Surrogati di presenza: la televisione

Pubblichiamo un libro inedito Meltemi dell’antropologo Franco La Cecla a puntate: Surrogati di presenza. Il saggio svela la dimensione animista delle relazioni digitali che intratteniamo con i media: il mezzo principale con cui, oggi più che mai, intratteniamo i nostri rapporti di presenze-assenti.


IN COPERTINA e nel testo: Rocketship to Virtual Venus, NAM JUNE PAIK

Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.


di Franco La Cecla

con Stefano Savona

In occasione di una mostra sui cinquant’anni della Rai, Stefano Savona e io eravamo stati invitati a partecipare con un intervento originale. Ci era parso interessante occuparci non della produzione televisiva italiana, ma della sua fruizione. Da questo punto di vista ci sembrava che gli studi sulla fruizione della tv nel nostro paese mancassero di capacità di osservazione. Troviamo da una parte una tv sempre più inghiottita dalle logiche pubblicitarie, dall’altra un’utenza che ha maturato un modo di consumare la tv dominato dal rifiuto. Questo rifiuto si dà a vedere sia in chiave tecnologica, con l’avvento del telecomando – un rifiuto ambiguo che va di pari passo a una trasformazione della tv in una serie di spot e frammenti, una tv della fruizione distratta – sia in un senso più generale, come rifiuto di fare della tv il paesaggio della quotidianità, marginalizzandola come pura cornice. Questo lavoro che Stefano Savona ha documentato con le sue immagini è stato il primo passo di uno studio più ampio sull’utenza e la fruizione televisiva, volto a scrostare la tv della banalità di cui è circondata e a ricollocarla nella questione cruciale della riformulazione della vita quotidiana. Qui ovviamente l’accento è posto sul “ritardo italiano”, sull’ingenuità di una formula che ha fatto il suo tempo e che mostra già, nelle sue crepe, l’emergere di problematiche urgenti: la tv come identità e riflesso dell’identità, la tv in funzione antiglobale.

La tv del rifiuto

con Stefano Savona

Grande domanda dell’ultimo venticinquennio: “dov’è il telecomando?”

Siamo poco abituati a parlare di media contestualizzandoli. Sappiamo distinguere i programmi che hanno costituito la tv americana degli anni cinquanta da quelli che hanno caratterizzato la tv francese e quella nostra, come sappiamo distinguere la CNN da Al­Jazeera. In fondo però siamo portati a pensare che i meccanismi di azione­reazione tra palinsesto e pubblico, le molle del consenso e della fruizione siano omogenei. Da un lato c’è la scatola nera e dall’altra la gente che la guarda. Questo paesaggio delineerebbe da solo la storia del mondo mediatico dagli anni cinquanta in poi. Le cose però non stanno in questi termini.

L’Italia rappresenta uno specifico diverso dall’Egitto, dall’India, dalla Gran Bretagna. Per capirlo occorre esaminare insieme la scatola nera e il pubblico e non dimenticare che la televisione consiste in questo insieme e non nelle vicende della Rai o delle altre tv d’Italia. Così, se ci sfugge il perché del fatto che in Italia non sia mai nata una rete come Channel Four (che è una rete privata) e che la BBC differisca tanto dalla Rai, dobbiamo considerare che l’insieme pubblico/televisione costituisce una miscela diversa nei due paesi. Ovviamente questo implica accettare che solo una lettura antropologica, attenta ai contesti e alle contingenze, possa sondare la storia della televisione italiana.

Il periodo epico­popolare

La Rai è nata in Italia con una funzione precisa, quella di creare un pubblico quotidiano per uno strumento innovativo; per questo la televisione doveva essere un servizio pubblico, entrare nelle case per offrire qualcosa di simile all’educazione. Se la Rai si fosse messa in un regime di concorrenza, se avesse imitato i giornali, non avrebbe avuto lo stesso impatto. I primi decenni della Rai sono stati improntati alla formazione di un pubblico nazionale, che andava compattato, allevato a riconoscere una priorità nei contenuti dei programmi in cui si mescolavano l’educazione popolare, la modernizzazione e la costruzione del bisogno di ricreazione.

