Tempo e memoria nel pensiero catastrofista

Il catastrofismo è una visione della natura che mette al centro la discontinuità come principale sorgente del cambiamento, in contrasto con il gradualismo. Ha due postulati imprescindibili: il tempo non è lo sfondo dei fenomeni, ma una proprietà delle organizzazioni materiali; non è la materia a muoversi attraverso il tempo, ma è il tempo che si muove attraverso la materia mediante la memoria.


IN COPERTINA e nel testo, opere di Glenn morgan

 

di Laura Tripaldi

“Il disastro è dalla parte dell’oblio; l’oblio senza memoria, il ritrarsi immobile di ciò che non è stato tracciato – l’immemorabile, forse; ricordarsi attraverso l’oblio, di nuovo il fuori.”

Maurice Blanchot, La scrittura del disastro

Mi stupisce sempre la disinvoltura con cui la geologia utilizza le parole “tempo profondo” come una semplice espressione tecnica, perché, da parte mia, non riesco a leggerle senza provare un’indefinibile sensazione di minaccia. Questa frase, utilizzata per la prima volta dallo scrittore John McPhee nel 1981, fa riferimento al passato geologico del nostro pianeta, la cui estensione è così grande da risultare del tutto inafferrabile per il nostro intuito umano. L’espressione “tempo profondo” è, infatti, portatrice di uno strano paradosso, anzitutto perché spazializza il tempo –ogni persona ragionevole sa che il tempo sta davanti, tutt’al più dietro, certamente non verso il basso, conficcato nelle viscere della terra. Questo tempo vertiginosamente verticale, che apre la nostra mente alla possibilità terrificante che il passato si agiti ancora vivente sotto ai nostri piedi, è un tempo che ci riguarda ma non ci appartiene: evoca la stessa sensazione di nuotare in un mare di cui non riusciamo a vedere il fondo. Per quanto si tratti di un’espressione coniata molto di recente, il concetto di tempo profondo nasce secoli prima, nel momento in cui ci siamo accorti che scavando nelle profondità della terra stavamo anche scavando negli abissi del nostro passato geologico. Nel 1830, Charles Lyell, uno dei padri della geologia moderna, commenta in modo particolarmente struggente la scoperta del tempo profondo: 

“Tali visioni dell’immensità del tempo passato, come quelle svelate dalla filosofia Newtoniana riguardo allo spazio, erano troppo vaste per risvegliare un senso del sublime non mescolato a un senso doloroso della nostra incapacità di concepire un piano di così infinita estensione. Mondi si rivelano oltre altri mondi incommensurabilmente distanti gli uni dagli altri, e oltre tutti loro, innumerevoli altri sistemi si delineano debolmente ai confini dell’universo visibile.”

L’idea di tempo profondo è, storicamente e concettualmente, inseparabile da quella di catastrofe. Si tratta di due concetti che, almeno nell’accezione moderna, hanno preso forma insieme a partire dagli albori della geologia, quando le vicende bibliche e i dati empirici erano considerati equivalenti sul piano epistemologico, e che, nonostante i numerosi tentativi di separarli, sono rimasti inevitabilmente intrecciati nella scienza contemporanea.

Parlando di catastrofismo, è fondamentale sottolineare la molteplicità delle diverse teorie e discipline che sono state abbracciate da questa definizione. Pur nascendo come dottrina strettamente geofisica, il catastrofismo, nel corso della sua storia, ha assunto significati biologici, culturali, psicoanalitici, fantascientifici; si è espanso fino al dominio della matematica, dove ha sconquassato i paradigmi delle epistemologie tradizionali. Se sono certamente esistiti molti catastrofismi, non sempre in esplicita relazione tra loro, è indubitabile che tutti, in un modo o nell’altro, affondano le proprie radici in una prospettiva comune sulla natura della realtà che ci circonda. Ma che cos’è, allora, il catastrofismo?

