Agosto su Indiscreto è sinonimo di racconti: abbiamo deciso di affidare ogni anno a una persona diversa la curatela del nostro breve mese letterario. Quest’anno a curare la selezione per noi è lo scrittore Vanni Santoni. Il racconto che segue è di Emi Fontana, che ringraziamo.
IN COPERTINA, un’opera di Telemaco Signorini
di Emi Fontana
(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)
Spesso di domenica i miei genitori caricavano me e mio fratello sulla macchina di famiglia, un maggiolino Volkswagen grigio del 1966 per cui io nutrivo una vera e propria venerazione. Avrò avuto circa sei anni e mio padre si era fatto un nuovo amico, il dottor De Vecchi, collezionista di oggetti d’arte e quadri antichi. Il dottor De Vecchi e sua moglie trascorrevano il week end in una casa di campagna vicino Milano, nei pressi di Miradolo, un piccolo villaggio il cui nome mi pareva uscito da una fiaba. Fendendo la nebbia mattutina interrotta da qualche anemico raggio di sole, mio padre al volante fischiettava e raccontava barzellette, un comportamento piuttosto inusuale per lui tanto da sembrarmi sospetto. Quando finalmente il maggiolino imboccava il viale d’ingresso alla villa l’eccitazione montava. Il dottor. De Vecchi e sua moglie, che non avevano figli, ci aspettavano davanti alla casa, vedendoci arrivare iniziavano a sbracciarsi in segno di saluto e ci sorridevano di lontano. Subito dopo il benvenuto e convenevoli di circostanza mio padre e il dottor De Vecchi iniziavano a confabulare e sparivano per ore. La casa era piuttosto buia e polverosa piena zeppa di mobili, tappeti, quadri e oggetti di ogni tipo. Io ne ero affascinata e quasi intimorita, come se quelle stanze conservassero un segreto che non mi era ancora dato di conoscere. Occasionalmente un raggio di sole penetrava tra le persiane chiuse, viaggiava, attraversando la stanza, la luce si frammentava in minuscole particelle luminose, giocando con i granelli di polvere; a tratti si addensava concentrandosi sull’impiallacciatura finemente decorata di un tavolino o sull’intarsio elaborato di un mobiletto. Alcuni oggetti erano veramente carini soprattutto le statuette di porcellana di damigelle e danzatrici. Mi piaceva aggirarmi sola in quel mondo di cose inanimate che potevo facilmente piegare ai voleri delle mie fantasie. Con gli occhi semichiusi, nel baluginio delle particole di polvere illuminate dal sole, osservavo le damigelle di porcellana, finché i loro arti sottili incominciavano a muoversi con armonia e quei piccoli volti bianchi e perfetti si schiudevano in un sorriso. Allora tendevo le braccia sperando di potermi unire al mio nuovo gruppo di amiche, danzare con loro. La voce di mia madre che mi pedinava, mi svegliava bruscamente dalla mia rêverie “Stai attenta non toccare, non toccare niente”. A volte il dottor De Vecchi illustrava ai miei genitori proprietà e storie di quegli oggetti polverosi e affascinanti. Durante una di queste spiegazioni, che orecchiavo avidamente cercando di capirci qualcosa, captai la parola maggiolino o maggiolini che veniva spesso menzionata e poi ripetuta dai miei genitori durante il viaggio di ritorno a Milano. La cosa mi lasciava alquanto perplessa perché sicuramente non parlavano della nostra automobile. Inoltre, i miei genitori pronunciavano maggiolino in un modo molto particolare; con reverenza e compiacimento lasciavano che le i consonanti dolci della parola gli rotolassero lentamente in bocca perfino con un pizzico di sensuale abbandono, che io francamente trovavo imbarazzante.
