Storie che si biforcano è un libro dalla struttura insolita, più simile a un labirinto che a una raccolta di racconti. I racconti compaiono nel libro due volte, con il finale diverso, ribaltato. L’intera struttura del libro – e di conseguenza l’esperienza di lettura – gioca su queste differenze: è come se al centro del libro ci fosse uno specchio, ma uno specchio ingannevole, che distorce e ribalta l’immagine quanto più ci si avvicina.
In copertina e nel testo: Bot Gard Maze, (c) Time Magazine
Senza eguali. La stanza di sopra
Il pregiudizio che la civiltà moderna ha faticato di più ad espungere è stato senz’altro quello dell’eguaglianza tra gli esseri umani. Quando oggi pomeriggio Bartolomeo è entrato nello studio a portarmi il caffè, ho voluto bonariamente canzonarlo, e gli ho mostrato il foglio incartapecorito che ho davanti. Come c’era da aspettarsi non ha capito nulla, né quello che c’è scritto né tantomeno che si tratta di un documento antico. Ha preso a fissarmi con gli occhi leggermente sbarrati, come fa quando qualcuno in sua presenza parla di argomenti diversi dal cibo e dalle pulizie domestiche. Ho sorriso tra me, l’ho rassicurato dandogli un buffetto sulla guancia e un ordine per la cena, e l’ho congedato. Non che volessi metterlo alla prova o cercassi conferme. Intendevo solo toccare con mano, dopo una lettura inquietante come tutte quelle che si riferiscono alle ere passate, una realtà felicemente assodata. Oggi pare sinistramente ridicolo, ma vi sono stati lunghi secoli in cui il principio secondo il quale gli uomini, per il solo fatto d’essere tali, sarebbero tutti eguali tra loro e ciascuno non diverso da ogni altro, andava per la maggiore. Non solo era propugnato da teoreti degenerati, ma anche assunto nel comune sentire della così detta opinione pubblica. Salvo poi essere smentito in pratica, con azioni naturaliter prevaricatorie e razziste, proprio da coloro che se ne facevano vessilliferi; ma questo ci dice meno sulla conclamata ipocrisia dei nostri avi, che sull’effettiva inconsistenza di tale superstizione egualitaria. Eguaglianza che per gran tempo si volle tanto biologica quanto intellettiva, sia davanti alle leggi sia nei commerci quotidiani, e che le frange più accese provarono a imporre financo nei compensi lavorativi e nelle opportunità di contrarre matrimonio.
Ogni tanto, in qualche area non bonificata, dalle brume di quel passato dimenticabile emerge un documento come questo. Il mio compito è quello di esaminarlo, classificarlo come rimovibile, procedere alla conseguente rimozione, e infine sottopormi alla seduta di decontaminazione, al termine della quale avrò obliato anche il più insignificante particolare del documento stesso. Ma prima posso trastullarmici un po’. Questo, ad esempio, sembrerebbe uno di quegli esercizi assegnati nelle opprimenti istituzioni dette all’epoca scuole dell’obbligo. Ha una sorta d’introduzione, probabilmente indicazione del docente, che così recita: “Tema. Gli storici classici hanno lasciato varie Vite di uomini illustri. Il romanziere contemporaneo Giuseppe Pontiggia ha rovesciato il modello, scrivendo Vite di uomini non illustri. Racconta la vita di un uomo comune, magari mettendola in parallelo con quella dell’uomo straordinario che gli è vissuto a fianco”. L’aberrante impostazione ideologica di tale traccia è palese in espressioni quali uomo comune, in parallelo, a fianco. Ma peggiore è l’insinuazione sottesa: che ogni singolo alunno di quella scuola potesse, anzi dovesse, essere in grado di svolgere una mansione così specifica come quella di scrivere una storia. Con sollievo si può leggere lo svolgimento del compito, che se da un lato esegue diligentemente quanto richiesto, dall’altro introduce una implicita critica e smaschera la finzione egualitaria: nel piccolo scolaro di quest’epoca barbara già fermentavano i germi dell’uomo nuovo.
