È possibile attraversare i Social Network in chiave di una controffensiva immaginativa? Giorgiomaria Cornelio va alla ricerca di un “buon uso”, mettendo insieme i fantasmi di Giordano Bruno e Hillman, gli occhiali magici di Zolla, Warburg e le griglie di instagram.
In copertina: SALVO, La città (2006) – Olio su tela – Asta Pananti in corso
I.
TUTTE LE IMMAGINI SONO PORNOGRAFICHE
«Abbi cura di non trasformarti, da operatore,
in strumento dei fantasmi.»
Giordano Bruno, Sigillus sigillorum
Chiunque abbia trascorso qualche ora su TikTok conosce bene il sinistro sortilegio imposto dalla catena delle immagini. La successione, rapida o rapidissima, di video provenienti da ogni dove opera un incantamento, ci lega senza interruzione allo schermo. L’idea che possa esistere un buon uso di questo social network è giudicata con sospetto. La vita delle immagini s’accompagna sempre a un timore verso la loro potenza; in un saggio di James Hillman dedicato alla crociata statunitense contro la pornografia, leggiamo che «la storia dell’iconoclastia, della paura delle immagini e dei tentativi di disciplinarla, dice chiaramente che tutte le immagini sono pornografiche nella loro capacità di suscitare eccitamento, un eccitamento che dà riconoscimento all’animazione libidica, alla potenza demoniaca, all’anima attiva, propria dell’immagine» (Figure del mito). Questa capacità attiva delle immagini di manipolarci, di produrre incantamenti, Giordano Bruno la chiamava vincolare (vincire). Ripercorrendo la filosofia bruniana, lo storico delle religioni Ioan Petru Culianu, in quel libro ancora centrale che è Eros e magia nel rinascimento, spiega come per Bruno l’azione magica avvenga attraverso «suoni e figure che esercitano il loro potere sui sensi della vista e dell’udito»; passando per le aperture dei sensi, «essi imprimono nell’immaginazione certi affetti d’attrazione o di repulsione, di godimento o di ripugnanza». Il sogno della macchinazione delle masse attraverso l’eccitamento dei sensi trasmigra dal mago al social media manager, s’incrosta negli schermi, diffondendo armature percettive che incarcerano lo sguardo. Ma affinché ciò funzioni ogni volta e per ogni singolo fruitore, occorre che la sorveglianza sia onnipervasiva: «più il manipolatore è dotato di conoscenze su ciò che deve legare», scrive Culianu, «più aumentano le probabilità di riuscita poiché egli saprà scegliere il giusto mezzo per creare il vinculum». Queste righe non possono che evocare la marchiatura algoritmica, il continuo lavorio di setacciamento dei dati e delle impronte che lasciamo durante la navigazione per plasmare doppi, fantasmi, ombre digitali da vincolare con sempre più precisione. Ma proprio perché TikTok, con i suoi trend e le sue manipolazioni, esibisce con chiarezza quello che Edoardo Camurri ha chiamato il mito della Macchina Algoritmica, esso può diventare allo stesso tempo il luogo di una controffensiva. Gettandoci nel mezzo della potenza libidica delle immagini, TikTok istituisce un campo di battaglia dove mettere in prova il proprio temperamento immaginativo, la propria prontezza di fronte al principato dei fantasmi. Leggiamo ancora in Culianu che è lo stesso Bruno ad avvertire «ogni operatore di fantasmi di regolamentare e controllare le sue emozioni e fantasie affinché, ritenendo di padroneggiarle, non finisca invece per subirne la signoria: “abbi cura di non trasformarti, da operatore, in strumento dei fantasmi”».
II.