Per adottare una definizione il più possibile generale, il catastrofismo è qualsiasi visione della natura che mette al centro la discontinuità come principale sorgente del cambiamento. In altri termini, il catastrofismo può essere definito in contrasto con il suo storico avversario, il gradualismo o uniformitarianismo: l’idea che tutto ciò che avviene nella natura sia essenzialmente omogeneo, cioè che ogni cambiamento possa essere previsto in continuità con le condizioni di partenza che l’hanno prodotto. A proposito della distinzione tra catastrofismo e gradualismo, prima di addentrarci nei numerosi modi in cui queste due prospettive si sono declinate nel corso della storia della scienza e della cultura, si possono subito avanzare alcune considerazioni preliminari. La prima è che, diversamente dall’uso comune che viene fatto del termine, il catastrofismo ha ben poco a che fare con il pessimismo. Al contrario, ogni teoria catastrofista si basa sull’idea fondamentale che la discontinuità sia il motore primario della produzione di tutte le strutture naturali e culturali: la catastrofe è una forza creativa prima che distruttiva, grazie alla quale si producono sempre nuove forme. La seconda idea, altrettanto importante, è che gradualismo e catastrofismo propongono due visioni contrapposte della natura del tempo. Nel suo saggio Time’s Arrow, Time’s Cycle, il naturalista Stephen Jay Gould, partendo dalle riflessioni antropologiche di Mircea Eliade, avanza l’idea che queste due teorie geologiche ripropongano l’antica dicotomia tra tempo lineare e tempo ciclico che attraversa la nostra cultura occidentale. Riformulando questa prospettiva in altri termini, lo scontro tra catastrofisti e gradualisti è anche un conflitto tra irreversibilità e reversibilità del tempo, nella misura in cui la catastrofe è per definizione ciò da cui non si può tornare indietro. 

Il catastrofismo ha una storia antica: pressoché ogni civiltà umana possiede almeno un mito catastrofico, dal diluvio biblico alla “caduta del cielo” dei nativi sudamericani. Tuttavia, il tentativo di riconciliare queste narrazioni mitologiche con una teoria scientifica dell’evoluzione del nostro pianeta ha una storia relativamente recente. Thomas Burnet, geologo e teologo inglese vissuto alla fine del diciassettesimo secolo, incarna in modo esemplare il tentativo della scienza del suo tempo di riconciliarsi con i dogmi religiosi. Nel suo trattato del 1681 Telluris Theoria Sacra, Burnet cerca di elaborare una spiegazione geofisica del diluvio universale, proponendo che le acque del diluvio, anziché piovere, fossero sgorgate da una spaccatura nella crosta terrestre liberando un immenso oceano sotterraneo. Sulle orme delle teorie di Burnet, pochi anni dopo, il matematico William Whiston, ispirato dalle recenti scoperte dell’astronomo Edmond Halley, propose che il diluvio universale fosse stato causato dal passaggio ravvicinato di una cometa, la cui coda ghiacciata si sarebbe sciolta al contatto con l’atmosfera provocando piogge interminabili. La stessa cometa, poi, avrebbe distorto l’orbita terrestre, che avrebbe perso la sua traiettoria sferica per acquisire quella ellittica che conosciamo oggi. Queste due teorie mettono subito in luce una delle spinte più rilevanti al cuore del catastrofismo, cioè la tensione tra le profondità della terra e le profondità dello spazio, che diventano, ai fini della catastrofe, del tutto interscambiabili; un conflitto che rimanda, come cercherò di argomentare, a una visione complessa del rapporto tra esteriorità e interiorità.