La Rai è stata il passo successivo ai biliardini, ai circoli ricreativi, a filodrammatiche, tombole sociali e feste popolari, ha ucciso e soppiantato tutte queste attività. L’Italia intorno al televisore ha perso la socialità pubblica e ha acquistato un senso della privacy che le era del tutto sconosciuto. L’apparecchio è stato il primo vero simbolo di una classe media che vive nelle città e consuma, e che per essere tale deve possedere in proprio gli elettrodomestici, spezzando i legami di famiglia allargata, di vicinato, di paese.

A quel tempo la fruizione si basava su una necessità condivisa. L’Italia aveva bisogno che i suoi cittadini si riconoscessero in una cultura comune, che andassero al di del campanile. Non diversamente da quanto è successo in Egitto, un paese con un passato rurale e popolare come l’Italia, programmi, registi, palinsesti avevano una funzione civica. Intelligenze rare, sceneggiatori, scrittori vi investivano le proprie energie con una vera sensibilità riformatrice e didattica: erano gli anni di Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi, che per l’Italia significava mettersi al passo coi tempi, dimostrare di essere un paese moderno.

La pubblicità come educazione alla pubblicità

È solo verso la fine degli anni sessanta che questa televisione diventa qualcos’altro. Formata l’audience occorre adesso investirla di un’altra funzione. È a questo punto che la televisione si mescola con il discorso pubblicitario. Esaurita la funzione educativa – la televisione che faceva pubblicità a sé stessa – si afferma l’equazione televisione = pubblicità. Non sono più gli ingenui tentativi di Carosello, adesso tutta la scatola cambia di segno: la pubblicità non accompagna o interrompe, essa diventa ogni giorno di più il vero contenuto della scatola.

In questi anni gli ambienti della pubblicità televisiva sono le cucine, le stanze da pranzo, i tinelli con il tavolo in formica, il neon, la carta cerata a fiori, cioè i luoghi di coloro a cui la pubblicità è destinata.

In questo processo la funzione pubblica non viene scartata, perché il messaggio che la scatola nera veicola è che la pubblicità stessa è ricreazione, formazione, discorso civico. Per questo la Rai rimane un servizio di interesse nazionale, e bisogna pagare un canone perché essa ha ancora una missione educativa. Le altre tv le fanno concorrenza, si prendono lo spazio della formazione di nuove audience, contribuiscono alla costituzione di altre fasce di gradimento.

Il pubblico di quegli anni è leggermente più smagato, si sente parte effettiva di uno spettacolo in cui la pubblicità fa la parte del leone perché rappresenta un’Italia in ascesa, che produce gusto, moda e design, che fa tendenza.

Una nuova trasformazione viene dalla popolarizzazione dei discorsi sulla comunicazione: tutti sanno che Mike Bongiorno è la mediocrità fatta schermo e tutti lo guardano. La tv diventa metadiscorso. Nel passaggio dagli anni settanta agli anni ottanta la tv, sempre più simile alla pubblicità, ne imita e ne provoca i modi. Il pubblico sa di essere oggetto di un discorso ammiccante. Certo, la tv non è cultura, ma è comunicazione! Lo spiegano gli esperti di comunicazione.

Una nuova metafisica

Negli anni ottanta la tv diventa teatro privilegiato del desiderio di fuga dagli ambienti domestici e di superamento delle abitudini che costituiscono il quotidiano della classe media. Un superamento impossibile (specialmente per chi passa gran parte del tempo davanti allo schermo). La tv ha smesso di fare educazione popolare e comincia a fare metafisica. La pubblicità, ambientata in altrove paradisiaci, anima dall’eterno presente televisivo l’idea di futuro, confezionata per eterni spettatori assolutamente coscienti (sempre più coscienti) di quanto poco siano passeggeri e contingenti gli squallori e le tristezze della loro quotidianità. Ecco allora il mondo del «profumo esclusivo in omaggio con Annabella» o delle «prestigiose porcellane in regalo con 20 punti del Mulino Bianco»: tutti sanno che in questi oggetti non c’è nulla di straordinario, forse qualcuno per un istante li desidera, nessuno certamente li sogna. La tv e la pubblicità diventa il ricettacolo dell’irrealtà come valore, del vorrei ma non posso, del sogno di essere altrove, di essere altri. L’entertainment qui sta per progressiva astrazione da referenti a portata di mano.

