Tra fantasy, fantastico e weird: indagine sul “Novo Sconcertante Italico”


Sei interventi sul concetto di “Novo Sconcertante Italico”. Un nuovo genere letterario o una moda passeggera?


In copertina, un’opera di Alberto Savinio.

di Federico Di Vita

Da qualche mese mi capita di imbattermi in una definizione che vedo apparire come la dantesca pantera che in tutte le città diffonde il suo odore, ma che in nessuna trova la sua tana. In questo caso le città sono le riviste letterarie e alcuni profili social di autori e critici, mentre la fiera è il Novo Sconcertante Italico, una definizione che si manifesta sempre più di frequente ma che continua ad apparire inafferrabile. A dirla tutta, mi pareva che la locuzione fosse un po’ vuota, poco più che il segno di una presunta recrudescenza dei toni dello strano e del fantastico nella letteratura italiana contemporanea – dico presunta perché per parlare di una particolare concentrazione di testi occorrerebbe un approfondito studio filologico che dimostri l’intensificarsi di uscite dotate di certe caratteristiche, stante che libri in cui compaiono i toni del perturbante non solo sono da sempre rintracciabili nella letteratura italiana, ma addirittura ne costituiscono uno dei temi dominanti. È perfino superfluo dilungarsi a riguardo, tuttavia basti ricordare che il testo cardine della nostra storia letteraria è un poema in cui un poeta incontra un altro poeta morto 1300 anni prima, che, per evitare una belva in un bosco, suggerisce al primo un giro che lo porterà a visitare tutto l’oltremondo, parlare con i morti, passeggiare nei dintorni del Diavolo e quindi ascendere in cielo – stavolta scortato dalla donna, morta a sua volta, per cui il primo si era preso una cotta da adolescente – e infine contemplare il cospetto numinoso di Dio. E poi ci sono i poemi cavallereschi, Boiardo, Ariosto, addirittura perle novellistiche di autori dediti a tutt’altro, come La mandragola di Machiavelli, gli scritti densi di elementi “strani” della Scapigliatura e via su fino al pieno Ottocento (citiamo solo le Operette morali e magari anche il Foscolo dei Sepolcri) e ancora il ‘900, per il quale si può partire dai tanti esempi citati nel Canone strano, una panoramica curata su Not da Carlo Mazza Galanti che propone in rassegna, con l’aiuto di un certo numero di scrittori e critici, i principali autori italiani che nel secolo scorso hanno continuato a tessere l’infinita trama del fantastico nazionale.

La mia diffidenza del resto è anche una reazione istintiva, a volte il proliferare di nuove definizioni critiche è più utile a certificare la vanità di chi le va coniando che a descrivere il fenomeno letterario che si vorrebbe indagare, per cui magari andrebbero benissimo le categorie già setacciate da secoli di critica letteraria. Il mio timore raggiunge il culmine quando penso alle ricadute che simili intuizioni possono avere nell’ambito della comunicazione culturale, in cui molto spesso finiranno per essere utilizzate come etichette frettolose buone solo a confondere le acque. Faccio un esempio per altro legato al macro-tema del weird: la distopia. Da anni vengono bollati come distopici libri che tecnicamente non lo sono, così facendo si è arrivati al punto che nel demi-monde editoriale si percepiscono reazioni ormai allergiche al solo comparire di tale aggettivo.

In una discussione social il traduttore Giuseppe Girimonti Greco osservava che va dato il tempo alla critica letteraria di raffinare le definizioni adatte a descrivere la forma che stanno assumendo in questi anni lo strano e il fantastico nella letteratura italiana. Il problema è che nel frattempo un’eventuale (e anzi ormai direi quasi certa) inflazione giornalistica di definizioni sfuocate rischia di far svanire ogni interesse per l’argomento in questione. Pensando in generale poi ai titoli che ho visto nel tempo associati ai discorsi attorno al Novo Sconcertante Italico (e mi limito a citarne alcuni presi dagli interventi raccolti in questo articolo), romanzi come Cometa di Gregorio Magini, Suttaterra di Orazio Labbate, Nella vasca dei terribili piranha di Alessandro Raveggi, Miden di Veronica Raimo, 108 metri di Alberto Prunetti, La stanza profonda di Vanni Santoni o Il grande animale di Gabriele di Fronzo – li trovo così diversi che a sembrarmi sconcertante è la pretesa di raccoglierli sotto un unico cappello.

In ogni modo il dibattito attorno a questi argomenti è fruttuoso e vivo a livello internazionale, come dimostra la recente uscita per minimum fax del saggio The weird and the eerie di Mark Fisher (per un approccio al quale suggerisco la lettura dell’intervista di Marco Montanaro a Gianluca Didino, cui è stata affidata la postfazione del volume), ragion per cui trovo comunque opportuno provare a tracciare quelle che possono essere le coordinate generali anche per quanto riguarda il dibattito nazionale. La speranza è quella di offrire un contributo che possa aiutare a mettere a fuoco le definizioni critiche e le riflessioni culturali legate ai temi dello strano nella letteratura italiana contemporanea. Per farlo ho raccolto e sbobinato i contributi dell’incontro Novo sconcertante italico. Ibridazioni tra fantastico e mainstream e i nuovi stilemi della letteratura contemporanea: dallo sdoganamento del fantasy al new weird – un panel svoltosi a Firenze il 22 settembre 2018 nell’ambito della manifestazione Firenze Rivista. L’incontro è stato organizzato e moderato da Francesco D’Isa, e ha visto gli interventi di Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Violetta Bellocchio, Gregorio Magini e Veronica Raimo.

Sistemando la fantomatica trappola per l’imprendibile pantera mi è sembrato necessario interpellare anche Carlo Mazza Galanti, che come detto si è occupato tra i primi dei temi per cui con questa serie di interventi spero di fornire alcune coordinate di massima. Cominciamo proprio da lui quest’indagine sulla natura e sui confini del Novo Sconcertante Italico.

