Tabacco


Anche il tabacco può fare da madeleine, e aprire le porte del ricordo: un racconto di Carlo Vanin tratto da “Stonati” (Neo edizioni).


(Questo racconto è tratto da “Stonati”, a cura di Alessio Romano. Ringraziamo Neo Edizioni per la gentile concessione)

di Carlo Vanin

«Tabacco».
Mio padre affiorava dal buio come una nave arenata. La faccia, le prominenze dei suoi lineamenti, erano l’albero di maestra. La luce si raccoglieva in polle nelle asperità di quel viso che, anni dopo, avrei rivisto nello specchio di una casa sconosciuta.

Il resto del corpo restava immerso nell’oscurità. Una lucina arancione baluginava tra il suo volto e il posacenere di vetro: una sigaretta lunga e sottile. Una soluzione ipocrita di chi non vuole smettere di fumare.

Io giocavo coi Lego. Cercavo di costruire Yattacan, ma era impossibile. Al tempo non me ne rendevo conto, pensavo che un buon creatore potesse creare qualsiasi cosa utilizzando qualsiasi mezzo.

E mi incaponivo.

E quell’opera era uno sforzo mentale estremo per un bambino di otto anni.

Creare rotondità avendo a disposizione solo pezzi quadri.

Far affiorare lineamenti.

«’driano?!?»

Mia madre si affaccia dalla porta della cucina e chiama mio padre. È l’ombra di uno scricciolo in un mare di luce anodina.

«Cos’hai detto ‘driano?» chiede.

Mio padre non risponde, anzi sì, ma lo sento solo io.

«Tabacco» torna a dire.

I miei genitori si chiamano ‘driano e ‘nuska.

Le loro iniziali le hanno perse chissà dove, un giorno tra qui e il resto del tempo, quando io ero ancora uno sghiribizzo di cosa tremante appeso a un ramo secco.

Poi è arrivato un vento forte con un nome complicato e mi ha portato via.

Non che abbia avuto qualcosa in contrario.

Io la mia iniziale ce l’ho ancora, la gente non usa mai diminutivi con me. Come potrebbe? Mi chiamo Carlo e prima che cominciate a pensare che “l’ho fatta nel letto per fare un dispetto a mamma e papà” vi confesso che quella volta l’ho fatta nel letto perché mi sono svegliato d’un tratto e le streghe danzavano attorno al mio letto e le luci dietro di loro erano come di fiamme e non so.

Trentanove anni dopo, nella casa vuota dove c’è lo specchio che rimanda la faccia di mio padre, penso ancora che sia stato vero, penso sul serio che quando da bambino ho visto le streghe, le streghe fossero lì, nella mia stanza. Penso di aver sognato il pesciolino dentro al vaso e c’era musica di flauti, penso di aver visto quattro croci percorrere il cielo notturno e l’occhio di una balena grande come una supernova.

Spero che mi siano successe tutte queste cose perché, se non fosse così, allora la magia non esisterebbe e allora tutto accadrebbe senza una ragione e quel vento forte che si chiama sindrome parkinsoniana sarebbe solo un accidente, una funzione d’onda collassata nel punto sbagliato.

Aspiro forte. Il fumo entra dentro di me e mi indossa come un guanto. Sento qualcosa che si muove e vibra. A credere ai modi di dire sembrerebbe davvero che sotto questo scalpo spettinato ci siano degli ingranaggi. Perché adesso li sento fare clack clack clack, le ruote girano e si accoppiano.

Ecco che nascono le storie.

Mi viene in mente che non vi ho detto che fra il 2005 e il 2006 uscivo di notte a piegare cartelli stradali. Non è difficile e non ci vuole neppure tanta forza. Il pericolo è che se usi troppo slancio quelli se ne vengono proprio via dal marciapiede, soprattutto se cementati di fresco.

In quel periodo andavo da uno psicologo della mutua in un consultorio a Marghera. Mi faceva indossare un visore per la realtà virtuale e mi faceva “giocare” in uno spazio digitale pixelato più del primo Wolfenstein. Se mi mettevo a guardare troppo un oggetto, tipo una torta, lui mi chiedeva: «Perché ti sei soffermato così tanto a guardare la torta?»