È il tempo dei serial americani, che mostrano come la ricchezza implichi uno spostamento di tempo e di spazio. L’inizio e la fine dell’illusione. Arriviamo agli anni novanta. Si avverte la stanchezza di un pubblico che non crede più nell’intensificazione dei messaggi, non crede nella moltiplicazione delle emittenti e  sa che non si tratta di un gioco democratico. Certo, ci sta, si piazza di fronte alla tv, questa volta con il telecomando, e impara a bypassare la pubblicità, a cambiare rapidamente canale ogni volta che essa compare. L’utente acquisisce una competenza che crede essere “contro” l’emittente, quando invece risponde a un bi­ sogno effettivo del dispositivo rinnovato che ha davanti. In questo periodo si comincia a pensare che Rai e tv privata siano la stessa cosa, e che la seconda sia magari meno ipocrita. La moltiplicazione delle emittenti farebbe pensare a una differenziazione dei programmi e degli orientamenti, ma è proprio la pubblicità a stornare questa possibilità: tutto si omogeneizza, il format pubblicitario mostra una banale e rapida equivalenza di tutti i canali. L’offerta è analoga ovunque e questo fa sì che la differenza venga delegata ai canali tematici, via cavo o via satellite. È in questi anni che si prepara l’arrivo della politica in tv, un’entrata che sa evitare l’accantonamento in un programma a parte e assume immediatamente i modi della pubblicità. Slogan, discorsi brevi, semplici.

La fortuna di Silvio Berlusconi è in questa riduzione. In tv solo le cose piccole vengono bene. Se provi a inquadrare in uno schermo televisivo qualcosa di appena più grande, appena più complesso, l’immagine va in tilt, tutto risulta incomprensibile ed è meglio cambiare canale. La politica diventa autoreferenziale: non più tribune e dibattiti, si apre l’epoca delle contrapposizioni, delle bandiere, degli slogan. Da questa tendenza vengono contagiate immediatamente le news. Non ci sono più giornali tv, prende piede un sensazionalismo metafisico, dove ciò che non può essere declamato non va in onda.

La politica deve farsi metafisica pubblicitaria di bassa lega, o almeno fantascienza, fiction. Agli inizi del nuovo millennio, di fronte alla tragicità degli avvenimenti su scala planetaria, i paradigmi proposti per comprendere la politica internazionale diventano quelli del Signore degli Anelli; la compressione in venti pollici di terremoti, epidemie, cambiamenti climatici, guerre ed esplosioni chiama in causa cataclismi e apocalissi mutuati se non direttamente dalla Bibbia almeno da Nostradamus. Tutto viene spiegato con ritmi veloci, con parole semplici e comprensibili a chiunque.

La tv è diventata una scatola di annunci, una sequenza di esclamazioni con pochissimi enunciati. È diventata nell’insieme meno sottile, meno convincente ma molto più paranoica, ossessiva: bombarda di spot uguali, ripete i programmi, si ispira a una mediocrità che non è più quella entusiasta di Mike Bongiorno, ma pesca invece nella condizione effettiva dell’audience, quella di una mediocrità stanca.

L’incanto del disincanto

La reazione del pubblico è una forma di assuefazione disincantata, una passività ricercata come se fosse ecstasy a basso costo, un abbrutimento da poche lire, anche se è presente, superminoritaria, una reazione colta, di chi ancora una volta propone la lettura insegnataci dai “comunicatori”: decodifica, decostruisce, scompone. Sono gli anni in cui è chic occuparsi di pubblicità come fatto culturale.

Le ragazzine che sino a ieri sognavano di cantare in tv, oggi, nell’epoca di Saranno Famosi, passano il loro tempo davanti allo schermo assistendo alla parata delle ragazzine che sognano di cantare in tv; si smette di sognare perché si partecipa passiva­ mente al campo magnetico dei sogni altrui che, giorno dopo giorno (e per varie ore al giorno), diventano il nostro intrattenimento, il nostro passatempo (a bassa gradazione); si annulla così quel poco di mettersi in gioco che ancora c’è nel sognare a occhi aperti. Nei reality show vediamo persone che vivono in tv i passaggi salienti della loro vita (o piuttosto fingono di farlo, ma questo importa poco) a beneficio di chi la sua vita la vive ormai davanti alla tv. È il trionfo del desiderio mimetico teorizzato da Renè Girard1: il desiderio non è vissuto in prima persona, ma solo attraverso il presunto desiderio altrui.