Carlo Mazza Galanti: «Ricordo che alcuni mesi fa, dopo aver pubblicato il “canone strano” su NOT, in qualche commento sui social è iniziato ad apparire in chiave più o meno ironica il fantasma del New Italian Epic. La critica era quella di star creando una cosa a tavolino, di inventarsi una nuova moda. Critica più che legittima. Il NIE, col senno di poi (ma anche con quello di allora, per quanto mi riguarda) era inconsistente, il prodotto effimero di alcuni scrittori consociati più o meno consapevolmente in un progetto autopromozionale. E infatti oggi non ne è rimasto nulla. L’idea del canone però andava in una direzione credo contraria, quella di dire: è sempre esistito. E suggerire: sempre esisterà. Se poi oggi una certa declinazione del fantastico dovesse diventare davvero di moda mi direi poco male, anzi bene: ci sono mode e mode e io non sono così snob dal rifiutare qualcosa che mi piace nel momento in cui diventa di pubblico dominio. Ciò detto, se dovessi precisare in estrema sintesi e senza esempi di sorta cosa identifico come “weird”, o “sconcertante”, sulla base di quello che ho letto e visto, dei libri dedicati alla questione, del dibattito anglosassone di qualche anno fa, poi di quello italiano più recente, ma soprattutto in base a quello che vorrei, direi questo: per creare l’effetto in questione non penso sia sufficiente il soprannaturale. Non l’horror, non la fantascienza, non il grottesco, non ci vuole nessuno di questi ingredienti sebbene tutti siano un ottimo e forse necessario viatico per raggiungere l’obiettivo. Il quale però, a mio avviso, consiste in altro, ovvero nello strappo di un’immaginazione capace di prendere la tangente, deviare, inseguire la direzione esorbitante senza tanti scrupoli. Gli strumenti espressivi per ottenere tale risultato sono potenzialmente infiniti. E per questo, simmetricamente, molta roba che si considera o vuole considerarsi weird per me non lo è fino in fondo, nonostante le marche di genere che la collocano in questo orizzonte (mondi o personaggi bizzarri, distopie, eccetera), perché appunto non esorbita, perché resta pesantemente radicata nella medietà».

Strani viaggiatori, di Giorgio de Chirico

L’intervento che segue, del critico letterario Edoardo Rialti, è quello che ha aperto il convegno sul Novo Sconcertante Italico organizzato da L’Indiscreto.

Edoardo Rialti: «Bisogna stare sempre attenti a impiegare delle parole-valigia, nelle quali ficcare realtà molto diverse, soprattutto quando si tratta di generi e sottogeneri. Giustamente già facciamo fatica a distinguere il semplice fantasy dal piú generico ed ampio fantastico, e ciò comunque in virtú di topoi specifici; quando poi leggiamo che in una famosa antologia del Weird curata da Anne e Jeff VanderMeer, già autore di Annientamento (di cui forse avete visto il film Netflix con Natalie Portman), i due curatori definiscono il Weird come “gli aspetti più perturbanti del fantastico”, capite che anche questa è una definizione rischiosamente vaga – cos’è il perturbante? – e costituisce un problema ulteriore. Oltre a questa previa e necessaria messa a fuoco terminologica, compito del critico letterario è relativizzare e dall’altra far cogliere la specificità e le differenze di quello che è nuovo rispetto a ciò che lo precede e influenza. Come notò il grande Mario Praz, “certo tutte le cose esistono in ogni epoca della storia ed è solo la loro proporzione che fa sì che si parli di mode”. In tal senso verrebbe semplicemente da affermare che lo strano è un elemento dell’espressione letteraria antico come la Storia Vera di Luciano, dove ci sono già le fanciulle albero 1800 anni prima dell’Annientamento di VanderMeer, e il nostro buon vecchio padre Dante quando entra nella foresta dei suicidi (ossia degli alberi che imprigionano le anime dannate) riferendosi alle arpie racconta che “fanno lamenti in sugli alberi strani”, ovviamente giocando sul fatto che in tale posizione a fine verso si può attribuire “strani” sia ai versi degli uccelli che agli alberi. Albero strano perché è un albero sinistro, che a sua volta si lamenta.

Quello che dirò riprende a sua volta delle riflessioni molto importanti che in Italia sono state fatte con grande ricchezza e precisione da Mazza Galanti, oppure sono seguite al dibattito nato da tanti romanzi che sono stati pubblicati da Tunué e curati da Vanni Santoni. E proprio Mazza Galanti su Not riportava una citazione davvero significativa per cercare di mettere a fuoco il nostro tema. All’inizio dell’800 Alessandro Manzoni scrive in una lettera assai critica del Romanticismo (inglese e tedesco soprattutto), e tratteggia una sorta di definizione che a posteriori tanti autori del Weird probabilmente farebbero propria con orgoglio; Manzoni definisce infatti talune tendenze in quelle correnti romantiche un “non so quale guazzabuglio di streghe, spettri, un disordine sistematico, una ricerca stravagante, una abiura in termini del senso comune”. Un’abiura in termini del senso comune. Se esistesse un Manifesto del Weird, probabilmente questo sarebbe un motto programmatico. Per Manzoni invece ciò costituiva un’accozzaglia negativa, un sabba inquietante dal punto di vista estetico e morale. Tuttavia è assai divertente notare che, per chi conosca I Promessi Sposi, quella stessa parola “guazzabuglio” non è nuova. Essa infatti compare nel celebre e centrale capitolo sulla giovinezza di Gertrude, in uno dei commenti del narratore in prima persona che definisce il cuore umano di ieri e di oggi un perenne “guazzabuglio”. Pare quasi che la scrittura di Manzoni corregga ironicamente il rigore delle sue valutazioni estetiche, e che forse proprio ciò che si scartava come una caotica commistione di stili e soggetti sia in realtà uno specchio particolarmente fedele dell’oscura natura umana.