«Non lo so».

«Chi le fa le torte a casa?»

«Io non cucino mai. Casomai a volte le fa mia mamma».

Appena sentiva la parola “mamma” lo psicologo orgasmava. Faceva impressione: partiva con una serie di domande su mia madre e io rispondevo. Finita la sessione, mi ammoniva: «Devi farla tu la torta, non devi aspettare che te la faccia la mamma».

Cacchio. Io sono più per il salato.

Non gli ho mai raccontato la storia dei cartelli stradali piegati e neppure il mio sogno di cospargere di maionese l’intera Via del Commercio, altrimenti chissà cos’avrebbe detto su mio padre.

Verso i trent’anni ho smesso di chiamare quello che la gente chiama comunemente “spinello” con le parole magiche che usavamo al liceo. Uso le parole “sigaretta con la droga dentro” o “canna”. Chiamo sia la marijuana che l’hashish droga. Quando sei grande la magia se ne va e non c’è più un mostro sotto le fogne della tua città che si nutre di paura, in questo lo zio Stephen aveva mentito. Quando sei grande nemmeno le cose che da giovane facevi o dicevi per sentirti grande hanno più tanto senso. Marijuana e hashish sono droghe e tu te le fai ieri come oggi. I codici si perdono, la memoria non è più tanto buona e magari un giorno fai per sederti e non ti siedi più perché non c’è nessuno in casa e c’è un buco nella tua stanza da letto.

Preparare la mista. Rollare la canna. Passare la canna. Fumare a camera. Fare un veliero. Andare a dovappa a prendere il mofu. Il ciosbatoio. L’unghia. La mutanda. Caricare il bongo. Il tiro di Leo. La sativa, la skunk. Il maschio, la femmina, le punte. I filtrini, le ocse, il tabacco.

Il tabacco.

Mio padre stava fermo. Era una statua di dubbio gusto inclinata verso il divano. Qualcosa, nel movimento che lo avrebbe fatto sedere sul divano, si era inceppato. Adesso so che si chiama freezing, ma allora non ci feci poi tanto caso. Dentro di lui, nella sua testa, un contatto era saltato. Un comando, proveniente dal sistema piramidale non era arrivato dove doveva arrivare. O forse era arrivato, aveva bussato e non aveva trovato nessuno in casa. Aveva continuato a bussare e suonare il campanello e strepitare, ma niente. In casa non c’era nessuno. Eppure erano sempre stati lì i tizi che facevano muovere quel muscolo particolare, perché adesso non si trovavano più? Erano in vacanza? Stavano male?

Erano morti?

Pochi mesi e una decina di neurologi dopo, mio padre non riusciva quasi più a camminare.

Da piccolo, in montagna, ricordo che confusi un terremoto per i passi di mio padre che stava tornando a casa. Vedevo le facce degli adulti intorno diventare terree e chiedevo “ma perché siete spaventati? È solo tornato il papà”.

I passi di mio padre adesso sono leggeri come gocce di pioggia. Non più tum tum tum, ma tic… tic… tic…

Quello che ha aspettato tutta la vita, vale a dire la morte, era arrivata in forma di un lunghissimo giorno di dolore senza scampo. I movimenti gli si sono rallentati, la bocca gli si è storta, gli occhi azzurri sono diventati vitrei. Tutto piano piano, senza troppa fretta.

Tiro forte. Aspiro tutto. Lo lascio entrare.

Non è come una sigaretta, quella io la fumo come se mi facesse schifo. Faccio tiri rapidi, non mando giù il fumo, la spengo a metà schiacciandola, come se volessi farle del male. La canna invece è una cosa che si deve trattare bene. È una cosa magica, come le streghe, i pesciolini, le croci e le balene.