“Me ne sto andando, lo so. Sento lo squillo, sempre quel maledetto squillo, una vita passata a rispondere al telefono: ‘Lorraine motel buongiorno’. Ma ora squilla a vuoto, lo sento, ma non posso rispondere. Sto qui a terra, dietro al bancone, e non riesco a muovermi: il corpo è già morto, il cervello ancora funziona, ma per poco. Posso sentire, posso pensare, ancora qualche secondo e poi finisce quest’ultima ondata di sangue, perché il cuore ha smesso di pomparlo, è sempre il cuore che cede per primo. Il mio cuore debole, che prima o poi cedeva me l’avevano detto fin da piccolo, non correre troppo, non giocare troppo, non vivere troppo, che tieni il cuore debole. Così quando oggi è arrivato lui, imponente, circondato da tutti quegli altri omoni ancora più grossi, che parlavano forte e davano ordini e si guardavano attorno, subito mi è venuta la tremarella, ho incominciato a sudare e ho pregato e ho pensato che era venuto il momento. Anche adesso, li sento dal piano di sopra, che continuano a parlare sempre più forte e a comandare cose l’uno all’altro e a bestemmiare che non rispondo a telefono. Il maledetto telefono che è stato il mio tormento e la mia vita, che mi ha salvato dalla miniera o dalle cose simili che aspettano quelli come me, ma io tenevo il cuore debole, e devo ringraziarlo, insieme a mister Smith che parlò con il direttore dell’albergo, il ragazzo ha il cuore debole, è nero ma ha pure studiato un po’, alla reception può lavorare. Altro che un po’, studiare avevo studiato e pure parecchio, non solo la Bibbia e i libri della chiesa, non hai molto altro da fare se sei un negretto della Louisiana e tieni il cuore debole, non fumare non suonare il clarinetto non fare le porcherie né da solo né in compagnia. Ma quale compagnia, che le ragazze non le guardavo e non mi guardavano, almeno finché non incontrai Linda, allora per la prima volta mi accorsi che veramente tenevo il cuore debole, e mi accorsi pure che è il cuore che si innamora, altro che modo di dire, il cuore che mi era sceso nello stomaco e lo faceva ballare. Per Linda lasciai perdere i miei giornali e i miei libri, altrimenti chi sa a quest’ora dove sarei, forse al Congresso o forse in carcere, o forse nello stesso posto dove sono ora, solo un piano più sopra, ma comunque a terra, con il cuore che smette di pompare. Anche quello me l’avevano detto, sia i bianchi sia i neri, non pensare non protestare non aggredire, se no finisce male. Mi sposai, mi presi il lavoro, mi accontentai. Mi rassegnai, cioè, ma può capitare, se sei un negro con il nonno negro e il nonno del nonno negro, e nonni e nonni che si sono spaccati la schiena negra nei campi di cotone, bianco. Può capitare, dico, che ti ribelli e stringi i pugni e prendi un’arma oppure semplicemente ti siedi sull’autobus al posto sbagliato che però secondo te è quello giusto. Puoi diventare un omone imponente come il reverendo, o incazzato come quell’altro fratello, tanto diverso ma pure lui è finito male, proprio uguale. Oppure può capitare che ti rassegni, che ti sembra già tanto quello che hai, una bella moglie e tanti bei figli tutti belli neri come te, un lavoro faticoso e noioso ma menomale che c’è perché li devi crescere e mantenere, e faticare il giorno e se serve faticare anche la notte, e così succede che mentre il reverendo aveva un sogno, io per la maggior parte del tempo avevo solo un gran sonno, e anche poco fa quando il colpo è esploso mi ero appena appisolato sul bancone, prima di capire quello che era successo stavo già a terra immobile, e il cuore debole che tengo era partito, anzi si era fermato, e poi ho iniziato a sentire le urla dal piano di sopra e il maledetto telefono si è messo a squillare, e tra uno squillo e l’altro la parola che sento ripetere è ambulanza, e lo so che non è per me che vogliono quest’ambulanza, chi se ne importa di me, chi vuoi che ricorderà, domani o tra dieci anni o tra cento, che il telefonista del Lorraine motel fu ammazzato, involontariamente e indirettamente, dallo stesso colpo di pistola che uccise il reverendo Martin Luther King?”*.
* In realtà il documento non finisce qui, c’è un’appendice scritta con diversa grafia, presumibilmente vergata dal docente. Non l’ho inserita nel testo per non inquinare la purezza del finale, ma essa è comunque degna di nota perché ancora una volta getta luce sulla pervicacia dell’infame pregiudizio di uguaglianza.
“Discreto nella forma, scrivi benino ma questo già si sapeva. Terrificante nel contenuto: te lo sei completamente inventato! Ora, passi la finzione narrativa degli ultimi pensieri del moribondo, passino gli strafalcioni in geografia (Memphis, città dove si svolsero i fatti, è nel Tennessee, quale Louisiana!), passi anche l’inesatta ricostruzione degli avvenimenti (peraltro controversa: la persona alla reception non rispose a telefono perché era salita nella stanza di sopra in seguito allo sparo; secondo alcuni si sentì male alla vista della scena di sangue, secondo altri perché si rese conto che aveva involontariamente cooperato con gli assassini, invitando il reverendo ad affacciarsi al balcone). Hai però commesso un errore fatale di identità, che denuncia la natura integralmente fasulla del tuo scritto: ma più grave è l’origine del tuo errore, che fa emergere la sostanza profondamente discriminatoria e razzista dei tuoi processi mentali. Sei stato sviato dall’espressione inglese phone operator, da cui non risulta il genere; ma sarebbe bastato qualche minuto di ricerca in più per scoprire che alla reception non c’era un dipendente, bensì il comproprietario dell’hotel, nonché consorte dell’altro proprietario Walter Bailey: la signora Lorraine”.