L’Italia degli anni Sessanta era un paese razzista, di un razzismo intestino, contro i meridionali. Una forte ondata migratoria costituita soprattutto da uomini che lasciavano il duro lavoro stagionale dei campi per il posto in fabbrica, incominciò a muoversi dalla metà degli anni Cinquanta, dalle regioni del Sud verso le grandi capitali industriali del Nord, Torino e Milano. Negli stessi anni si muoveva un altro flusso migratorio, più discreto e meno drammatico: giovani professionisti meridionali con una laurea in tasca lasciavano il comfort delle loro famiglie alla ricerca di indipendenza, inseguendo un sogno di vita moderna nelle grandi città del Nord. I miei genitori erano tra questi; a casa parlavano il dialetto pugliese dei loro paesi e lo facevano anche con un certo orgoglio, un segno di fedeltà alle radici; con me e mio fratello parlavano in italiano: un italiano sintatticamente perfetto, ma una fonetica pesantemente riconoscibile come meridionale. I miei compagni di scuola spesso mi prendevano in giro imitando la parlata dei miei genitori, lo trovavo terribilmente imbarazzante e francamente ingiusto. Soffrivo, quando mia madre cercava di controllare le sue consonanti contando sulla sua bellezza e innata eleganza per non essere trattata come una paria nei negozi del centro. I miei genitori vivevano le difficolta dell’integrazione e questo si rifletteva sul modo in cui io crescevo e sulla formazione della mia identità. Iniziai presto a coltivare un sentimento di differenza, a non ritrovarmi mai nella maggioranza, a non sentirmi mai completamente integrata.
MAGGIOLINO. Era come se quella parola fosse un mantra che potesse finalmente trasportare i miei giovani genitori nella classe sociale a cui per nascita sentivano di appartenere, liberandoli dall’equivoco in cui spesso il loro pesante accento meridionale li relegava. Era la password che gli avrebbe garantito un primo grado di appartenenza ad una borghesia milanese rampante e ambiziosa.
Presto anch’io cominciai a godere delle proprietà taumaturgiche di quella parola e a crogiolarmi nella momentanea serenità che pareva offrire alla mia famiglia. Non c’è bisogno di sapere il significato di una formula magica per costatarne la potenza.
In seguito, scoprì che Giuseppe Maggiolini era un artista falegname di grande talento, famoso per i suoi intarsi, vissuto a Milano alla fine del Settecento. L’arte dell’intarsio implica un processo di integrazione di materiali diversi, attraverso cui, minuscoli pezzi di legni pregiati, frammenti di gusci di tartaruga, avorio e madreperla, formano motivi decorativi, disegni, immagini. Cassettiere, scrivanie, comodini, tavoli da gioco, in volumi neoclassici piuttosto squadrati, decorati con motivi astratti o figure, spesso citazioni dal repertorio Greco-Romano: allegorie antropomorfiche delle stagioni, trionfi di strumenti musicali, cornucopie di frutta, composizioni floreali. I mobili di Maggiolini e bottega erano oggetti di desiderio e venerazione per la borghesia Milanese, specialmente per coloro che non erano stati abbastanza fortunati da ereditarli da generazioni precedenti. Il dottor De Vecchi aveva diversi “maggiolini”.
Quando i miei genitori rincasavano dopo una serata a casa di amici, spesso li sentivo parlare di qualche meraviglioso “maggiolino” che avevano visto in casa di questo o di quello, certamente un segno che si trattasse di persone degne di essere frequentate.
-->Improvvisamente durante le visite domenicali a Miradolo, iniziai ad orecchiare una nuova parola ricorrente nelle conversazioni: “signorini”. Notai che “signorini “oltre a fare rima con “maggiolini” differiva solo di una vocale dalla parola “signorina” che comunque per me ancora aveva un suo fascino. “Signorini, maggiolini” ripetevo cantilenando mentre saltellavo nel prato davanti alla villa dei signori De Vecchi. Il mio vocabolario di abracadabra si andava arricchendo.
In seguito, scoprì che Telemaco Signorini era il leader del gruppo di pittori toscani conosciuti come “Macchiaioli”. Questi giovani artisti, insoddisfatti con l’arte delle Accademie, volevano rinvigorire l’arte italiana portandola all’aperto, en plein air, precedendo di poco gli Impressionisti francesi.
Insomma, viene fuori che il dottor De Vecchi è anche una grande collezionista dei Macchiaioli e in particolare di Telemaco Signorini.