La storia della geologia moderna è dominata da due figure che sono finite per incarnare i due poli opposti nella controversia tra catastrofismo e gradualismo. A condurre la legione catastrofista c’è Georges Cuvier, paleontologo francese e padre dell’anatomia comparata, il quale, alla fine del diciottesimo secolo, studiando i fossili raccolti nel bacino di Parigi elaborò per primo il concetto di estinzione. Secondo Cuvier, la storia della terra era spezzata da improvvise e devastanti catastrofi che, memore dell’esperienza della Rivoluzione Francese, aveva significativamente scelto di indicare con il termine révolutions; questi cataclismi avrebbero provocato la completa scomparsa della vita sulla terra, alla quale avrebbe fatto seguito un sempre nuovo processo di creazione. Dalla parte dei gradualisti, il geologo James Hutton contrappose alla geofisica rivoluzionaria francese l’efficienza britannica incarnata dalla neonata macchina a vapore. Universalmente considerato il fondatore della geologia moderna, Hutton, studiando alcune conformazioni rocciose sulla costa scozzese – che presero da lui il nome di incongruenze di Hutton – intuì che la crosta terrestre è soggetta a un continuo movimento di distruzione e rigenerazione. Nel suo celebre trattato del 1788 Theory of the Earth, Hutton descrive il mondo come una gigantesca macchina capace di rigenerarsi ciclicamente, la cui origine, così come la sua fine, si perdono inesorabilmente negli abissi del tempo. Citando Gould, 

“Riconoscendo il carattere magmatico di molte rocce precedentemente considerate sedimentarie (prodotti della degradazione), Hutton incorporò il concetto di riparazione nella storia geologica. Se il sollevamento può ripristinare una topografia erosa, allora i processi geologici non hanno alcun limite di tempo. La degradazione a opera delle onde e dei fiumi può essere invertita, e la terra ripristinata alla sua altezza originaria tramite forze di elevazione. Il sollevamento può seguire l’erosione in un ciclo illimitato di creazione e distruzione. […] Il tempo ciclico domina la macchina del mondo fatta di erosione, deposizione, consolidamento e sollevamento; continenti e oceani cambiano posto in una lenta coreografia che non può mai finire, o nemmeno invecchiare, fintantoché un potere trascendente manterrà l’ordine corrente delle leggi della natura. Il tempo profondo diventa una semplice deduzione del funzionamento della macchina del mondo.”

Come molti storici della scienza contemporanei, Gould evidenzia come il racconto della controversia tra catastrofisti e gradualisti in geologia sia stato ingiustamente sbilanciato dalla parte dei secondi. Secondo queste narrazioni, in larga misura attribuibili all’eredità del gradualista George Lyell, mentre i catastrofisti erano oscurantisti e dogmatici, semplicemente intenzionati a trovare un riscontro empirico dei cataclismi descritti nelle Sacre Scritture, i gradualisti si facevano portatori di un approccio scientifico e illuminato, professando l’uniformità delle leggi della natura al di là di ogni possibile intervento divino. In base a questa narrazione, senza dubbio parziale, le posizioni catastrofiste persero terreno a partire dall’inizio del ventesimo secolo, solo per riemergere con rinnovato vigore negli anni recenti. Oggi siamo tutti catastrofisti, nella misura in cui riconosciamo il ruolo imprescindibile delle estinzioni di massa nell’evoluzione della vita sulla terra. Del resto, a partire dalla scoperta del cratere di Chicxulub nel 1978, non possiamo più escludere la possibilità che un evento del tutto singolare come l’impatto di un oggetto venuto dallo spazio possa aver lasciato una traccia indelebile tra le pieghe del tempo profondo del nostro pianeta. La macchina del mondo, sembrerebbe, non è una macchina in moto perpetuo.

Entro la prima metà del Novecento, il catastrofismo aveva ormai perso qualsiasi credibilità scientifica, ma, spinto ai margini della scienza ufficiale, trovò un inaspettato rinascimento. Il neocatastrofismo, come è conosciuto oggi, è inseparabile dalla figura di Immanuel Velikovsky. Nato nel 1895 da una famiglia ebraica in una piccola città della Russia occidentale, Velikovsky si laurea in medicina nel 1921, specializzandosi in psichiatria. A partire dagli anni ’40, trasferitosi a Princeton, inizia a interessarsi di archeologia e antropologia, con l’idea di utilizzare gli antichi testi religiosi, primo tra tutti la Bibbia, per ricostruire la storia geologica del nostro pianeta. Velikovsky raccolse i suoi risultati in una serie di libri che riscossero un vasto successo, soprattutto a seguito della reazione virulenta della comunità scientifica nei loro confronti. Il primo, intitolato Worlds in Collision (Mondi in Collisione), fu pubblicato per la prima volta nel 1950 dalla casa editrice Macmillan, la quale fu costretta a ritirarlo dalla sua collana solo dopo pochi mesi per evitare di compromettere la sua reputazione scientifica. L’intera controversia tra Velikovsky e gli astronomi a lui contemporanei fu così lunga e tormentata che finì per essere ribattezzata “the Velikovsky affair”.