È certamente vero che già nell’Ottocento ci sono dei grandi scrittori dello strano del perturbante (Poe, Novalis, Gogol, Hoffmann, Stevenson, Henry James…) però bisogna tenere presente un elemento importante, ossia che perlopiú esistevano libri diversi per generi diversi, proprio come un sonetto era deputato a temi diversi da quelli che si esprimevano in ottave. Magari lo stesso autore poteva realizzare dei romanzi realistici e dei romanzi fantastici, ma appunto lo si faceva come cambiandosi d’abito per pranzo o colazione, o per andare al teatro o giocare a tennis. Vestiti diversi per occasioni e atteggiamenti diversi. Basti pensare a Henry James: l’Henry James di Ritratto di signora non è lo stesso James che scrive Il giro di vite. La Londra di Dickens di David Copperfield non è la stessa di Canto di Natale, questi loro mondi immaginativi rimangono-essenzialmente, giacché ci sono eccezioni anche qui, basti pensare a Novalis o Balzac – separati. Si tratta d’una notazione importante a mio giudizio, perché occorre sempre ricordare che il romanzo è un genere estremamente giovane nella storia della letteratura, ha 200-300 anni, e prima di quel momento erano altre le modalità espressive con le quali si indagava il posto dell’uomo nel cosmo e su questo torneremo in conclusione (oltre al fatto che da noi in Italia la parola romanzo copre due termini che ad esempio in inglese afferivano a realtà molto diverse, il realistico novel e il fantastico romance). Sempre Mazza Galanti ricordava l’intervista a David Foster Wallace dove questi sentenziò che ormai oggi la realtà per noi non è più quella di Tolstoj: in fondo ciò era vero già all’epoca di Tolstoj stesso, perché in quegli stessi anni Dostoevskij faceva incontrare il diavolo nei Fratelli Karamazov, mentre nei Demoni riviviamo l’incubo spaventoso in cui il principe Stravrogin porta a vedere un enorme ragno mostruoso che ricambia lo sguardo in silenzio. Qual è però il punto fondamentale? Nell’800 ancora permane un velo sottilissimo tra la realtà e l’immaginazione, che può essere la follia nel caso di Ivan Karamazov o il sogno nei Demoni. All’inizio del Novecento questo velo nel mondo del romanzo definitivamente si squarcia. È significativo che la già citata antologia curata dai VanderMeer sul Weird si apra con L’altra porta un romanzo di Alfred Kubin che costituisce anche il primo volume pubblicato da Adelphi, e fu scritto a inizio ‘900. Il nuovo secolo ha davvero aperto un’altra porta, dalla quale ha fatto irruzione una cascata, basti pensare a sua maestà Kafka, Walter De La Mare, il Mervyn Peake di Tito di Gormenghast, a proposito del quale è molto interessante una definizione fornita da Clive Staples Lewis, l’autore di Narnia, perché secondo me può essere utile anche per la discussione sul Weird in generale. Lewis sosteneva infatti che quando apri un libro come Gormenghast ti sembra di non aver mai letto niente del genere prima, ma quando infine l’hai chiuso lo vedi dappertutto, sei incappato in una chiave d’accesso che ti fa notare aspetti della realtà che prima non avresti mai messo a fuoco così, o senza saperlo tradurre in parole. È un’osservazione critica secondo me molto importante, valida per Peake ma estendibile naturalmente a Gaiman, a certo VanderMeer, e certamente a un altro grande padre, Borges. Venendo invece al panorama italiano, per come lo si può brevemente abbozzare: anche il palco letterario dell’Italia del secolo scorso offre una rivalutazione dello strano, perché se l’Ottocento nostrano aveva preso le mosse dalla condanna di Manzoni (ma anche dai folletti e gnomi di Leopardi), il Novecento si apre invece con Pirandello e il Pirandello critico de L’umorismo cita Hoffmann e naturalmente Ariosto e Cervantes, e il suo stesso mondo narrativo è un mondo strano, bislacco, sempre sulla soglia del grottesco alla Dix, che infine approda esplicitamente al fantastico con I giganti della montagna. Nella vulgata si citano sempre anche Landolfi (che tradusse Novalis), Buzzati, come se fosse una sorta di Kafka minore, – mentre invece Raoul Bruni ha ricordato doverosamente anche Giovanni Papini, che Borges incluse nella sua prestigiosa Antologia della letteratura fantastica. Questo vuol dire che l’Italia non è stata soltanto un luogo che ha recepito il fantastico dall’esterno ma è stata capace anche già ad inizio Novecento di proporre un suo sguardo che è stato riconosciuto nel panorama internazionale. Tuttavia l’elemento davvero importante è che a partire dalla crisi del dopoguerra questo tema diventa trasversale, è come se nella società italiana a partire dagli anni ’50, ’60, ‘70 le trasformazioni sociali, le inquietudini, le nuove sfide della politica, del femminismo, dell’identità sessuale, potessero trovare una loro espressione vera e completa solo tenendo presente anche un punto di fuga fantastico. Non è un caso che siano gli anni in cui iniziano a esserci Calvino, Umberto Eco, Manganelli, Piovene, fino alle varie generazioni di autori più recenti e successivi, come Evangelisti, Michele Mari, eccetera.