I miei genitori non avevano abbastanza soldi da potersi permettere l’acquisto di un Signorini che divenne così un altro oggetto di desiderio, un nome onnipresente nelle loro discussioni. Mio padre si consumò per qualche settimana in una bramosia di possesso che lo rendeva nervoso, irritabile; a volte lo sorprendevo a sfogliare un pesante librone sui Macchiaioli con aria pensierosa. Per fortuna presto si arrivò a una svolta. Avevamo in casa dei reperti archeologici, soprattutto ceramiche, che mio padre aveva iniziato a collezionare da adolescente nella sua cittadina natale, Canosa di Puglia. Si concordò un baratto col Dottor De Vecchi. Una domenica tornammo da Miradolo portando con noi come un trofeo, un piccolo pacco, molto speciale. Mio padre guidò con grande prudenza e attenzione come non l’avevo mai visto fare; non potei astenermi dal pensare che per lui quel pacchetto era più importante di tutti noi. Non si parlò molto in quel viaggio di ritorno, eravamo tutti col fiato sospeso. Avvertii una gravitas particolare, come se qualcosa stesse per cambiare nel destino della mia famiglia. Il Signorini era veramente piccolo, giusto qualche centimetro, praticamente un francobollo, un olio su cartone circondato da una cornice dorata, larga e spessa; sembrava quasi una miniatura, o meglio una vignetta; rappresentava una famiglia come la nostra con due bambini in un momento di relax e di gioco su una lunga spiaggia in un giorno d’estate. Il pittore ci aveva messo tutto il suo estro per rendere l’impressione della luce intensa, le figure dei quattro personaggi erano scurissime per evidenziare il controluce. Inizialmente trovai molto frustrante non riuscire a distinguere i tratti fisiognomici; i componenti della famiglia erano ridotti a quattro piccole sagome nere sullo sfondo della spiaggia bianca nell’immensità di un sole d’estate; l’effetto era perturbante. A poco a poco però il quadro inizio veramente a piacermi. Lo guardavo a lungo, finché sotto l’effetto del mio sguardo le figurine cominciavano ad animarsi, uno dei bambini si staccava dal gruppo familiare, iniziava a correre verso il mare e si tuffava. Pensavo con nostalgia all’estate che trascorrevamo in Puglia, sulla costa Adriatica. “Gioie materne” era il titolo del quadro che per un po’ restò appeso su un muro del nostro salotto in tutta la gloria della sua infinitesimale grandezza.
Poi un giorno il Signorini spari; al suo posto comparve un quadro astratto informale, molto più grande. Lo osservai per bene: attraverso lo strato di pennellate spesse nelle tonalità del verde e del blue, si poteva ancora intravedere una forma in dissoluzione che mi sembrò quella di un vaso di fiori. I miei genitori parevano soddisfatti un po’ per la grandezza un po’ perché i quadri di Ennio Morlotti erano il favore del momento nei salotti milanesi. Mio padre però, dopo l’iniziale entusiasmo, cominciò a manifestare una certa inquietudine. Lo osservavo stringere gli occhi e mordersi le labbra mentre guardava l’opera, come se qualcosa non quadrasse del tutto. Personalmente anch’io non ero convinta. Mi mancavano le quattro figurine nere e la stranezza del Signorini.
Correva l’anno 1968. Mio padre trovò un altro mentore, pure questo un dottore, il dottor. Laurini. La famiglia Laurini viveva nel palazzo, dove c’eravamo da poco trasferiti, al piano di sopra. La loro casa era molto diversa da quella dei De Vecchi; era luminosa, c’erano sì mobili antichi e tappeti persiani, ma accostati con gusto ad oggetti moderni di design, colorati e dalle forme avveniristiche. I signori Laurini avevano due figli maschi molto più grandi di me: Paolo era agli ultimi anni di liceo, Marco che andava già all’università era un leader del movimento studentesco con Mario Capanna. Sentivo mia madre sussurrare al telefono con una certa trepidazione che al piano di sopra si tenevano riunioni di studenti rivoluzionari.
La mia scuola elementare era proprio di fronte a casa quindi ci andavo da sola. A volte tornando, nell’attraversare la strada, vedevo Marco Laurini e i suoi amici entrare nel cortile, allora col grembiule nero sbottonato e svolazzante e una cartella pesantissima, mi mettevo a correre per assicurami il viaggio in ascensore in loro compagnia. Se era un giorno fortunato con loro c’era anche qualche ragazza che mi sorrideva. Arrivavo affannata e mi schiacciavo sghignazzando di gioia nell’ascensore in un trionfo di eschimi, jeans, barbe, capelli scarmigliati. Parlavano con vemenza di cose che non capivo, ma della cui importanza ero certa, tanto da annuire automaticamente. Inalavo con avidità un aroma che non conoscevo, misteriosa, dolce, pungente e un po’ speziata che in seguito mi divenne molto familiare e accompagnò anche me nella giovinezza: una mistura di sigarette MS, hashish e patchouli. Quei viaggi in ascensore erano la cosa più eccitante che potesse accadere nella mia vita di settenne.