VERTIGINI
-->In TikTok, le immagini sono colte in una specie di sepoltura verticale; piovendo uno sopra l’altro, ogni video occulta velocemente il precedente. Ci attanaglia, in questa sterminata tumulazione, come una vertigine, l’idea di essere in balia di uno squallido rituale mercantile che non può essere in alcun modo interrotto. Tutto ciò non ci deve suggerire una paralizzazione dell’agire, bensì un altro tipo di rottura. Toni Negri, in una lettera indirizzata a Giorgio Agamben e datata 7 dicembre 1988, sollevava a tal proposito delle questioni cariche di avvenire: «il mercato, la vertigine dello squallore, è posta come sublime. […] Questa modernità che abbiamo costruito ci annichilisce […] per la spaventosa sequenza di eventi insensati, eppure quotidiani e continui nella quale si presenta» (Arte e multitudo). Descrizione che ben si adatta a Tik Tok, al suo metterci davanti all’egemonia delle immagini insensate da noi fatte, e che insieme – quotidianamente – ci fanno, saccheggiando il patrimonio delle abitudini, la geografia degli spostamenti emotivi e libidici; «ma», continua Negri nella lettera, «questa dura consapevolezza allo stesso tempo libera in noi la potenza dell’immaginazione». TikTok, nella sua proliferazione di immagini senso sosta, ci costringe al confronto aperto con la vertigine del mercato, con la sua sublime mostruosità: è un Behemoth, un Leviatano, una spaventosa creatura digitale. Ma proprio per via del suo aperto gigantismo, TikTok impone un gigantesco sforzo di rottura, lo invoca, lo infiamma, reinnescando la potenza immaginativa: «il mondo di immagini e di suoni insensati se ne è andato, noi lo abbiamo spinto fino al sublime, lo abbiamo rotto con l’immaginazione […]». Ma cosa comporta questa controffensiva immaginativa? Si tratta, per Negri, di un passaggio all’etico: «La potenza che è azione discrimina il mondo. […] Il passaggio all’etico, e cioè alla potenza del costruire un mondo sensato, questa è la fuoriuscita dal postmoderno». Una potenza del costruire e del discriminare: ecco, di fatto, il fondamento dell’immaginazione quando non dimentica della sua essenza intervallare, ovvero della necessità, tra ogni immagine, di un palpitare dello spazio del pensiero, in contrasto con una concezione bulimica, insignificante e meramente accumulatrice di materiali, che non sa più che farsene dei propri saccheggi. Questa assenza di spazio del pensiero, questo essere presi interamente nella morsa delle cose senza che vi sia una distanza per riformulare attraversamenti fuori da quelli imposti dalla macchina, non caratterizza solamente TikTok: Instagram lo espone con altrettanta evidenza.
III.
INSTAGRAM E LO ZWISCHENRAUM
Nell’introduzione al suo celebre atlante Mnemosyne, vera e propria “macchina” per studiare la migrazione delle immagini, lo storico dell’arte Aby Warburg fa riferimento al termine Zwischenraum, lo spazio intermedio che sarebbe alla base della civilizzazione. Leggiamo nel testo, datato 1929: «si può probabilmente designare quale atto fondativo della civilizzazione umana la creazione di una distanza consapevole tra sé e il mondo esterno. Se questo spazio intermedio [è] il substrato della creazione artistica, allora sono pienamente soddisfatte le premesse grazie alle quali la consapevolezza di questa distanza può diventare una funzione sociale duratura […]».
Osservando le tavole dell’atlante Mnemosyne, la presenza dello Zwischenraum si nota immediatamente: le figure, spesso riproduzioni fotografiche di dettagli provenienti da epoche storiche diverse (con una predilezione per l’ambito rinascimentale), si stagliano su uno sfondo nero; non sono, cioè, immediatamente prossime, coincidenti, connesse una volta per tutte, ma mantengono tra di loro una distanza che consente di attuare di volta in volta passaggi differenti tra le immagini e i saperi – tra quelli che Didi-Huberman chiama «ordini di realtà eterogenei che vanno tuttavia montati insieme» (L’immagine insepolta). Lo spazio intermedio o, come pure si dice nell’introduzione, lo spazio del pensiero (Denkraum), caratterizza l’intero atlante della memoria, in quanto permette di mostrare quello che per Warburg è la funzione polare, oscillatoria di ogni atto artistico; tensione inesauribile e interna ad ogni civiltà, che nello sforzo di pensare la realtà unisce ritmicamente movimenti d’incorporazione e rigetto, di continuità e distanza.