Desidero concludere con alcune questioni. Ho accennato prima che il romanzo è un genere relativamente giovane, come spazio letterario, come mezzo letterario, e veniva considerato-soprattutto nell’Ottocento-una modalità meno importante e alta di altre, una finestra perfino limitata da un punto di vista espressivo, perché fino a quel momento le prospettive fondamentali per l’indagine e la resa espressiva della realtà venivano dalla poesia e dal teatro, ed è interessante che le obiezioni che ancora oggi vengono rivolte ai romanzi che presentano quello che Vanni Santoni chiama “lo sconfinamento”, non sorgono mai quando leggiamo la poesia moderna e contemporanea. Quando troviamo che i Quattro Quartetti di Eliot iniziano con un uccellino che parla e sentenzia significativamente che il genere umano non può sopportare troppa realtà, quando incontriamo gli angeli in Rilke, quando la Morte invita la Dickinson a fare una passeggiata in carrozza, nessuno li accusa di irrealtà, escapismo e forse nemmeno si appella al “perturbante”. La poesia infatti è sempre stata il luogo proprio dello sconfinamento. È interessante che la stessa Emily Dickinson parlasse della prosa nell’800 appunto come di una gabbia, un limite. Una sua poesia inizia affermando “Mi azzittirono nella prosa”, la prosa come carcere, un luogo dove non è possibile dire davvero tutto. Secondo me è significativo che in tanti dibattiti sulla cosiddetta ‘prosa poetica’ o sulla preminenza della poesia o della prosa, forse più che la questione della preziosità stilistica dovremmo semmai interrogarci sul fatto che adesso anche la prosa sta palesandosi un luogo dove è possibile sempre più, e il ‘900 lo dimostra, concentrarsi su questa zona misteriosa che era stata appannaggio di tante altre sfere fondamentali dell’espressione umana e dell’espressione letteraria.

Il tema del nuovo peso che il fantastico esercita nella letteratura contemporanea, ha sicuramente due declinazioni: la prima è di natura politica; è significativo che se avete letto il recente 108 metri di Prunetti, il suo romanzo sugli anni da lavoratore precario in Inghilterra che completa il precedente Amianto, la storia della morte di suo padre come operaio, e che al pari dell’altro è un romanzo di formazione assolutamente realistico, l’oscuro padrone, l’ultimo misterioso e tenebroso imprenditore che controlla tutti gli altri contro i quali Prunetti si affanna e combatte, è nientemeno che lo Chtulhu di Lovecraft, all’interno di un romanzo che a parte questo punto di fuga e la comparsa del fantasma di Margaret Thatcher resta appunto un romanzo che continueremmo a definire realistico. Eppure solo quell’immagine della letteratura horror sembra permettergli di poter esprimere certe cose, anche da un punto di vista della contestazione sociale, e ribadisco che questa dimensione contestatrice del fantastico mi pare davvero importante. L’ultima dimensione cui volevo accennare è che secondo me questo tema della rilevanza dello sconfinamento, il fatto che i romanzi contemporanei non si basino più su un’unica finestra a partire dalla quale affacciarsi sul mondo esterno o interiore (fantastica o realistica che sia…) ma che ci sia bisogno contemporaneamente di più linguaggi per dire un’unica esperienza (e non esperienze diverse) è sicuramente legata alla nuova riflessione sul sacro che la società contemporanea sta ponendosi e attraversando piú o meno consapevolmente, visto la gran quantità di scorie e detriti mitologici che comunque ci portiamo dietro, come direbbe Eliade. Basti ricordare i saggi di Hillman su Pan e il ritorno degli Dei, ma anche L’elogio del politeismo di Bettini, che mi ha suscitato questa riflessione: in fondo, potremmo dire che anche il monoteismo letterario è giovane come il monoteismo teologico. È come se tale recente visione univoca della realtà e della sua resa narrativa sia stata nuovamente messa in discussione e si senta la necessità di superare quello sguardo per cui la realtà era solo un grande complesso razionale, una concezione propria sia di certo aristotelismo cristiano sia poi di un molto meccanicismo illuminista e poi positivista. Gli dèi si sono presi la loro rivincita. C’è bisogno di recuperare una percezione della realtà diversa. Non una sola finestra ma tante finestre, non questo o quel genere ma magari evocare tutti gli sguardi possibili e osservare lo stesso fenomeno con gli occhi e le immagini di Zola e Lovecraft. Credo non sia affatto un caso che in un romanzo fra i più famosi del Weird, ossia American Gods di Neil Gaiman, la vicenda si apra con il protagonista Shadow (Jung docet), che ha un sogno in aereo nel quale gli compare un bufalo divino, un bufalo-uomo che parla, e gli dice “Credi, disse la voce tonante, se vuoi sopravvivere devi credere”. Questa per me è chiaramente una scena metaletteraria, un’immagine con cui Gaiman sta descrivendo un intero orizzonte di senso, una chiave di lettura della sua opera e forse del mondo. “‘Credere? Credere a cosa?’ L’uomo bufalo fissò Shadow e si issò enorme con occhi di bragia, aprì la bocca che all’interno era rossa per via del fuoco che bruciava dentro, sottoterra. ‘A tutto.’ Ruggì.” Ecco. Siamo passati dal credere in Dio, al credere in niente, al credere a tutto».

Seguono le parole dello scrittore Vanni Santoni, molto vicino ai temi trattati essendo a riguardo stati citati sia alcuni sui romanzi (come i fantasy della trilogia di Terra Ignota e La Stanza Profonda), che alcuni dei libri pubblicati nella collana di narrativa Tunué di cui è curatore.

Vanni Santoni: «Credo sia utile anzitutto spiegare l’etichetta che abbiamo scelto per il dibattito, e che abbiamo quindi giocato ad affibbiare a questo genere, se mai si può chiamare genere: Novo Sconcertante Italico. Al di là dell’essere una traslazione in un italiano volutamente retró (e lievemente virata, con sconcertante, più sull’orrore rispetto a quanto sarebbe stato con strano) di new weird, essa presenta in modo autoevidente il suo essere una definizione scherzosa. Vale la pena rimarcarlo, dato che probabilmente non “esiste” nessun Novo Sconcertante Italico. Le tassonomie, in letteratura, sono sempre in qualche modo giochi, perché non si potranno mai includere o escludere in modo certo tutti i libri a esse necessari: sono modalità esplorative, modi per organizzare un gruppo di testi, metterli in relazione tra loro e così parlarne in modo più strutturato. Ricordo che quando dai Wu Ming giunse il memorandum sul New Italian Epic, dal mondo accademico partì (fatti salvi alcuni battitori liberi) una salva ad altezza zero, perché stabilire una categoria mettendo assieme assieme vari libri sulla sola base di elementi in comune veniva considerata un’operazione illegittima rispetto ai metodi della critica letteraria e degli studi comparatistici. Da quel punto di vista lo era, ma era anche un’operazione interessante, che infatti scatenò un fertile dibattito. L’utilità di questo tipo di operazioni sta proprio nello scegliere e mettere in relazione testi che si ritengono significativi, e da lì chiedersi dove sta andando la letteratura di un dato paese in un certo momento. Nulla di più, ma neanche nulla di meno: l’insieme rimane rilevante a fini conoscitivi, che esista o che non esista la categoria.