Non passò molto tempo e anche il Morlotti sparì dalla nostra parete. Questa volta però accadde qualcosa di straordinario, al suo posto comparve una tela di taglia media di un rosso acceso con due tagli proprio nel mezzo. La novità mi entusiasmò, in qualche modo ne percepivo la radicalità; mi sentivo soddisfatta che la mia famiglia, appendendo quell’opera nel salotto, avesse osato tanto; sicuramente niente del genere era appeso nelle case dei miei compagni di scuola che deridevano l’accento dei miei genitori. Mio padre mi mostrò il retro del quadro: la tela rossa era montata su un altro pannello, intorno al rovescio dei tagli c’era del tessuto nero e una struttura rudimentale preveniva i tagli dal collassare, mantenendoli in tensione; questo faceva si che quando guardavi il quadro, oltre i tagli si intravedeva una profondità spaziale, buia e misteriosa che sembrava appartenere ad un’altra dimensione e mi faceva pensare a possibilità di fuga, all’esistenza di mondi e galassie sconosciute. Il titolo del quadro era “Concetto Spaziale (Attese)”. Che strano, l’autore aveva il nostro stesso cognome.
I miei genitori nonostante le “r” terrose, la confusione di “t” per “d” ed altre bizzarrie fonetiche entrarono finalmente a far parte dei salotti più cool della Milano degli anni Sessanta. Sentivo che con l’acquisizione del Fontana io e la mia famiglia eravamo davvero al passo dei tempi, anzi proiettati nel futuro, ne ero fiera, altro che le croste appese nelle case dei miei compagni di scuola. Quando quell’anno arrivò anche la nuova baby-sitter, non credetti ai miei occhi. Noemi aveva capelli lisci, lunghi color carbone; la frangetta le metteva in risalto gli occhi scuri, brillanti, bistrati di nero, quasi febbrili; indossava minigonne, maglioni a collo alto calze a rete e stivali sopra il ginocchio, praticamente una dea. Quando miei genitori uscivano la sera ero sempre molto tesa perché temevo che non sarebbero tornati. Ma Noemi mi intrigava tanto da farmi dimenticare le mie ansie. Una sera mi raccontò che qualche giorno prima aveva preso una pillola speciale in grado di farti raggiungere “stati alterati di coscienza”. Disse proprio così, io non sapevo cosa volesse dire. Noemi tentò di spiegarmi meglio “Vuol dire che puoi vedere il mondo in maniera diversa da come lo vedi tutti i giorni, vedrai luci e colori, una moltitudine di palloncini illuminati saliranno al cielo – fece una pausa, sembrava inspirata- miriadi di stelle scintillanti illumineranno la notte a giorno, milioni di farfalle al battito delle loro ali iridescenti scateneranno uragani di acqua e luce, modelli senza fine, frattali, continueranno a moltiplicarsi nello spazio – sbatte più volte le ciglia pesanti di mascara, notai che sulle palpebre aveva un ombretto verde cangiante-sarà il caos, pieno di bellezza, forza vitale, il caos della creazione” Rilassò la schiena lasciandosi andare contro la spalliera del divano; era bellissima. Le sorrisi. Non avevo capito molto di quello che aveva detto, ma certamente le immagini e il suo entusiasmo mi erano arrivati. Nei giorni seguenti presi a socchiudere gli occhi cercando di evocare le forme del racconto di Noemi. Giravo su me stessa come una dervisha, poi cadevo a terra stremata mentre il soffitto continuava a girarmi intorno, creando un vortice che ero sicura avrebbe generato mondi nuovi. Pensai che forse quei mondi esistessero anche al di là dei tagli della tela rossa di Fontana appesa alla nostra parete. Qualche giorno dopo decisi di condividere i racconti di Noemi e i miei esperimenti con i miei genitori; in realtà speravo anche che potessero procurarmi qualcuna delle pillole di cui mi aveva parlato Noemi, dopotutto mio padre lavorava nell’industria farmaceutica. Quando finii di parlare notai che mi guardavano allibiti, cadde tra noi un silenzio pesantissimo. Capii di aver commesso un tragico errore. Non rividi mai più Noemi, ma il quadro con i tagli rimase.
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