Mentre lei è bloccata sulla Spiaggia il suo rappresentante nel mondo dei vivi, Higgs, indossa la maschera del folle nel senso foucaultiano del termine, e i terroristi sotto il suo comando sono gli Homines Demens. Se l’estinzione è inevitabile, perché non andarcene da protagonisti, accelerando il processo e portandoci dietro ogni essere vivente e il pianeta stesso, anziché attendere le migliaia di anni che la natura impiegherà per fare il suo corso? Questo è il pensiero di Amelie, questo il motivo per cui il Death Stranding è tanto catastrofico. Ed è in effetti un pensiero che potremmo condividere. I tempi geologici sono impossibili da percepire per i nostri sensi, tanto vale consegnarci subito alla fine senza attendere nella sofferenza. Ma nel mondo di Death Stranding è cambiato qualcosa. Poiché la bussola del tempo si è fermata, Sam e gli altri hanno imparato a cogliere l’entità di tali distanze e con essa la differenza tra i due scenari ipotizzati da Amelie. Si rendono conto che anche se l’estinzione è irreversibile, quelle migliaia di anni saranno importanti per chi continuerà a vivere, per i prepper isolati a cui Sam ha portato risorse preziose, per le città che ha collegato alla rete chirale e per i centri logistici che ha rimesso in funzione. Persino un anno o un singolo giorno potrebbe essere importante per loro. Ed è per questo che, prima per inerzia e poi sempre più coscientemente, Sam sceglie di resistere.
Il domani è nelle nostre mani
Ma perché ribellarci all’estinzione, se non c’è speranza? Perché resistere, perché combattere? Una guerra che non possiamo vincere non è forse priva di significato? Queste sono le domande insite nel punto di vista di Amelie e Higgs, su cui Kojima ci lascia riflettere prima di dare la sua opinione sul dubbio. La chiave sta nella lotta stessa, nel modo in cui lottiamo e nelle persone che ci accompagnano e che scegliamo di proteggere – e da cui scegliamo di lasciarci aiutare. È l’elemento multiplayer di Death Stranding, l’aiuto mutuo e invisibile con gli altri giocatori, a dare corpo all’esperienza del videogioco, a trasmettere il suo messaggio. Nel finale, la dissonanza cognitiva tra il giocatore e Sam si sana proprio intorno a questo punto: anche lui si rende conto di essersi affezionato alle persone che ha incontrato lungo il cammino, di avere cominciato a lottare per difendere quei deboli legami.
“Mi sento sempre solo nella società”, ha detto Kojima in una recente intervista. “Ci sono tantissime persone appassionate di videogiochi che si sentono così, come se non appartenessero alla società. Non si sentono davvero a loro agio. Sei lì da solo, giochi a questo videogioco, e cerchi di connettere questa società fratturata con le tue forze. Il mondo è bellissimo ma tu sei piccolo, un puntino minuscolo. Ti senti disperato, isolato e impotente. Ti senti così solo. Ma quando giochi a Death Stranding, ti rendi conto che esistono persone come te sparse in tutto il mondo. Capisci che, anche se ti senti solo, ci sono altre persone come te e questo ti fa stare bene. È questa la sensazione che vorrei che tutti provassero giocando a questo gioco”.
È anche da queste parole che intuiamo che Death Stranding funziona perché, per quanto ne segua certi tòpoi post-apocalittici, non è la riproposizione di una distopia già vista. È la metafora di un presente che si trova già nel cuore di una catastrofe, che è già sul punto del collasso climatico e sociale, ma che si sforza di pensare e attuare una rivoluzione, per quanto incerta, piccola e silenziosa. Forse è anche per questo che lo scenario del videogioco si è rivelato così attinente, così sinistramente fedele alla forma che sta assumendo il nostro mondo in quarantena. Kojima non è certo un profeta: ha semplicemente anticipato una tensione latente e interpretato con chiarezza le tendenze sociali e politiche. Non si cura di non apparire politically correct quando menziona che si è ispirato all’elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti e al voto a favore della Brexit in Gran Bretagna per disegnare un mondo che preferisce chiudersi e che finirà inevitabilmente per fratturarsi e andare in cancrena, privo dei ponti che ha tagliato.