Quando eravamo un branco di scimmie attorno a un fuoco, molto prima che William Hearst si inventasse una guerra idiota contro una pianta, ci sedevamo attorno al fuoco e ci passavamo il fumo. C’era un fuoco davanti a noi e dietro c’era il buio di un mondo popolato da belve e cose che volentieri ti avrebbero punto. Con l’erba della magia noi ci proteggevamo dall’oscurità alle nostre spalle. I nostri pensieri diventavano veloci, sentivamo gli altri della nostra comunità come un tutt’uno. Da lì sono nate tutte le storie del mondo. Da lì la tragedia di un padre morente, da lì Kevin Spacey che ti offre un Fernet prima di salire su un ufo, da lì Gilgamesh e la ciurma dei pirati di Cappello di Paglia, da lì le streghe e i pesciolini nei vasi.

Su questo terzo sasso dal sole, anche ora, mentre sto scrivendo e fumando, ci sono ancora persone in cerchio che si passano il fumo della magia.

Io, invece, ho perso il mio cerchio. All’apparire della morte, quando le cose si sono fatte crudeli e il vento dal nome difficile ha cominciato a soffiare, quando i capricci di mio padre sono diventate urla di rabbia contro un mondo che non riusciva più a interpretare, ho preso la porta e me ne sono andato.

L’ho visto riverso a terra, nudo. Aveva trentotto di febbre e non so, non sono un dottore, ma credo che febbre e parkinson si aiutino a vicenda in qualche modo, come fanno ogni tanto Joker e il Pinguino. Ho aiutato mia madre a rivestirlo e fra le gambe mio padre era tutto nero di ecchimosi.

L’ho portato quattro volte a quattro scuole guida differenti per fargli capire che non poteva più guidare, ma lui ha continuato a inveire contro tutto, soprattutto contro mia madre, colpevole solo di dirgli la verità, di dirgli che era malato.

Io non ho mai avuto il coraggio di quello scricciolo d’ombra di mia madre. Dicevo a ‘driano che sarebbe guarito presto. Lo calmavo quando era furioso e cattivo. Gli dicevo che non potevo procurargli una pistola per ammazzarsi o una siringa di veleno.

Poi, un giorno, senza un motivo, mio padre ha chiamato degli operai a fare un buco nella camera in cui ho dormito per trentanove anni e io ho preso la porta e me ne sono andato.

È stato facile e se ci penso mi vien da dire che un codardo messo alle strette può tirare fuori un bel po’ di coraggio dalla sua codardia.

Mia madre è ancora lì, sulla porta della cucina. Oggi non ha preparato nessuna torta. Allora non lo sapevo, ma fra qualche anno avrebbe anche smesso di preparare il tiramisù più buono di quella parte del tempo. Io giocavo con i miei lego e la televisione davanti a me mandava una partita di calcio con tutti i colori sbagliati. Eravamo così abituati a quella televisione che non era un problema se il campo fosse rosso.

«Cosa tabacco?» chiede ancora mia madre.

Mio padre ride come un cattivo di James Bond. È ancora lì, nell’oscurità, seduto sul suo divano. La fievole stella bruna della sua sigaretta si muove su e giù.

«I tubi» risponde. «I tubi i jera deventai tabaco».

I tubi erano diventati tabacco.

Aspiro. Trattengo.

Dentro, si spande.

È energia, ma è calmo.

Scuote e gira.

È come il primo giorno d’autunno.

Mi racconti una storia?

Una di quelle tue, una di quelle che mi portano via.

Una sola.

È un’estate a raggi violenti di fine anni ’90. 

Sto tornando a casa da un torneo preolimpico di chi ce l’ha più lungo e nella mia testa risuona ancora il motivetto che Vanilla Ice ha magistralmente interpretato durante il film delle tartarughe ninja. Arrivato in camera da letto, noto che c’è qualcuno addormentato sul lato passeggeri. Un po’ stempiato, tarchiatello, indossa una delle mie canottiere preferite (quella con meno buchi di sigaretta) e i miei boxer neri da quattro euro scarsi con il marchio NAVIGARE sulla fascetta elastica.

È Kevin Spacey.

Lo sveglio a spintoni.

«Vanin!» mi appella lui, ancora rincoglionito dal sonno.

«Vecchio, guarda che hai sbagliato uscita dell’autostrada» gli dico.

«No, è che non ce la faccio più, Vanin. Voglio mollare tutto».

«Molla finché vuoi ma non sul mio letto».