Per preparare questo incontro, visto che non si poteva certo parlare di una ripresa italiana del new weird, non ispirandosi a esso molti degli autori ascrivibili al NSI, ho effettuato un’indagine sull’emersione dell’idea di un “nuovo strano italiano” nel nostro dibattito letterario.

La prima volta che tale categoria viene nominata è in un pezzo di Alcide Pierantozzi su Studio, in cui l’autore lo utilizza per parlare di Dalle rovine di Luciano Funetta e del Grande animale di Gabriele di Fronzo, due esordi del 2016 che non hanno molto in comune con il weird come lo considera VanderMeer, che ha un côté per lo più fantascientifico, o al massimo horror nel senso classico del termine. È evidente, invece, che Funetta si rifà alla dimensione più oscura del lavoro di maestri della letteratura latina come Bolaño, Sabato, Laiseca, o il “latino-italiano” Wilcock, mentre Di Fronzo, che cita tra le sue influenze autori come Echenoz o Alrt, dà vita ad atmosfere che fanno venire in mente il cinema di Garrone, assieme a una struttura epigrammatica certo non frequente nel weird. Non molto tempo dopo, mi ritrovai a scrivere un pezzo per Prismo su Cărtărescu e Volodine, due autori molto diversi che hanno messo al centro della loro poetica la ricerca di nuove modalità di espressione della metafisica, oltre che di sfondamento dei generi (anzi, nei loro casi si può parlare di una fase già successiva allo sfondamento) e la redazione decise di intitolarlo “Nuova Strana Europa”. La cosa sul momento mi lasciò un po’ perplesso: Cărtărescu, che viene dal post-modernismo di marca psichedelica – quello di Pynchon, per intenderci – si definisce un neo-romantico, ascrivendo quindi la sua ripresa delle metafisiche alla tradizione romantica e “magica” della letteratura romena; dall’altro lato Volodine è uno scrittore di fantascienza “puro” che ha affinato il proprio stile negli anni, e da parte sua si definisce post-esotico (movimento letterario da lui ideato, di cui fa parte con vari eteronimi). Si capisce che nessuno dei due è “weird”. Tuttavia entrambi superano senz’altro il realismo, anzi lo considerano archiviato; inoltre attingono con naturalezza dai dispositivi propri del fantastico e della fantascienza, così non mi sono opposto a un simile titolo. Molto tempo dopo queste due “avvisaglie”, e dopo una prima mappatura operata da Giuseppe Carrara su Doppiozero, escono due pezzi lunghi su Not, rispettivamente di Andrea Morstabilini e Carlo Mazza Galanti, che parlano uno di “gotico mediterraneo” e l’altro di “canone weird italiano”. Come possibili rappresentanti del gotico mediterraneo vengono citati Andrea Gentile, Orazio Labbate e Omar Di Monopoli (e si potrebbe aggiungere come quarto nome proprio lo stesso Morstabilini, così come indicare nell’immaginario della rivista “Mostro” – fondata, tra gli altri, da D’Isa e Magini – un antesignano di tale sottogenere), mentre nel tentativo di definizione di un canone weird italiano, fra i recenti (i recentissimi erano volutamente esclusi) si prendono Evangelisti, Mari e Moresco, e da lì si va all’indietro, attraverso quelli che finora erano stati considerati, semplicemente, i maggiori autori fantastici italiani: Buzzati, Landolfi, Manganelli, fino a Giovanni Papini. Questi articoli hanno circolato molto, e da lì hanno cominciato a uscirne altri che davano per scontata l’esistenza di un “novo sconcertante italico”. Anche pezzi in cui si mette in discussione la categoria: Marco Malvestio in un pezzo sulla Balena bianca parla di “limiti del new italian weird”; Antonio Russo De Vivo su Crapula critica la definizione in sé – e quale segno migliore della possibile esistenza di una categoria è il fatto che qualcuno la metta in discussione? Anche libri di autori presenti a questo dibattito come Veronica Raimo, Violetta Bellocchio e Gregorio Magini si sono ritrovati ad apparire in pezzi che prendevano le mosse da essa, come questo di Giovanni Bitetto – il quale già due anni prima poneva “new italian weird” tra le tag di un articolo su Dalle rovine – per Flanerí. Un fatto che va a complicare ulteriormente le cose, perché il libro di Magini ha forse più qualcosa in comune con il caso, citato da Rialti, di 108 metri di Alberto Prunetti e del suo uso – come dispositivo di risoluzione simbolica – della figura di Cthulhu: per quanto Magini sia un autore che nei suoi racconti ha frequentato la speculative fiction, Cometa è un romanzo più o meno realistico fino al finale, che esplode tra la fantascienza e il fantastico, l’accelerazionismo e il transumanesimo, laddove invece i romanzi di Veronica Raimo e Violetta Bellocchio si possono ricondurre alla tradizione del distopico, sebbene si collochino entrambi fuori traccia rispetto a quello che normalmente ci si aspetterebbe da essa, poiché – oltre a ricollegarsi a una tradizione nostrana che guarda anche altrove (si pensi a Guido Morselli e al suo Dissipatio HG) – il loro scopo non è tanto effettuare una riflessione su dove andrà la società, ma modellare società già compromesse onde usarle per indagare questioni rilevanti del nostro presente, per di più con elementi che intercettano dimensioni di tipo onirico – sebbene mai esplicitamente, sia in Miden sia nella Festa nera si ha a volte la sensazione di trovarsi in una dimensione prettamente onirica o proiettiva.