Le fasce giovanili fuggono verso Mtv o cominciano a “smanettare” con il telecomando verso altre tv locali ed estere. Tutti, giovani e adulti, scoprono che oltre la passività ci può essere l’indifferenza. È vero, la televisione, come la pubblicità, è dappertutto, ma questo non significa che ce ne si debba accorgere. Negli anni novanta nascono le prime video­paninerie. In questi locali le immagini, per lo più videoclip musicali, vengono associate a una presenza musica che spesso non c’entra nulla con il video trasmesso. È il segno che la tv nel suo insieme, al pari del­ la pubblicità, diventa solo una presenza che non ha lo scopo di incrementare la vendita di un prodotto, ma solo quello di ricordarne l’esistenza, di occupare uno spazio che altrimenti sarebbe riempito da altri prodotti. La tv diventa decoro: nei negozi di vestiti, nei bar, per strada, gli schermi si sprecano. Diventano rumore di fondo e il loro messaggio, indipendentemente da quello che trasmettono, è: “non fateci caso, ma siamo qui”.

Per il singolo fruitore, però, la tv è piuttosto come il richiamo sonoro dei macchinisti dei treni: si fa sentire quando ci abbandoniamo ai nostri sogni, quando un pensiero potrebbe affiorare alla coscienza…

Flusso di immagini versus flusso di coscienza

A questo punto però occorre fare un passo indietro. La corrispondenza tra televisione e pubblicità ha a che fare con il funzionamento stesso dell’apparecchio televisivo. E questo è uguale per ogni contesto, non solo per quello italiano. La televisione non comunica nulla, perché il livello di attenzione che richiede non è quello di un dialogo, di una interazione tra soggetti. In realtà la televisione sostituisce il proprio ritmo di immagini in movimento al flusso di coscienza di chi la guarda; questi non è spinto a rispondere, ma piuttosto a immedesimarsi nel funzionamento (direbbe Michael Taussig che questo fa parte del training verso l’eccesso mimetico). La perfetta audience tv è quella che si trasforma in tv stessa. Dal punto di vista dell’interazione qui siamo a un grado pressoché zero (checché ne dicano i teorici della “tv interattiva”: questa definizione è un perfetto ossimoro). Accade spesso, quando si guarda la televisione, che davanti a un programma “interessante”, cioè che suscita attenzione, si cambi comunque canale per tornare al flusso di immagini, che richiede meno interazione.

La televisione nasce negli anni cinquanta, in un momento di crisi della soggettività occidentale. Il protagonista dell’Ulisse di James Joyce è un uomo mediocre al cui flusso di coscienza siamo invitati a partecipare. Egli “è vissuto” da ciò che gli capita, non è soggetto in senso forte, ma piuttosto un coacervo fluido, fading di impressioni, luci, mezzi pensieri, emozioni a fior di pelle. L’io si confonde con il non­io.

La televisione risponde perfettamente alla crisi del soggetto. Riprende l’intuizione freudiana secondo la quale la verità dell’analisi sta nelle associazioni libere, in cui il paziente non controlla soggettivamente il discorso e il rumore di fondo del suo inconscio diventa udibile in modo quasi oggettivo. Proprio da questa sorta di abdicazione del soggetto vengono resi possibili il cinema prima e la tv poi. La tv ci libera dall’elaborazione del flusso di coscienza. Il suo bla bla è come un rosario o un mantra scandito ossessivamente, è la promessa che non siamo più in noi, ma fuori di noi. La pubblicità corrisponde allo stesso desiderio; è reificazione prima ancora che consumo, è identificazione con la merce.

Chi pensasse che lo scopo primo della pubblicità sia vendere non capirebbe perché la televisione “funziona”, dato che essa non convince il pubblico a comprare ma solo a essere passivo.