Ora, se rivolgiamo il nostro sguardo a Instagram, alle griglie dei suoi numerosissimi profili, ciò che ci colpisce non è tanto l’apparente rassomiglianza con l’atlante warburghiano, quanto piuttosto la fondamentale mancanza di spazio intermedio. Non solo perché le immagini sono come incollate tra di loro, fissate per sempre, ma soprattutto per l’estrema familiarità che abbiamo sviluppato verso il loro accostamento. Scorrendo la maggior parte dei profili, non ci domandiamo perché le cose stanno insieme, perché dovrebbero formare o non formare parentele, quali magnitudini sono messe in gioco. Le accettiamo, senza badare agli anacronismi, ai disorientamenti, alle impurità, ai limiti trasgrediti. Che ci fanno insieme un manichino e una sfera riflettente di Escher, un paesaggio dello Scozia, un animale ora estinto, una modella generata dalla AI e la foto di un weekend al mare? Cosa stiamo davvero scorrendo? Quali moltitudini vengono evocate? Quali percorsi immaginativo-simbolici? Tali questioni non sono secondarie, ma costituiscono la risorsa fondamentale di questo social network. Se TikTok ci offre un campo di battaglia per testare il nostro temperamento immaginativo, Instagram è a sua volta uno dei luoghi virtuali dove edificare un’immagine del mondo, o meglio, attraverso il quale dissociare il mondo dall’immagine logorata, stupidamente familiare che ne abbiamo tutti i giorni: per strapparlo alle facili identificazioni; per guardarlo con un’altra distanza; soprattutto, per comprendere che non solo su Instagram, ma che sempre siamo questa rete di continue riformulazioni, di reminiscenze, di accostamenti improvvisi, di ibridi impensati, di legami con la magnitudine terrestre, e con gli ecosistemi immaginativi che ci troviamo di volta in volta ad attraversare. La vita è un fenomeno di montaggio, dove s’incontrano, come in una griglia Instagram o in una wunderkammer barocca, «una macchina per cucire e un ombrello su un tavolo operatorio», ma anche un guanto perduto da un’astronauta nello spazio, l’ingrandimento di uno strano lichene, il dettaglio di un libro delle ore, la pubblicità di un rossetto, il reportage di una protesta contro la polizia e, tra tutte le cose, la fotografia sfocata del mio volto. Per questo bisogna avere, con le immagini, un rapporto attivo, realmente ecologico: occorre studiarle, collocarle, incorporarle, riconoscerle nelle lore segnature; e poi disgiungerle, rimontarle, essere capaci di spezzarne la signoria. Questo significa prima di tutto dubitare di un’ossessione moderna: il credo che vi siano davvero immagini “più naturali” delle altre.
IV.
BE REAL: LA REALTÀ NON È NATURALE
BeReal è un social network lanciato nel 2020, oggi tra i più scaricati; a un orario casuale della giornata, una notifica invita gli utenti a condividere entro due minuti una foto con la fotocamera frontale e posteriore; non è possibile impiegare filtri, e le immagini condivise scompaiono il giorno successivo. Ciò che BeReal incoraggia è il concetto di un’“autenticità” in aperto contrasto gli altri social network: «be yourself, be real». Questo ideale di immagini forzatamente a digiuno è certamente tra i più insidiosi, perché suggerisce una concezione di realtà senza filtri, immediatamente naturale, ignorando che ogni restituzione del mondo – e del mondo che siamo – è il risultato di una precisa collocazione dello sguardo.
Il fotografo italiano Luigi Ghirri, nelle sue Lezioni di fotografia, insegnava a considerare l’inquadratura come una soglia, una finestra aperta: «nel momento in cui io scatto», diceva, «mi trovo sulla soglia, sono sul punto di avvertire la possibilità di filtrare il mio interno con l’esterno. Devo fare una valutazione esatta, comunque un calcolo che so essere molto importante, che riguarda quello che deve essere tralasciato e quello che deve essere compreso». Piuttosto che adagiarsi sulla sciatta immediatezza, la fotografia veramente “autentica” rivolta le cose in immagini; immagini che neppure nel loro scopo meramente forense servono a rispecchiare la realtà quotidiana, ma piuttosto la istituiscono, ne ritracciano le coordinate, iniziando l’occhio ad altre possibilità dello sguardo, formando zone aurorali della visione proprio attraverso soglie, barriere, punti di fuga, filtri, lenti, tipologie di inquadrature e ingrandimenti che violano i limiti delle contingenze umane – ovvero quanto un occhio può vedere, fino a dove riesce a spingersi (è la storia, pienamente favolosa, della fotografia “scientifica”).

Cioè è ancora più interessante quando l’obiettivo è puntato contro sé stessi. BeReal vorrebbe decostruire l’approccio narcisistico insito negli altri social network; ma noi non dobbiamo temere il narcisismo: semmai saperne cogliere l’aspetto perturbante, la possibilità di trattare il proprio corpo come un’alterità infinitamente in costruzione, rigenerata in immagini. Scrive con meraviglia Timothy Morton in Ecologia Oscura: «quello che definiamo comunemente narcisismo è la forma minimale di questo essere in relazione con un alieno-in-me».
Attraversarci come mondi significa scoprire quali strumenti impiegare per formare nuove relazioni con l’alieno-in-noi; quali sporgenze, quali lenti convesse, e accostamenti, e filtri, e cecità, e occhiali da indossare.