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Viene allora da pensare che questo Novo Sconcertante Italico (che includa o meno le distopie, ultimamente così numerose da fare categoria a sé) vada a registrare una serie di segnali generali dell’evoluzione della narrativa italiana e occidentale: anzitutto il fatto che non solo la distopia – come ebbe a dire William Gibson, “Io scrivo distopie perché è l’unico modo per fare del realismo” – ma anche gli sfondamenti nel fantastico siano diventati una sorta di nuovo realismo, nonché una tracimazione molto forte degli immaginari pop nella cosiddetta “letteratura alta”. Qualcosa che avveniva già un tempo con le fiabe, ma che oggi abbraccia una gamma di medium, dal cinema al fumetto alle serie, fino agli anime, ai videogame e ai giochi di ruolo, che hanno sempre flirtato serenamente col fantastico. Giunge oggi una generazione di scrittori che semplicemente si è nutrita così tanto di quegli immaginarî da non poterli spingere di lato: li utilizza come influenza nei propri lavori allo stesso modo in cui si confronta col canone propriamente detto, riconoscendo loro pari dignità: si tratta di un qualcosa che io stesso mi sono trovato a esplorare in lavori come Terra ignota o L’impero del sogno, e che non considero scollegato dalla parte più realistica della mia bibliografia.

C’è infine una questione su cui sono stato anticipato in parte da Rialti, ed è il fatto che il realismo, dopo aver dominato il passato recente, inizia a ritrovarsi relativamente svuotato. Se si guarda alla storia del romanzo, forse la soluzione ci era già stata offerta a inizio secolo: nel momento in cui – al netto degli altri contenuti di quelle opere – Proust, per realizzare un romanzo in cui dice “veramente” come sono andate le cose, deve farlo in sette volumi, nel momento in cui Joyce, per dirti com’è andata “veramente” quella giornata, deve far esplodere un universo di momenti (in cui anche elementi di cultura popolare, come potevano essere ai tempi gli annunci sui giornali o i discorsi per strada, sono mischiati a riflessioni più elevate), si può arguire che il puro realismo mostrasse già la corda, se i due maggiori scrittori dell’epoca e forse del secolo (assieme a Kafka, che era già quanto di più “weird” e “sconfinante” si possa immaginare) sono dovuti ricorrere a scelte strutturali estreme per ottenere del “vero realismo”. Apparirà allora normale che, quasi cento anni dopo, si vada verso un altro tipo di approccio – o vi si ritorni: già Borges in una conversazione con Arbasino ricordava come il canone occidentale conti più opere fantastiche che realistiche. Ed è pure vero che nella letteratura italiana contemporanea si possono registrare segnali importanti e immediatamente precedenti all’emersione della categoria di cui parliamo oggi, come Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci (2016) o Nella vasca dei terribili piranha di Alessandro Raveggi (2012), e ancora prima Sirene di Laura Pugno (2007) e Uno indiviso di Alcide Pierantozzi (2007), nonché Branchie di Niccolò Amanniti (1994). Al netto della “normalità storica” di tali processi, non c’è dubbio circa il fatto che un diffuso ritorno al non-realistico – specie per ciò che concerne un ritorno, con nuovi dispositivi, alle metafisiche – esista; che non sia tanto un sottogenere quanto una tendenza generale della nostra narrativa; che sia, in ultimo, di grande interesse: come diceva lo stesso Borges, per esprimere l’indicibile occorrono emblemi e forse questi libri sono gli emblemi che l’oggi genera per provare a soddisfare tale aspirazione, resa necessaria dall’incremento esponenziale della complessità che ci circonda».

Segue l’intervento di Violetta Bellocchio, autrice di La festa nera e giornalista culturale, che allarga il discorso all’immaginario cinematografico, non solo italiano.

Violetta Bellocchio: «Nella discutibile misura in cui Christopher Nolan ha riscritto il canone di Batman per meglio farlo cascare addosso alla propria visione generale dell’umano e della produzione di immagini in movimento, entrambe ben precedenti al lavoro su un singolo personaggio per quanto noto, dobbiamo tenere conto di una scena celebre del Cavaliere oscuro, collocata a circa metà film, la scena in cui il maggiordomo Alfred Pennyworth tenta di trasmettere una lezione morale a Bruce Wayne, l’orfano di cui si sta occupando con alterna fortuna da molti anni. E quindi, in concreto, Alfred si butta nel monologo, breve, quello che termina con la battuta, “certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo”. È una frase molto incisiva, perché ci dà il polso di quanto sta succedendo – inutile cercare un senso o uno scopo ultimo nelle azioni del Joker – e perché riassume l’estetica alla base dell’intera trilogia a cui il film appartiene. Peccato che quel monologo cominci con Alfred che dice, “molto tempo fa ero in Birmania con degli amici e lavoravamo per il governo locale”.

L’unica cosa reale da fare, qui, è spacchettare le frasi di Alfred. Riavvolgere tutto. Smontare l’understatement e tentare la concretezza. Quindi, Alfred, quello che mi stai dicendo è che a un certo punto della tua giovinezza tu stavi nei servizi segreti, ok?, e sei stato mandato in missione ad ammazzare un signore della guerra, e poi per vari motivi è pure accaduto dell’altro e vi siete fermati a osservare il panorama, è corretto? Vogliamo parlarne, un giorno?

Una volta stabilito che Alfred è bravissimo a raccontare verità parziali, possiamo fermarci a chiedergli da dove nasca questo rifiuto patologico di dare un nome appropriato a luoghi, eventi e persone, possiamo congratularci con lui per la sua eleganza, oppure possiamo assaporare il fatto che la cosa più violentemente weird di un’opera lunga due ore e mezza dove ci si dibatte tra vita, morte, nichilismo e sacrificio sta nascosta in quattro-cinque battute leggere leggere, depositate per giunta all’interno di una scena dove, strettamente parlando, non sta accadendo nulla.