Alla base delle teorie di Velikovsky c’è l’ipotesi che gli eventi catastrofici descritti nei testi biblici, in particolare la divisione delle acque del Mar Rosso e la devastazione dell’esercito del re assiro Sennacherib durante l’assedio di Gerusalemme nel 701 a.C., siano realmente avvenuti, e che siano stati provocati, piuttosto che dall’intervento divino, dal passaggio ravvicinato di due gigantesche comete che, una volta stabilizzatesi in nuove orbite, sarebbero diventate il pianeta Venere e il pianeta Marte. Per quanto l’idea di fondo possa apparire tanto stravagante quanto semplice, è assolutamente impossibile rendere merito alla ricchezza immaginifica del pensiero di Velikovsky in poche righe. L’autore correda gli scenari catastrofici che descrive con una mole così straordinaria di dettagli che il lettore si sente trasportato sotto cieli infuocati e catapultato nell’oscurità di notti senza fine. Nel momento più alto di Mondi in Collisione, Velikovsky afferma che la teofania descritta nell’Esodo, cioè la manifestazione della parola divina a Mosé nel deserto, non fu che il risultato di un immenso terremoto, provocato dall’attrazione gravitazionale esercitata da Venere sulla crosta terrestre. “Nei giorni dell’Esodo”, scrive Velikovsky, “quando il mondo venne squassato e ridotto in rovina e tutti i vulcani vomitarono lava e tutti i continenti oscillarono, la Terra ululò quasi incessantemente”. Il nome di Dio, la parola generatrice di tutte le parole, non sarebbe altro che un’aberrazione tettonica, l’urlo di un pianeta che tra fiotti di magma lucente viene squarciato tra il cielo e la terra. 

Non credo sia necessario dilungarmi in questa sede sui motivi per cui le teorie di Velikovsky sono implausibili. Leggendo i suoi testi, sovrastati dalla mole pachidermica di prove e documenti che l’autore porta a sostegno delle sue bizzarre teorie geofisiche e ipnotizzati dai racconti di tempi e civiltà perdute, ci si sente davvero come assopiti sul lettino di uno psicoanalista. Pagina dopo pagina, dalle profondità della nostra immaginazione – o forse, direbbe lui, della nostra memoria – emerge come un trauma rimosso il sospetto che tutto ciò che ci viene raccontato possa essere avvenuto davvero e che sia rimasto semplicemente sepolto sotto ai sedimenti della nostra storia. In effetti, il progetto di trattare l’umanità come un paziente psichiatrico, e i suoi artefatti culturali come sogni confusi da reinterpretare alla luce di un passato traumatico dimenticato, è al cuore dell’intera opera di Velikovsky. Nell’introduzione a Mondi in Collisione, l’autore scrive esplicitamente che il suo lavoro “non è stato dissimile da quello del psicoanalista il quale, dalle disarticolate memorie e dai sogni di un individuo, ricostruisce un’esperienza traumatica verificatasi al principio della sua esistenza e poi dimenticata”. Questa idea è ulteriormente sviluppata da Velikovsky nel suo saggio Mankind in Amnesia, in cui sostiene che gli eventi catastrofici descritti nelle sue opere precedenti abbiano prodotto una sorta di amnesia collettiva a cui lui si propone di porre finalmente rimedio.