V
METAVERSO: GLI OCCHIALI MAGICI DI ZOLLA
«Confido che al ciglio del mercato, al margine delle coazioni, si prospetti un futuro diverso». Queste righe di Elemire Zolla provengono da un testo dal titolo programmatico, Il futuro alle soglie, contenuto nel libro Uscite dal mondo, pubblicato nel 1992. Intercettando, senza premature miopie, le possibilità covate dalla realtà virtuale, Zolla credeva che entro il 2030 esse avrebbero incontrato il loro pieno sviluppo, fornendo all’umanità l’accesso a mondi percettivi solitamente negati. Distillatori di saperi, girovago sincretico ma al di là delle facili mescolanze, capace di trattare il libro come un astuccio di fuoco, Zolla viveva in eterna vigilia; Pietro Citati racconta che lo studioso di filosofia perenne gli si descriveva così: «alle nove di mattina sono zarathustriano, alle dieci buddhista, alle quattordici sciamano, alle sedici sufi; e quando il sole tramonta, divento cattolico, una beghina di Napoli o di Torino». Questa volontà di incarnare la dimensione metamorfica delle tradizioni non poteva che abbracciare le aperture percettive offerte della realtà virtuale. Zolla aveva compreso che l’esoterismo andava cercato nei laboratori di fisica o di neurofisiologia, e che negli occhiali magici – nei visori della realtà aumentata oggi prepotentemente ricomparsi nell’immaginario collettivo – potevano trasmigrare le visioni dei miti e delle fiabe, così come le esperienze di traslazione dall’uomo all’animale provate dagli sciamani: «si vedrà l’universo tramite gli occhi complessi delle fiere, delle aquile, degli insetti, se ne acquisteranno i sensori, i radar. Ma sarà possibile procedere al di là, suscitare programmi che ricalchino a puntino l’iniziazione sciamanica».
Questa esperienza d’addestramento dell’immaginazione, di manipolazione dei fantasmi, avrebbe saputo, per Zolla, portarsi oltre gli scopi militareschi, le pedagogie, il cicaleccio delle piazze virtuali. È certo che, mentre sentiamo parlare di Metaverso, ci assale in anticipo una sensazione di passatismo, di chincaglieria già annunciata; ma proprio perché il mercato sta investendo così tanto in questo universo, è bene essere preparati all’impatto. In quest’ottica, le mescolanze degli sguardi, gli ecosistemi che decenni di videogiochi ci hanno donato (ora ampiamente saccheggiati da cinema e serie televisive), costituiscono altrettanti esempi di controffensive immaginative, spesso capaci di scavalcare le paralisi della catastrofe. Pensiamo, tra i titoli più recenti, al Death Stranding di Hideo Kojima, dove – in un intreccio di temi che poco dopo l’uscita la pandemia da Covid-19 avrebbe fatto riemergere con prepotenza – ci viene testimoniato che «l’estinzione non è solo una fine. È un’opportunità»; pensiamo al capolavoro Disco Elysium, dove tra fasmidi, presagi e rivoluzioni mancate, si dice da una parte che «c’è un accordo quasi unanime tra gli uccelli e le piante» sul fatto che l’essere umano distruggerà tutto, ma anche che «un jour je serais de retour près de toi»: un giorno le cose torneranno nuovamente vicine, perché v’è sempre un presagio di incompiutezza in ogni storia già data per sigillata. Pensiamo, ancora più in sintonia con Zolla, ai sensori animali consegnateci da queste esperienze, alle pelli infrante, alle dogane trasgredite, ai ritmi di immersione e affioramento delle vite ibride esplorate nei videogiochi e nelle realtà aumentate. Ma pensiamoli fuori dai regimi del solo escapismo; sono ben più: filamenti immischiati alle nostre esistenze, altre genealogie, punti di rotture e nuovi avvii, inevitabilmente sempre più presenti. Attraversiamoli perciò come occasioni per venire a patti con quella che il filosofo Félix Guattari chiamava la mecanosfera formata «da tutte forze creative delle scienze, delle arti e delle innovazioni sociali» intrecciate tra di loro; mecanosfera «che circonda la nostra biosfera – non come il giogo costrittivo di un’armatura esteriore, ma come un’efflorescenza […] che esplora il futuro dell’umanità» (Pour une refondation des pratiques sociales). Non sappiamo quale futuro ci attenda; ma proprio perché (costantemente) alle soglie, il punto di sporgenza conserva una tenace, feconda ambiguità. Fare buon uso della grande macchina dei social implica lo sforzo di dirottarne gli scopi attuali, combattere immaginativamente affinché, oltre la marchiatura algoritmica e le sue mercantili previsioni, il futuro resti imprendibile.
La scrittura è elegante ma la tesi di fondo è arcisentita e un po’ banalotta, non esiste uso consapevole di una tecnologia algoritmica, sia essa tiktok, facebook o qualsiasi altro dispositivo visuale, a fronte di un algoritmo che affina la sua intelligenza grazie al nostro utilizzo. Articoli del genere celebrano il tecnosciamanesimo chic che rende lisergica la nostra schiavitù di animali digitanti, l’ascesi intramondana non è più nel cubicolo dell’ufficio ma nelle quattro mura del quadrato di un’immagine instagram.