“Viviamo in un’epoca di individualismo” ha detto. “Ciascuno di noi è fratturato, nonostante internet. Ogni cosa è connessa, in ogni parte del mondo, eppure lottiamo l’uno con l’altro”. Il patriottismo stantio delle UCA, in questo senso, mostra proprio come l’idea di umanità declinato nella politica occidentale sia un progetto che ha fallito. Alcune comunità si rifiutano di entrare a far parte delle Città Unite, e a nessuno interessa sventolare la bandiera di un paese senza territorio né presidente; tanto meno Sam è disposto a fare da megafono della propaganda. Ma la rete chirale che diffonde per il continente funziona perché connette i singoli individui e li aiuta, li collega a un network ben più profondo della grottesca parodia di un’istituzione politica. L’umanità non è un valore da salvare. “Gli umani sono poi così importanti?”, si domanda una e-mail che uno dei prepper spedisce a Sam, per poi spiegargli come, ai suoi occhi, la singolarità del Death Stranding sia l’estremo tentativo dell’umanità di conservare la propria identità. “Gli umani diventano CA. Gli umani causano le voragini, ruota tutto intorno a noi. Noi moriamo, certo, ma almeno ce ne andiamo facendo un bel botto. Forse il passo successivo sarebbe cercare di raggiungere la singolarità, farsi spazzare via del tutto”. L’uomo, intuiamo, è un animale capriccioso, ma in verità non può nemmeno farsi grande arrogandosi la colpa dell’antropocene e battezzando un’estinzione. L’umanità frammentata, fratturata, di cui parla Kojima è un organismo che ha concluso la sua parabola vitale. Ma si può e si deve tornare a connettere il mondo a partire dai singoli uomini e le singole donne. Sono loro i valori da salvare.
Ce lo dice anche la scelta di Kojima di assegnare a ogni personaggio un nome parlante, programmatico. Heartman è un uomo generoso e appassionato, che ogni tre minuti subisce un arresto cardiaco che lo manda in uno stato d’incoscienza, nell’aldilà della Spiaggia per cercare la sua famiglia. Deadman è una creatura di Frankenstein, un corpo realizzato con pelle morta ma che ha un’anima viva, affine a Sam. Mama è rimasta intrappolata nel Death Stranding durante il parto e accudisce una CA come se fosse un figlio, ancora legato a lei dal cordone ombelicale. E così per tutti gli altri personaggi fino allo stesso Sam Porter Bridges: il pontifex, il costruttore di ponti. Ogni uomo è un simbolo, sembra suggerirci Kojima, un concetto prezioso da proteggere. Strade, ponti, nodi, mani, reti, persino cordoni ombelicali: il tessuto metaforico di Death Stranding è tutto teso a dirci che i legami sono indispensabili e che è impossibile resistere da soli. Ritornando alla pandemia di Covid-19 che stiamo vivendo in questi giorni, certamente l’evento catastrofico può dare un calcio alla storia scuotendo lo stato delle cose, ma Kojima ci avverte che la catastrofe non ha valore morale, non si cura di noi, divide le persone anziché unirle: è impensabile che operi rivoluzioni sociali o ripulisca il mondo dai suoi mali (si pensi a Slavoj Žižek che suggerisce che la pandemia abbia un certo grado di agentività e possa “dare nuovo slancio al comunismo”). Quello spetterà a noi, agli individui che resisteranno e proveranno a riprendere la strada insieme nell’aftermath. Qui la visione di Kojima sembra coincidere esattamente con le parole di Byung-Chul Han, che recentemente ha scritto per El Paìs:
“Il virus non sconfiggerà il capitalismo. Non ci sarà alcuna rivoluzione virale. Nessun virus è in grado di fare la rivoluzione. Il virus ci isola e ci individua. Non genera alcun forte sentimento collettivo. In un modo o nell’altro, ognuno si prende cura solo della propria sopravvivenza. La solidarietà che consiste nel mantenere le reciproche distanze non è una solidarietà che ci permette di sognare una società diversa, più pacifica e giusta. Non possiamo lasciare la rivoluzione nelle mani del virus. Speriamo che dopo il virus arrivi una rivoluzione umana. Siamo noi, persone dotate di ragione, che dobbiamo ripensare radicalmente e limitare il capitalismo distruttivo, e anche la nostra mobilità illimitata e distruttiva, per salvarci, per salvare il clima e il nostro bellissimo pianeta”.