Negli ultimi anni sono stati tentati numerosi discorsi critici a vario livello di intensità, tutti volti a inquadrare quella che pareva un’improvvisa necessità espressiva da parte di creatori molto distanti tra di loro per classe sociale, formazione pubblica e milieu di appartenenza, tutti di colpo pronti a cimentarsi con il fantastico, il genere, il racconto basato sull’anticipazione, elementi che vengono considerati estranei alla tradizione italiana. Come passa il tempo, quanto è corta la memoria: senza scomodare Pinocchio o il fumetto popolare tradotto ovunque, Mario Bava era roba nostra, Ruggero Deodato è nato e cresciuto a Potenza, Elio Petri ha diretto La decima vittima e Luciano Funetta viene da Gioia del Colle. Va tutto bene, determinati scenari ce li abbiamo nel sangue: vanno solo risvegliati.

A troncare, se mai, il filo che ci teneva legati allo strano è stato l’appiattimento imposto a chiunque tentasse di produrre lavoro fuori da un canone borghese mai dichiarato e per questo molto più insidioso. Nell’ultima trentina d’anni, vuoi per il crescente potere finanziario di un mercato televisivo che doveva restituire agli spettatori contenuti adatti alla prima serata senza bisogno di alleggerimenti, vuoi per una molesta sollecitazione collettiva verso la normalità, la vita com’è, un numero incalcolabile di progetti weird non hanno mai preso corpo, non sono andati nel mondo. Ci abbiamo perso tutti. Abbiamo bruciato parecchi artisti, ma anche soltanto abili intrattenitori o artigiani di medio livello. In cambio abbiamo avuto quello che uno dei letterati attivi nel premio Campiello lo scorso maggio ha definito “italiano editoriale, stile mediocre, insapore, incolore”. In generale, quasi chiunque desiderasse avere un posto all’interno del circuito mainstream si è adattato a sfornare commedie sui trentenni, testi di ovvio impegno civile, corna dei vicini di casa. Noi invecchiamo e loro hanno sempre la stessa età.

Non esiste nessun “noi”, è vero. Non posso parlare a nome di nessuno. Sono un’autrice attiva nella nonfiction, a prima vista, con il fantastico, c’entro molto poco. D’altro canto, da parte di madre, la mia bisnonna ha messo l’unica figlia in un collegio per orfane perché non desiderava occuparsene lei, poi la nonna, infermiera, ha passato tutta la vita facendo dettagliati sogni premonitori di sciagure che subito condivideva con il resto della famiglia a colazione, poi c’è stata mia madre, dotata di un’intuizione immediata che potrebbe averle dato qualche vantaggio nella professione di psicanalista ma che non le ha impedito di partorire una bambina con due giri di cordone ombelicale intorno al collo, cosa che ha rischiato di ammazzare entrambe durante le ore del parto. Nella mia famiglia paterna non risultano fenomeni inspiegabili, quello no, a parte l’assoluta devozione della nonna a un celebre culto cattolico basato sulla guarigione delle malattie tramite l’imposizione delle stimmate (al santone consacrò i due figli gemelli, i pupon), ma lo stesso si è totalizzato un tasso di malattia mentale grave e invalidante pari al 50% secco dei nati – nella generazione di mio padre è passato un po’ di tutto, compresa la schizofrenia e la psicosi allucinatoria, mentre nelle precedenti si preferiva parlare di “originalità”. Succede.

Lasciando l’antico terreno di sepoltura per arrivare al presente, alla luce del lavoro che sto producendo, posso dire che l’episodio più significativo della mia biografia è stato il finire per puro caso a vedere Candyman un pomeriggio infrasettimanale del 1993. Per il resto, al mio attivo ho due stupri, quattro libri di cui belli due, simmetrico, una militanza giovanile nella critica cinematografica, un tatuaggio polinesiano fatto di simboli scelti e assemblati da un non nativo del luogo in questione, due corroboranti semestri di studio indipendente allo C.G. Jung Institut di Zurigo e una relazione romantica durante la quale, per tre settimane, avvertivamo ciascuno la presenza fisica dell’altro in qualsiasi momento, notte e giorno. Potrebbe essere stata una rapida folie à deux senza spargimento di sangue oppure un caso di possessione reciproca, scenario assai esplorato nel circuito della narrativa sentimentale contemporanea rivolta al pubblico queer, sia quella alta sia quella bassa – cos’è nato prima tra il bisogno di affezionarsi a un essere umano e la codificazione dell’anima gemella come tessera mancante capace di riscrivere il mondo nell’esatto istante in cui i pezzi vanno in posizione, lo scatto, il click? Di sicuro è molto divertente essere occupati da qualcuno, si imparano un sacco di cose, però dopo una settimana che ti brucia la pelle della spalla sinistra arriva il momento in cui ti tocca comportarti da persona razionale, mettere nero su bianco la frase il potere di Cristo ti espelle, andare avanti. Respirare.

Il nuovo fantastico italiano, o il new Italian weird o comunque altro desideriate chiamarlo, è una tra le due risposte possibili di fronte a un reale inaffidabile ancora prima che deludente. Non è più tempo di collocare l’appassionato nelle fila dei nerd o degli incapaci che non sanno affrontare la quotidiana brutalità delle cose. Al limite, l’appassionato sarà molto abile a frugare tra le macerie del reale per tentare una forma di sopravvivenza, un engagement alternativo se non un progetto solido per la ricostruzione. La fotografia più lucida del nostro tempo l’ha scattata in maniera accidentale Jason Blum quando ha investito pochi soldi nella Notte del giudizio, forse l’unico caso di storia con matrice distopica ad essere diventata sempre più vera strada facendo: viviamo in un presente in cui nessuno credeva avrebbe vissuto, quindi attrezziamoci. Pratichiamo il fantastico come un genere che anticipa gli eventi, ma cerchiamo di non scordare le responsabilità che ci derivano dal semplice fatto di essere adulti, adesso.