La televisione non è il luogo dei desideri – neanche la pubblicità – è semmai la gabbia dei desideri in cattività. Essa sublima il desiderio, lo rende innocuo, lo priva della sua carica eversiva; nel caso più riuscito lo reifica in un prodotto che ne diventa il totem o il surrogato inerte (il whisky antartico o l’amaro dell’aviatore). Se davvero la televisione scatenasse nel pubblico i desideri di sesso, vita avventurosa e ricchezza che esibisce, la nostra società sarebbe squassata da rivoluzioni continue e finirebbe in un mare di sangue. La pubblicità, al pari della televisione, sublima, cioè metafisicizza il desiderio, lo aliena dal soggetto e lo sposta al di dello schermo. In questo senso, se la tv è figlia di un’archeologia di desideri a occhi aperti, è però anche la macchina che serve a frustrare gli stessi. Tutto ciò che il pubblico potrebbe vivere per sé, compresa l’avventura stessa del comprare, viene vissuto dalla televisione. Non è importante che vi alziate dal divano per andare a comprare il prodotto pubblicizzato, mentre è importante che ne vediate ancora lo spot. Per questo chi pensa che la pubblicità e la televisione facciano comunicazione si sbaglia: sono scatole nere che si chiudono su sé stesse. Corrispondono a quanto diceva di loro trent’anni fa Jerry Mander in Quattro argomenti per eliminare la televisione2; sono simili a quel giochino diffuso negli anni settanta che consisteva in una scatola nera con una fessura da cui sporgeva un interruttore: se uno spostava l’interruttore, dalla stessa fessura veniva fuori una manina che lo rimetteva al posto di prima.

Mai l’infinito è stato così piccolo

L’illustrazione migliore della non comunicatività della pubblicità si trova nella tv italiana, in uno spot pubblicitario mandato in onda nel 1995 che recita: «Mai l’infinito è stato così piccolo». Questo slogan pubblicizza una serie di libretti in miniatura tra cui uno che riporta L’infinito di Giacomo Leopardi. I libri sono talmente miniaturizzati che è impossibile leggerli; essi non comunicano nulla: hanno annullato il contenuto nella merce, lo hanno cortocircuitato. Con la televisione e la pubblicità avviene lo stesso. Nessuno sa se la pubblicità in tv aiuta a vendere di più, non c’è nessun dato che lo dimostri. Così come nessuno può dire che la tv convinca la gente a fare qualcosa, a votare per qualcuno. La tv non crea le basi ideologiche di un regime, non produce consenso, non cambia le idee o le convinzioni delle persone; induce però ad abbandonarsi all’inerzia dello status quo, perché impedisce che i bisogni, i desideri, le mancanze arrivino a manifestarsi alla coscienza e si facciano quindi volontà. La tv è semmai un regime essa stessa, nel senso che è una dieta, un regime alimentare. Sarebbe interessante rileggere la storia della scatola nera con le immagini dentro come parte della storia dell’ammazzare il tempo, dello scacciare i pensieri e le emozioni, pratica che l’umanità ha sempre accompagnato a strumenti specifici quali droghe, alcol, mantra, rosari e vari parafrenalia scacciapensieri. La differenza è che quegli strumenti non venivano spacciati per altro, mentre l’ideologia della televisione parla di informazione, comunicazione, divertimento.

L’appendice umana ammaestrata

Il frutto di cinquant’anni di tv in Italia (vedremo più avanti perché l’Italia sembra il paese in cui questo processo è stato condotto alla perfezione) è la creazione di un parco di dispositivi di passività in cui è impossibile distinguere l’hard dal soft, la scatola nera dalla sua appendice umana ammaestrata, l’apparecchio tv e i suoi programmi o i suoi spot da chi ne fruisce. L’utente è parte dell’apparecchio, ne viene telecomandato, gli corrisponde sia che l’accenda sia che ne passi in rassegna i canali. Lo zapping è anzi l’applicazione più estrema dell’essere tutt’uno con la macchina: sono io che assimilo il tempo e i ritmi del flusso di immagini, che cambio canale quando questo flusso rallenta un po’ o si inceppa. Lo zapping è la sublimazione ultima del desiderio di annullamento nello schermo: la mia stessa pulsazione corrisponde a quella delle immagini in movimento.