Se le narrazioni possono essere una prova tecnica per tornare a connettere gli individui in un presente fratturato, allora i videogiochi sono uno dei campi di esercitazione migliori: come diceva lo stesso Kojima, i videogiochi sono spesso popolati da persone che si sentono sole, estranee alla società, ma allenate a riconoscere e custodire legami invisibili, a immedesimarsi interattivamente nella storia di qualcun altro. Death Stranding ha fatto riflettere e parlare di sé, e la carica immaginaria che possiede potrebbe farlo maturare ulteriormente con il tempo. Già dai primi giorni dopo l’uscita, le riviste del settore registravano casi di giocatori che avevano sposato in pieno la componente multiplayer e non proseguivano nella trama per completare il gioco: piuttosto, setacciavano il continente per raccogliere i carichi caduti agli altri corrieri e costruivano infrastrutture per aiutare i nuovi arrivati. Viene in mente l’emozione poetica che si prova giocando a un altro titolo dal sistema multiplayer collaborativo: Journey, dove il nuovo giocatore può imbattersi in un altro utente, più abile ed esperto, e lasciarsi accompagnare tra i labirinti dei vari livelli senza parlare, comunicando soltanto con il linguaggio del corpo dei rispettivi personaggi; la perla indie Kind Words, dove si possono ricevere parole d’incoraggiamento da giocatori sconosciuti; o un titolo della serie Dark Souls, con i messaggi misteriosi lasciati da altri avventurieri come se potessimo trarre esempio dalla loro morte e non ripeterne gli errori. Tornando ai riferimenti meta-narrativi di cui Kojima ha infarcito Death Stranding, questo è un altro schiaffo a chi intende i videogiochi come uno sfoggio di power-play, una terra di conquista per supereroi in un mero tentativo di fuga dalla realtà; un sentimento che somiglia peraltro all’idea capricciosa e orgogliosa dell’umanità di Amelie e Higgs. In Death Stranding sei tu il protagonista, sei tu Sam, il Grande Messo: ma quando gridi ai quattro venti “Sono Sam”, le voci dei compagni di viaggio invisibili ti rispondono “Ehi, anch’io sono Sam”. Siamo tutti Sam Bridges, e il domani – come recita una delle tagline del gioco – è nelle tue mani: cioè in quelle di ciascuno e di tutti.
Non gioco e non avevo mai fino ad ora riflettuto sulla profondità filosofica e cosmologica che sta dietro e dentro questi mondi. Grazie a questa recensione. ririteng
Complimenti, ottima recensione, completa senza spoiler, recensione che intreccia argomenti attuali con la trama del videogioco.
Questo articolo, chiaro e molto esaustivo, dovrebbe fare da insegnamento ai giornalisti ben più navigati a cui ormai la penna fa male in una vecchia e corrotta mano. Continua così, rimani sempre te stesso, sviscera la verità e trova i nessi. Questo è giornalismo.
Mirabolante recensione. Non gioco, ma seguo la trama grazie a mio figlio, dodicenne appassionato. Mi hai fatto venire ancora più voglia di passare quell’oretta sul divano per condividere con lui le fatiche di Sam e alleviare, almeno a mio figlio, il desolante e alienante cammino solitario nelle terre di Death Stranding.