Rispetto al catastrofismo tradizionale, nel neocatastrofismo di Velikovsky non è più soltanto la morfologia terrestre, ma è la stessa natura psichica e culturale dell’umanità a configurarsi come il prodotto della catastrofe. Nel ricostruire la storia perduta della nostra specie, siamo spinti a scavare così tanto in profondità nella nostra psiche collettiva che ci troviamo catapultati fuori da noi stessi e proiettati negli abissi imperscrutabili dello spazio, per scoprire che il nostro substrato culturale non è che il risultato di forze aliene incommensurabilmente distanti da noi. Velikovsky è tra i numerosi autori a cui Thomas Moynihan fa riferimento nel suo saggio Spinal Catastrophism. A Secret History per intessere un ricchissimo arazzo delle ramificazioni del catastrofismo attraverso la storia del pensiero occidentale. Durante la lettura, si viene resi partecipi di una corrente catastrofista sotterranea che connette una varietà stupefacente di diversi pensatori e discipline: da Haeckel a Burroughs, da Ballard a Kant, da Coleridge a Ferenczi, leggere Spinal Catastrophism è come partecipare a un lunghissimo esperimento di anatomia comparata del pensiero, in cui i resti fossili di autori dimenticati diventano l’inaspettato punto di partenza per la filogenesi delle nostre categorie culturali. Tra le pagine del libro, le citazioni del professor D. C. Barker, uno studioso fittizio la cui genealogia risale agli scritti della CCRU negli anni ’90, si mimetizzano con perfetta continuità tra le teorie bizzarre di scienziati vittoriani semisconosciuti, producendo una suspension of disbelief che richiama, per molti aspetti, quella suscitata dall’opera dello stesso Velikovsky. La spina dorsale, come suggerisce il titolo, è al centro di questa dettagliatissima opera di scavo, tanto che l’intero saggio è strutturato come una lenta discesa, dal cranio fino al coccige, lungo la colonna vertebrale.

Per inquadrare il significato profondo di questa discesa, è necessario introdurre brevemente il concetto di ricapitolazione, che, secondo Moynihan, si è originato come “risposta immunitaria” alla scoperta del tempo profondo. La ricapitolazione fa riferimento alla capacità del corpo e della psiche dell’individuo di contenere una traccia del loro sviluppo pre-individuale. Nella psicoanalisi, questo concetto emerge a partire da Freud nella ricerca di un substrato primordiale della struttura dell’inconscio e raggiunge il suo apice nelle teorie di Sándor Ferenczi, il quale, nel suo saggio del 1924 Thalassa, ipotizza che la psiche sia stata plasmata nel corso dell’evoluzione in risposta a una successione di catastrofi geologiche. In biologia, questa idea si traduce nella legge biogenetica fondamentale, ovvero nel noto principio secondo cui l’ontogenesi – lo sviluppo fisiologico dell’individuo – ricapitola la filogenesi, cioè lo sviluppo evolutivo della specie. In termini più astratti, se nessuna coscienza può fare esperienza delle tenebre primitive da cui è emersa, lo sviluppo della nostra ragione umana produce una frattura insanabile nel tempo e nello spazio, che può essere risolta soltanto attraverso quella che Moynihan definisce un’operazione di “fagocitosi” del “fuori inorganico” da cui siamo stati prodotti. Tuttavia, questa operazione conduce, inevitabilmente, a una “fatale indigestione”: nel momento in cui riusciamo a inghiottire questo “grande fuori”, ci ritroviamo inghiottiti a nostra volta, perché scopriamo che siamo umani solo in virtù del substrato inumano da cui abbiamo preso forma. In questo senso, la visione del catastrofismo presentata da Moynihan, partendo dall’idea di una discontinuità irreversibile tra la coscienza e l’universo che la circonda, si inserisce nella tradizione del catastrofismo originario, ma ne radicalizza le conclusioni. Sotto questa nuova prospettiva, non siamo più né le vittime, né i prodotti della catastrofe: è la nostra natura umana ad essere intrinsecamente catastrofica, nella misura in cui ci strappa dalla continuità di un universo estraneo per intrappolarlo, come un confuso ricordo, nella morfologia del nostro scheletro. Citando Moynihan,