Forse mai come in questo caso nella storia dell’umanità un oggetto è diventato una protesi così totale e funzionale. L’automobile ci aveva fatto presagire che dovessimo diventare parte di una macchina, comandati dalle sue esigenze e dalle sue velocità, ma il flusso dei pensieri e delle immagini era ancora nostro. Anna Karenina che si sposta in carrozza e non ha ancora deciso di buttarsi sotto un treno ha diritto a un proprio flusso di coscienza, anche se le sembra che il mondo entri nei suoi occhi e nella sua bocca e le costringa a leggere le scritte sui negozi e sui muri «automaticamente». Questa automazione provocata in lei dal dolore e dall’essere “fuori di sé” viene resa perfetta e totale dalla televisione: lo spettacolo che ci propone non è nemmeno più tale, perché lo schermo è entrato totalmente in chi pensa di guardarlo.

Ogni distrazione dallo schermo, ogni smembramento della fruizione televisiva – con o senza sonoro, con o senza attenzione alle immagini – è possibile ormai solo in quanto lo schermo è introiettato. A questo nuovo essere fatto di scatola nera e appendici umane non viene chiesto di decidersi o convincersi, ma di rimanere lì a contemplare, senza averne coscienza, la miseria della propria condizione.

In televisione l’unica cosa che non si vedrà mai è la gente che sta di fronte al televisore. E questo già dimostra che la tv non produce consenso o identificazione, perché se così fosse chi la guarda sarebbe indotto a spegnerla per dedicarsi alle attività praticate da quelli che stanno in televisione, che si amano, si odiano, viaggiano, leggono, suonano, cantano, ballano, fanno sport, si ammazzano, giocano, rischiano, insomma fanno di tutto meno che guardare la televisione. La tv manda le immagini di quella vita che della tv si è liberata: gente sulla spiaggia, che cavalca, che fa l’amore, che corre e compra, gente la cui vita vale la pena di essere vissuta. Il teleutente sa che fin quando rimane attaccato al televisore la sua non è vita, e ci rimane attaccato proprio per questo, perché staccarsene significa soggettivizzarsi, accettare che la propria esperienza singolare prenda il sopravvento, e questo, oggi, sempre meno persone lo desiderano. La tv è, direbbe Walter Benjamin, la dimostrazione che non è più possi­ bile fare esperienza. Vedere la vita in tv non è ovviamente viverla: la vita in tv ha il sapore di un’autenticità che solo i fiori di plastica o le copie conformi possono avere. La riproducibilità di cui la tv è veicolo impedisce all’utente di essere un originale, e così facendo allo stesso tempo lo rassicura. La tv, piuttosto, produce un suo mondo, quello delle persone che occupano il proprio tempo guardando la tv.

In fondo la gente è cosciente di annoiarsi quando guarda la tv, sa che è un passatempo noioso, da poveracci, ma se le coppie preferiscono annoiarsi davanti alla tv piuttosto che parlarsi o fare l’amore è perché sanno che se spegnessero la tv si   annoierebbero molto di più: dovrebbero fronteggiare la mancanza di argomenti o il nulla del loro desiderio e della loro curiosità l’uno per l’altro. Se la gente ha qualcosa di meglio da fare, è ben lieta di spegnere la tv.

L’eccezione italiana?

C’è un’eccezione italiana in tutto questo? Nella fattispecie della storia italiana, la questione chiave sta in buona parte nella trasformazione di un paese povero, che viene istruito alla pubblicità e alla televisione, in un paese ricco e smagato. Gli italiani sono divenuti un popolo di incantati disincantati. A questo pubblico lo schermo non dà più niente, esso non si aspetta altro se non lo stonamento o la passività. Il modello televisivo italiano è più pericoloso perché si basa sull’evoluzione di un pubblico che ha imparato a decostruire, a demitizzare, a leggere la tv come qualcosa di non importante, un divertissement da non prendere sul serio: questa è la trappola peggiore, perché alla tv non viene chiesto più niente e non la si mette più in questione. Essa fa parte del decoro necessario per una vita moderna e il rifiuto della televisione è visto come un tipo di snobismo non elegante. Certo, pochi hanno il coraggio di affermare che essa è uno strumento di cultura o di informazione. Se mai lo diventa, viene percepita come noiosa. È importante che sia oggetto di understatement. Per questo i notiziari italiani, i nostri giornali tv, sono i peggiori del mondo: perché nessuno pensa di poter pretendere un telegiornale serio da uno strumento frivolo.

L’utenza italiana pensa di essere privilegiata dalla frivolezza e invece è da essa condannata a un noioso zapping. Altri utenti, che magari hanno cominciato a vivere accanto a noi, sperimentano altri tipi di esigenze.