Kevin si mette a ridere e per poco non rido anch’io, ma cerco di mantenere un’aria infastidita.

«Senti, io non dormo coi tizi che hanno il pene» sputo «e porta pazienza se non mi viene in mente il nome scientifico di tali tizi».

«Allora portami a bere un Fernet»

Annuisco. Ho voglia anch’io di un Fernet e del mezzo pacchetto di Marlboro abbondante necessario a togliersi il sapore da fegato decomposto che ti lascia il Fernet nelle fauci.

Grazie alla cortese assistenza di Hitomi, la mia Yaris Ibrida, raggiungiamo il bar “乳首“, dalle parti di Westerly (Rhode Island). Qui presento a Kevin la commessa del turno di notte, tale Adelina Mazza, che fu l’amante segreta di Marisa Laurito durante il fausto connubio artistico con Arbore.

Davanti ad un bicchiere pieno pieno di Fernet e alle tettone borotalcate di fresco dell’Adelina, Kevin Spacey, ancora in boxer e canottiera, finalmente si confida.

«Non va bene, Vanin. Non va bene per niente».

«Cosa non va bene?»

«Il mondo. Le cose. La crisi. I film. Tutto».

«Ma trombi qualche volta?»

«Poco».

Rimango zitto e all’improvviso, come evocata da un’esigenza narrativa, una luce fortissima illumina il parcheggio dell’area di servizio. Una luce fredda e spaventosa, come quella delle volanti quando tutto ti va bene e credi di avere un futuro.

«Sono venuti a prendermi» dice Kevin, tracannando ciò che è rimasto del Fernet.

«Ma quindi voi venite davvero da K-Pax!» intuisco.

«Ma ti droghi o cosa?» mi chiede Kevin. Mi dà la mano e io gliela stringo, più per impulso pavloviano che per precisa volontà.

«Scusa per stasera, spero che le cose migliorino» aggiunge.

«Speri di trombare, vuoi dire» replico io, senza convinzione.

Kevin Spacey guarda l’ufo che è arrivato a prenderlo, poi guarda me e si mette a ridere. Si toglie canottiera e boxer e a culo nudo si avvia verso il suo passaggio. Non vorrei, ma vedo la sua virilità a riposo penzolargli tra le gambe come la coda di volpe sul calcinculo.

«Non venire più a dormire a casa mia se devi fare lo stronzo!» gli urlo, mentre si posiziona davanti al raggio traente del disco volante «Non hai neppure pagato il Fernet!»

Kevin continua a ridere e, mentre viene attratto verso l’astronave, muove il pugno su e giù davanti alla bocca, nel gesto universale del “ciuccialo”.

«House of cards fa cagare!» gli urlo io, sempre meno convinto, ma Kevin non mi caga più e viene risucchiato (fffup!) dentro al suo ufo del cazzo.

È a quel punto che Adelina esce di corsa dal bar agitando un telegramma.

«Vanin, devi subito correre alla Fortezza della Scienza! I Gamiloniani ci stanno attaccando!»

«A parte che hai citato due cartoni differenti, va bene» la rassicuro.

Dopo circa venti minuti scarsi sono sulla Yamato e sto ordinando al tenente Germanotta una cannonata a onde moventi contro l’astronave di Kevin Spacey. Fanculo, chi si crede di essere? I miei boxer poi, ma com’è abituata certa gente? Peggio degli idraulici. Brava gente, non discuto, ma selvatici come le ortiche.

Aspiro. Espiro fumo denso. L’odore è acre e serve dell’acqua o magari una birra. Le cuffie mi riempiono la testa della melassa ferromagnetica dei Massive Attack. Vi devo raccontare un’altra storia, l’ultima, anche se non è tanto una storia, più che altro tante storie che si agganciano l’una all’altra come i leoni di Voltron.

I tubi erano diventati tabacco.

Mio padre, allora, faceva l’idraulico, ma lui si era sempre definito termoidraulico installatore. Ripeteva quelle sillabe per lui astruse come una specie di poesia mandata a memoria. Dal buio in cui era sprofondato, dallo stesso divano su cui avrebbe tentato invano di sedersi trent’anni dopo, raccontò a me e mia madre la sua giornata di lavoro.