“La ‘dimenticanza’ non era più soltanto una carenza cognitiva ma il principio stesso dell’incarnazione e della cronologia. Il fatto stesso di avere un corpo, così infestato da malattie e recalcitranze, era per lo spirito puro una forma di dimenticanza. (L’amnesia, infatti, è l’unico modo in cui certi filoni di Idealismo possono per lo meno iniziare a spiegare la storia naturale). Perciò, l’interiorità più profonda era improvvisamente abitata dal passato più estraneo, invisibile alla vita della mente, esperito interiormente come una sorta di opacità dell’intelletto (sebbene manifestato esteriormente come un corpo e la sua storia evolutiva). […] La materia è mente affetta da amnesia.”

La catastrofe, in questo senso, è al contempo sempre presente e sempre immemorabile, perché, producendo le strutture fisiche, psichiche e culturali che ci definiscono, ci esclude come agenti del loro sviluppo e ci impedisce di conservarne una memoria cosciente. “Questo è ciò che il tempo fa a un corpo”, ci ammonisce Moynihan: “il contenimento psicosomatico di sé stessi, una volta percolato attraverso la Storia Suprema, equivale all’alienazione ipogenica, l’alienazione di un corpo crivellato dal tempo”. Nella tensione tra passato e futuro, sviluppo e regressione, la produzione dell’umano non è altro che un residuo traumatico, in cui l’innalzamento della spina dorsale, che culmina nell’emersione della coscienza individuale, si configura come la forma più profonda di rimozione. 

In questo contesto, si manifesta un altro aspetto fondamentale del catastrofismo, che è il suo rapporto con i processi di morfogenesi, cioè la produzione di strutture materiali e culturali. René Thom, un matematico francese del secolo scorso, ha avuto il merito di formalizzare per primo la relazione tra catastrofe e morfogenesi. La sua teoria delle catastrofi, sviluppata negli anni ’70, è prima di tutto un approccio alla produzione di modelli matematici qualitativi per giustificare la nascita di nuove strutture attraverso le discontinuità. La topologia, una branca della geometria contemporanea, è lo strumento che Thom utilizza per descrivere quello che intende per catastrofe, cioè qualsiasi fenomeno in cui una piccola variazione di un parametro determina un cambiamento macroscopico delle sue conseguenze. Se ogni fenomeno può essere modellato attraverso la topologia di una superficie (non necessariamente bidimensionale), è possibile determinare le catastrofi a cui può essere soggetta, cioè quei punti di discontinuità che ne caratterizzano lo sviluppo. René Thom li definisce, utilizzando un termine che sarebbe stato poi recuperato nel contesto della teoria del caos, attrattori: trappole morfologiche che, come buchi gravitazionali, dirigono lo sviluppo di un sistema e ne determinano la stabilità strutturale.

La teoria delle catastrofi, infatti, nasce proprio con l’obiettivo primario di rendere conto della presenza di strutture stabili nel contesto di un ambiente variabile, come accade, ad esempio, nel caso delle strutture biologiche, come gli embrioni, che si sviluppano sempre nelle stesse forme anche in condizioni di crescita differenti. Piuttosto che studiare le specifiche forze in gioco in ciascun sistema, Thom propone che questa stabilità possa essere modellata in modo del tutto generale, se non addirittura “archetipico”, attraverso la geometria. A rendere interessante l’approccio di Thom è l’idea che la stabilità strutturale sia sempre il frutto di una discontinuità: in un sistema dominato da attrattori, ogni stato stabile è catastrofico, perché, anziché mantenere una traccia dettagliata e reversibile del proprio passato, lo “dimentica” per assestarsi in una morfologia specifica. Possiamo visualizzare questa idea con un semplice esempio: osservando la traiettoria di una palla da biliardo in movimento, possiamo facilmente determinare in modo esatto il percorso che ha svolto per arrivare alla sua posizione attuale, ma, una volta che la palla si è assestata nella buca, che agisce come un attrattore del sistema, perdiamo del tutto la capacità di ricostruire precisamente il suo passato. La palla in movimento è un sistema che si sviluppa in modo continuo, ed è anche un sistema instabile, perché ogni perturbazione produce un diverso effetto; viceversa, la palla nella buca è un sistema stabile in quanto catastrofico, perché numerosi diversi cammini conducono sempre allo stesso risultato discontinuo. Se, poi, sul nostro tavolo da biliardo sono presenti due buche, si introduce l’idea di biforcazione: la possibilità che una piccolissima variazione della traiettoria diriga il sistema verso l’uno o l’altro attrattore, producendo conseguenze radicalmente differenti. 