Senza eguali. La stanza di fianco
Il pregiudizio che la civiltà moderna ha faticato di più ad espungere è stato senz’altro quello dell’eguaglianza tra gli esseri umani. Quando oggi pomeriggio Bartolomeo è entrato nello studio a portarmi il caffè, ho voluto bonariamente canzonarlo, e gli ho mostrato il foglio incartapecorito che ho davanti. Come c’era da aspettarsi non ha capito nulla, né quello che c’è scritto né tantomeno che si tratta di un documento antico. Ha preso a fissarmi con gli occhi leggermente sbarrati, come fa quando qualcuno in sua presenza parla di argomenti diversi dal cibo e dalle pulizie domestiche. Ho sorriso tra me, l’ho rassicurato dandogli un buffetto sulla guancia e un ordine per la cena, e l’ho congedato. Non che volessi metterlo alla prova o cercassi conferme. Intendevo solo toccare con mano, dopo una lettura inquietante come tutte quelle che si riferiscono alle ere passate, una realtà felicemente assodata. Oggi pare sinistramente ridicolo, ma vi sono stati lunghi secoli in cui il principio secondo il quale gli uomini, per il solo fatto d’essere tali, sarebbero tutti eguali tra loro e ciascuno non diverso da ogni altro, andava per la maggiore. Non solo era propugnato da teoreti degenerati, ma anche assunto nel comune sentire della così detta opinione pubblica. Salvo poi essere smentito in pratica, con azioni naturaliter prevaricatorie e razziste, proprio da coloro che se ne facevano vessilliferi; ma questo ci dice meno sulla conclamata ipocrisia dei nostri avi, che sull’effettiva inconsistenza di tale superstizione egualitaria. Eguaglianza che per gran tempo si volle tanto biologica quanto intellettiva, sia davanti alle leggi sia nei commerci quotidiani, e che le frange più accese provarono a imporre financo nei compensi lavorativi e nelle opportunità di contrarre matrimonio.
Ogni tanto, in qualche area non bonificata, dalle brume di quel passato dimenticabile emerge un documento come questo. Il mio compito è quello di esaminarlo, classificarlo come rimovibile, procedere alla conseguente rimozione, e infine sottopormi alla seduta di decontaminazione, al termine della quale avrò obliato anche il più insignificante particolare del documento stesso. Ma prima posso trastullarmici un po’. Questo, ad esempio, sembrerebbe uno di quegli esercizi assegnati nelle opprimenti istituzioni dette all’epoca scuole dell’obbligo. Ha una sorta d’introduzione, probabilmente indicazione del docente, che così recita: “Tema. Gli storici classici hanno lasciato varie Vite di uomini illustri. Il romanziere contemporaneo Giuseppe Pontiggia ha rovesciato il modello, scrivendo Vite di uomini non illustri. Racconta la vita di un uomo comune, magari mettendola in parallelo con quella dell’uomo straordinario che gli è vissuto a fianco”. L’aberrante impostazione ideologica di tale traccia è palese in espressioni quali uomo comune, in parallelo, a fianco. Ma peggiore è l’insinuazione sottesa: che ogni singolo alunno di quella scuola potesse, anzi dovesse, essere in grado di svolgere una mansione così specifica come quella di scrivere una storia. Con sollievo si può leggere lo svolgimento del compito, che se da un lato esegue diligentemente quanto richiesto, dall’altro introduce una implicita critica e smaschera la finzione egualitaria: nel piccolo scolaro di quest’epoca barbara già fermentavano i germi dell’uomo nuovo.
“Me ne sto andando, lo so. Sento lo squillo, sempre quel benedetto squillo: una vita passata a scattare in piedi al richiamo del campanello, qualsiasi fosse l’ora del giorno, e soprattutto della notte. Lo sento, ma so che non può essere vero, è solo nella mia testa, ormai. Il Conte non può chiedermi di suonarla ancora, nelle condizioni in cui mi trovo. Sto qui steso, nel letto, e non riesco quasi a muovermi; il corpo muore lentamente, gli organi mi stanno abbandonando uno a uno, l’ultimo a lasciarmi sarà il cervello. È sempre il cervello che si arrende per ultimo, l’ho imparato a mie spese quando ho capito, ahimé troppo tardi, che non avevo il minimo talento per la composizione. Il maestro mi diceva: ‘Sei un ottimo esecutore, il migliore tra i miei allievi’. Non intuivo che dietro al complimento c’era una consolazione. E così mi sono trovato a lavorare per questo ricco e nobile signore: non è il peggio che ti possa capitare, se sei un musicante della Renania-Palatinato. Né strano è che il nobil signore fosse tanto colmo di ricchezze e tanto privo d’altri crucci, da essere afflitto da una cronica mancanza di sonno. Il peggio venne quando il mio signore pensò che la medicina per la sua insonnia fossi io.