Stava riparando un impianto a Venezia e, dietro una parete crollata, aveva trovato delle condutture idrauliche che gli si erano sciolte in mano.

Uno dei suoi colleghi aveva detto allora che i tubi erano diventati tabacco.

È uno dei ricordi più lontani che ho e, anche se non l’ho vista, nella mia memoria conservo l’immagine di mio padre che prende il tubo fra le mani sporche di grasso e il tubo si disfa come le mie sigarette schiacciate.

Tabacco.

Aspiro. L’ultimo tiro. Gira un po’ tutto, adesso, e devo smettere.

Non so più cosa volevo raccontare, con quale storia vi volevo intrattenere.

Forse vi volevo dire che oggi sono tornato a casa con una sigaretta di droga e avevo tutta l’intenzione di darla a mio padre, ma non l’ho fatto. So che ci sono rimaste delle storie anche dentro la sua testa. Alcune le ho sentite mille volte, altre le sto scoprendo solo ora. Sono storie orribili come tutte le malattie che azzannano i padri e le madri. Sono storie sconclusionate, coi capitoli invertiti, zeppe di digressioni assurde, ma le voglio sentire perché temo che le storie di ‘driano non siano poi tanto diverse dalle mie.

Mio padre è vivo, adesso, ma è morto di oscurità da molto tempo.

Non ha mai avuto un cerchio, non ha mai avuto uno psicologo che gli chiedesse chi diavolo l’avesse fatta quella torta sul tavolo. Non ha mai provato quella sensazione che provi a volte quando fumi, la sensazione che le cose vanno bene e non c’è motivo di essere arrabbiati, che sei assieme a persone che ti amano e che tengono a te, amici, amanti, fratelli.

Non è mai stato nelle città dorate dalle mille guglie, né ha mai conosciuto Kevin Spacey, non ha corso nel micromondo delle brane, né ha sentito parlare i tuoni fra loro o visto le facce nella sabbia.

Io le ho avute tutte queste cose, invece e sì, le ho avute perché mio padre andava nei posti in cui i tubi si disfacevano fra le mani.

Ecco la storia che volevo raccontarvi.

Non è un granché e finisce male e non volevo che fosse così.

Avrei voluto dare la sigaretta di droga a mio padre e, come in uno di quei film americani, avrei voluto che ‘driano si alzasse dal divano e cominciasse a correre e guidare, invece è finita con un pugno di immagini spezzate.

Una strada di periferia cosparsa di maionese.

Una balena che nuota pigramente nel cielo di settembre.

Quella finestra dell’Empire State Building, proprio quella lì, che si illumina all’improvviso.

Un bambino così arrogante da voler costruire l’universo, così fragile che se lo tocchi potrebbe disfarsi fra le mani.

Come tabacco.


Il libro: Questo libro è una chiamata alle armi. In memoria di Marco Pannella molti dei migliori scrittori italiani scendono in campo a favore della legalizzazione delle droghe leggere in Italia. E lo fanno raccontando storie: alcune autobiografiche, altre inventate, molte bizzarre e qualcuna spaventosa, ma tutte con l’obbiettivo di alzare quel velo di ipocrisia che nasconde una questione sociale mai affrontata seriamente e un giro di affari miliardario di cui beneficiano diverse organizzazioni criminali.
I loro diritti d’autore (insieme a quelli del curatore) verranno devoluti all’Associazione “Luca Coscioni” per la campagna di antiproibizionismo “Legalizziamo!“.
Racconti di Alessandro Berselli, Francesca Bertuzzi, Stefano Bonazzi, Romano De Marco, Federica De Paolis, Barbara Di Gregorio, Marco Drago, Corrado Fortuna, Simone Gambacorta, Yasmin Incretolli, Gianluca Morozzi, Melissa Panarello, Alberto Petrelli, Renzo Paris, Piergiorgio Pulixi, Massimiliano Santarossa, Luca Scarlini, Carlo Vanin, Paolo Zardi, e con la partecipazione straordinaria di Gaetano Cappelli, Sandro Veronesi, Marco Vichi.
In copertina, Opium/Mah-Jonng, di Erté.

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