Alla fine degli anni novanta si è cominciato a veder comparire sul balcone accanto o nella strada all’angolo le prime antenne paraboliche. Gli utenti non sono italiani, è il pubblico crescente degli immigrati: collegati con i loro luoghi d’origine o con satelliti che trasmettono programmi nella loro lingua, praticano un vero e proprio surf globalizzato. Essi sanno che la tv è uno strumento di appartenenza, che è uno dei modi di mantenere un’identità nella diaspora, di tenere viva la lingua, di educare i figli a un’origine, di relativizzare le difficoltà del proprio arrivo. Gli immigrati utilizzano la tv un po’ come il telefono portatile: sono strumenti che consentono loro di entrare in relazione senza essere condannati a una completa assimilazione. Rispetto al passa­ to il loro emigrare si compie sotto il segno del mantenimento e rafforzamento dei legami e insieme di un bilinguismo o trilinguismo, di una pluriappartenenza. Sono i primi fruitori dei canali satellitari in lingue diverse dall’italiano. Il paesaggio delle città italiane diventa un bosco popolato di funghi parabolici.

Intanto l’audience italiana è ingolfata nelle reti nazionali, convinta che prima o poi ne caverà qualcosa che sia almeno intrattenimento.

La tv italiana imita oggi questa incapacità dell’audience di essere moderna. La pubblicità fa invecchiare la tv prima che essa possa riqualificarsi come uno strumento per qualcos’altro. Certo, i grandi comunicatori sono convinti che la tv sia lo strumento politico per eccellenza ma dimenticano che la pubblicità, dominando la televisione, non le consente di essere nient’altro che pubblicità, la quale con il suo regime strangola gli strumenti che usa. Ciò non impedisce comunque che l’effetto finale sia il fare “piazza pulita” di qualunque altro discorso. La tv crea vuoto, deserto di discorsi. Oggi la tv è un rumore di fondo che impedisce altre sintonizzazioni, è una causa di inquinamento acustico e visivo e come tale va trattata. È una nebbia che ci spinge verso le poche cose che lascia visibili. Il pubblico italiano non può accorgersi che altrove la rivoluzione mondiale della televisione è in piena esplosione. Gli immigrati lo sanno, da Al­Jazeera in poi sanno che la tv è diventata una miriade di discorsi, da quel­ li più chiusi del settarismo all’apertura delle diaspore; sanno che oggi essa è in procinto di diventare matrice di identità sparse nel mondo, informazione, ricordo, ripensamento. Non che sia meno ossessiva e ripetitiva di quanto fosse in precedenza, ma ha perso il suo carattere apodittico. Se avete accesso a cinquecento canali il livello di credibilità di ognuno di questi si abbassa e quello che rimane è l’impressione di “finestra sul mondo”. Anche se le finestre rimandano a mondi televisivi prima ancora che a diversi mondi reali.

L’Italia probabilmente non farà però questo salto. Resterà legata al proprio disincanto e alla noia. Si guarda la televisione per dimostrare a sé stessi che ci si può di tanto in tanto abbrutire senza sensi di colpa. L’Italia ha rinunciato alla propria storia, fatta di socialità e di vita pubblica, e ad altri tipi di derive e voli inerziali: vino, fumo, sogni.


Franco La Cecla insegna Antropologia dei media alla Naba di Milano. Ha insegnato Antropologia culturale presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, allo Iuav di Venezia e al Dams di Bologna. Ha tenuto corsi di Antropologia e Architettura all’Università di Berkeley, all’Ehess di Parigi, all’Upc di Barcellona. Il suo documentario In altro mare ha vinto il San Francisco Film Festival nel 2011. Tra le sue pubblicazioni recenti Indian Kiss (2012), Premio Letteratura di viaggio L’albatros 2013; Contro l’urbanistica (2015); Andare per la Sicilia dei Greci (2015); Ivan Illich e la sua eredità (2013); Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana (2015); Elogio dell’Occidente (2016); insieme a Francesca Nicola ha curato il Manuale di antropologia (2017). Con Stefano Savona ha curato l’istallazione “Praytime” e con Lucetta Scaraffia la mostra “Pregare, un’esperienza umana” alla Reggia di Venaria (2016).

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