Come spiega lo stesso Thom in una lunga intervista del 1980 con Giulio Giorello e Simona Morini, “le discontinuità morfologiche sono precisamente gli elementi più salienti e spesso anche i più stabili. Può apparire paradossale che le discontinuità siano stabili, ma è un fatto della nostra esperienza: a prova di ciò non mi serve altro, ad esempio, che il contorno di un oggetto solido, che è ovviamente qualcosa che rimane stabile. Da questo punto di vista, allora, si può dire che il primo dovere di qualsiasi interpretazione morfologica consiste nel determinare le discontinuità di una morfologia e le parti stabili di queste discontinuità.” Riformulando questo concetto in altri termini, tutta la realtà della nostra esperienza, a partire dall’osservazione quotidiana che gli oggetti sono dotati di forme e contorni, è il risultato di un continuo processo catastrofico insito nella struttura stessa delle cose, che coinvolge anche le strutture biologiche dei nostri corpi. Anche in questo caso, la nascita di nuove forme stabili e la loro sopravvivenza attraverso il tempo avvengono al prezzo di una separazione irreversibile del futuro dal passato.

Il catastrofismo, dunque, è chiaramente radicato in una precisa idea della relazione della temporalità con le strutture materiali. Secondo Thom, le catastrofi determinano lo sviluppo e la stabilità delle strutture nel tempo; nel contesto della biologia speculativa di Moynihan, ciò avviene identificando la regressione filogenetica con la produzione di un nuovo tempo retrogrado e interpretando il futuro come una calcificazione fisiologica del passato. Del resto, il catastrofismo è precisamente una teoria, fisica e filosofica, del tempo, che si articola attorno a due postulati imprescindibili: il primo è che il tempo non è lo sfondo dei fenomeni, ma una proprietà delle organizzazioni materiali; il secondo, che presuppone il primo, è che non è la materia a muoversi attraverso il tempo, ma è il tempo che si muove attraverso la materia mediante la memoria. La memoria, per il catastrofista, coincide con il tempo dei corpi, che quindi non è mai un tempo “in avanti”, ma è sempre e necessariamente un tempo “all’interno”, un tempo profondo

In un certo senso, la capacità della materia di ricordare, quella memoria stratificata e sedimentaria che racchiude il tempo come processo, è soprattutto una forma di oblio, nella misura in cui costringe i corpi nella gabbia dell’irreversibilità facendoli scivolare spontaneamente in un futuro che li attrae e da cui non possono mai tornare indietro del tutto. Il paradosso a cui siamo costretti ad approdare – la struttura traumatica che sostiene la nostra esistenza fisica e culturale – consiste nel fatto che ciò che è reversibile, ciò che può essere ripercorso all’indietro passo dopo passo e con gradualità, è estraneo al tempo. Se il tempo catastrofico è sempre un tempo traumatico, la memoria è una forma di oblio: ciò che non dimentica non ha memoria. Nel contesto del catastrofismo, allora, il futuro si configura come una lunga amnesia, che trasciniamo, come un organo vestigiale, nelle profondità delle nostre ossa.


laura tripaldi Si occupa di chimica dei materiali e nanotecnologie come ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. “Menti PArallele”, il suo primo libro, è uscito per Effequ.

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