Il meccanismo della mia vita, e del mio tormento, fu organizzato in modo minuzioso: due stanze, due letti, due strumenti, una parete sottilissima a dividerli. In una stanza, il Conte con il suo inutile giaciglio e un campanello, strumento della mia schiavitù: quando i fantasmi dell’insonnia e del rimorso si facevano insopportabili, partiva lo squillo, ed era un ordine perentorio. In mezzo, l’insignificante muro, che nasconde alla vista ma consente il passaggio al più flebile suono. Nell’altra stanza, io con il mio agognato giaciglio e un clavicembalo, strumento della sua delizia: quando il trillo convenuto e temuto si faceva sentire, scattavo alla tastiera, e iniziavo a suonare. Nei primi tempi pensai di dover moltiplicare canoni e fughe finché il Conte non cadesse addormentato: da un lato fui punto sul vivo, ché mai avrei osato pensare alla musica come metodo soporifero; dall’altro ero pieno d’affannosa speranza, chiedendomi come avrei capito che il mio signore era ormai passato dalle mie indegne cure a quelle affettuose di Morfeo, e quando avrei potuto, anzi dovuto, fermarmi. Il mio sogno era diventato il suo sonno.
-->Sbagliavo: quello che il Conte voleva non era una foresta in cui perdersi, ma un labirinto in cui ritrovarsi. Non un groviglio di suoni che lo consegnasse a un sonno senza più ricordi, ma un sentiero di note che lo conducesse a un pensiero senza più dubbi. Mancava dunque una cosa perché il meccanismo fosse perfetto: il tocco del maestro. E il mio maestro superò se stesso: compose un’aria, sul ritmo di una sarabanda, e trenta variazioni. Trenta variazioni governate dalle ferree leggi della matematica musicale, ma di lunghezza e di natura le più diverse: dal severo canone alla toccata bizzarra, dal festoso contrappunto alla riflessione dolente. Trenta variazioni che a volte sembrano acquistare senso solo se ascoltate tutte di seguito, ma nella maggior parte dei casi sono assolutamente godibili anche se prese singolarmente. Per lunghi anni quelle variazioni divennero l’unica luce delle nostre notti.
Ho sempre pensato, peccando d’orgoglio, che l’esecutore di un brano sia un in certo modo superiore al compositore stesso. Questi compone una volta: scrive e subito dimentica, passando oltre. L’esecutore si accosta a una pagina che non conosce: la studia, la prova, la sbaglia, la studia di nuovo, la suona un numero infinito di volte, la fa sua. Alla fine arriva a comprenderla in ogni minuzia, ad affezionarsi a ogni lieve imprecisione, ad amare i passaggi più ardui. Il mio maestro ha composto infinite partiture, per organo, per violino, per altri strumenti solisti, per grandi orchestre e per piccoli insiemi, per voce singola e per cori. Infinite musiche che non ricorda, che non tormentano la sua mente: in mezzo a questa infinità, la musica che ha accompagnato la mia vita, che si è sostituita alla mia vita. A chi appartiene di più quella musica? Nelle lunghe notti in cui ripetevo le mie trenta variazioni, spesso mi sono chiesto se un giorno qualche diavoleria tecnica avrebbe liberato gli esecutori dalle loro catene, se un giorno qualche macchina sarebbe stata in grado di riprodurre spartiti senza ausilio umano alcuno. In quel caso a chi apparterrebbe l’opera, chi sarebbe il custode dei suoi delicati percorsi? Non resterebbe che l’ascoltatore; e ove mai mancasse, ci sarebbe solo la macchina…
Davanti a questa vertigine di blasfemia solevo arrestarmi; ma ora non è più tempo per me né di bestemmie né di suppliche. L’ho capito oggi, quando è arrivato lui, il maestro: ho pensato che il mio momento era giunto, e mi sono raccolto in preghiera. Lui si è accostato e mi ha sussurrato le ultime parole che ascolterò. ‘Va’ in pace. Il tuo nome, per sempre accanto al mio, verrà ricordato nella storia. Per l’eternità il mondo suonerà la nostra gloria’. Dolce consolazione, ma pur sempre consolazione, offerta al capezzale d’un moribondo. Chi volete che serbi memoria, fra mille o fra cento o solo fra dieci anni, del Conte Heinrich von Brühl, del suo umile servo Johann Gottlieb Goldberg e del maestro di cappella Johann Sebastian Bach?”**.
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