Se non avessi scritto La festa nera non sarei qui. Ho avuto la possibilità di tornare in vita grazie a un progetto concepito rispondendo a una commissione – era un invito a prendere parte alla collana Altrove di Chiarelettere, seguita da Michele Vaccari. Sarei inutile se non dicessi che il weird è stato un lungo ritorno a casa, il ritrovamento di una scintilla che credevo si fosse spenta in termini di amore per il lavoro e di dignità personale. È possibile che per alcuni autori il ritrovamento delle origini porti a una pratica di scrittura nonfiction in cui si pretende da se stessi maggior rigore, maggior attenzione ai fatti nella loro complessità, tanto quanto è possibile che il nostro territorio definitivo sia il crocevia tra “lo strano, il triste e l’oscuro”, da indagare ciascuno con obiettivi e filtri differenti. Di sicuro, vivi o morti, uomini, donne e vie di mezzo, we’re going to haunt the fuck out of you».

A questo punto è la volta di Gregorio Magini, autore di Cometa, un romanzo uscito quest’anno per Neo che ha riscontrato un buon successo di critica. Tra i diversi articoli che hanno parlato del libro talvolta è affiorata (per me abbastanza a sproposito) la definizione di weird (trovo infatti che in Cometa ci siano tuttalpiù elementi liminalmente fantastici, come nelle prime pagine e altri lievemente fantascientifici, nelle ultime). In ogni caso Magini, che è anche un programmatore, è intervenuto nel dibattito con un pezzo che ci porta nei territori in cui la filosofia si mescola con la fisica quantistica, un terreno – sembra suggerirci – potenzialmente fertile per questo tipo di letteratura, soprattutto per quanto riguarda le declinazioni più spiccatamente fantascientifiche. Propongo qui solo uno stralcio del suo intervento, che si può leggere integralmente qui.

Una foto dal convegno a Firenze rivista 2018

Gregorio Magini: «[…] In opposizione completa a quella di Copenhagen, c’è un’altra interpretazione [del funzionamento della fisica quantistica], la più fantasiosa e incredibile di tutte, detta teoria a Molti Mondi (Many Worlds), che nacque su proposta di Hugh Everett nel 1957, e fu ripresa da Bryce DeWitt negli anni ’60, trovando largo seguito solo negli ultimi tre decenni del XX secolo. […]

Secondo i Molti Mondi tutte le possibilità sono effettivamente realizzate. Ogni posizione del fotone esiste realmente da qualche parte. Da quale parte? Ma è ovvio: in un altro mondo. Ogni singola possibilità avviene in un universo alternativo nato nel momento della misurazione. Dunque la misurazione non definisce niente: è semplicemente il risultato del tale evento in un tale universo. Altri universi, in quell’istante, hanno dato altri risultati. O meglio: un intero mazzo di universi è nato, come i rami da un tronco, con quella misurazione. Se pensiamo alla quantità inconcepibile di interazioni che avvengono ogni secondo, per ogni particella, in tutto l’universo, si capisce che ci troviamo davanti a una gemmazione incontrollata, una grandezza di grandezze talmente vasta da far impallidire le pur rispettabilmente numerose braccia di Vishnu. […] La teoria dei Molti Mondi non è illogica né palesemente errata in altro senso. I suoi proponenti sono normali scienziati. Esistono argomenti contro, argomenti a favore, nessuno decisivo, e non c’è consenso. […] Nei Molti Mondi, presi nel loro insieme, tutto quello che poteva accadere, è accaduto. Tutto quello che potrebbe accadere, accadrà. Ciò stuzzica l’immaginazione. Possiamo immaginare mondi più o meno simili al nostro, come se fossero reali. Possiamo generare mondi e divertirci a vedere dove vanno. Dovremmo aiutare i fisici a fare queste cose, perché a quanto pare non hanno fantasia sufficiente: in Beyond Weird, bel volume divulgativo sulla fisica quantistica, l’autore Philip Ball si lamenta che la maggior parte dei fautori dei Molti Mondi si gingillano con ramificazioni banali di questo universo, che magari differiscono da questo solo nel fatto che c’è un gatto viola in mezzo alla stanza.

Invece potremmo immaginare cose ben più pazzesche, non perché in quanto non scienziati dobbiamo essere creduloni e cascare con tutte le braghe nei Molti Mondi, ma perché ci offrono lo spunto per una vera e propria grammatica scientifica della fantasia (la grammatica della fantascienza?), che offre possibilità, casistiche, combinazioni talmente estreme da lasciare nella polvere la sua rivale storica, la magia. Cose come il malocchio, volare sopra una scopa, aprire una porta gridando “mellon” come fa Gandalf, tramutare il piombo in oro, ecc., sono, per i Molti Mondi, imprese banalissime. Effettuate, questo è il bello, semplicemente seguendo alla lettera i dettami nascosti del possibile.

Propongo, solo a titolo di esempio, un paio di mostri dei Molti Mondi tratti dalla storia della letteratura fantastica. Rientrano entrambi nella categoria del “qualcosa che non è al suo posto” che disegna Mark Fisher in The weird and the eerie, ma non è detto che tutti i Mondi debbano per forza contenere mostri strani e inquietanti. […] Uno di questi è una delle creature più memorabili immaginate da H.P. Lovecraft: Azathoth, “orrore primigenio, troppo orribile per essere descritto” che risiede “al centro del Caos Definitivo” (I sogni della casa stregata). Di lui non sappiamo molto, e quel poco che sappiamo ci insegna che meno ne sappiamo meglio è. La descrizione più estesa appare in La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath: “Al di fuori dell’universo governato da leggi, risiede nel caos più abietto quel bubbone amorfo che bestemmia e gorgoglia al centro dell’infinito: l’illimitato demone sultano Azathoth, – il cui nome nessun uomo osa pronunciare, – il quale digrigna affamato in oscuri inconcepibili saloni situati al di là del tempo e dello spazio, in mezzo al battito soffocato e furioso di abietti tamburi e il fievole monotono lamento di terribili flauti.”

Nessuna notizia sulle sue origini. Ma possiamo speculare: la fisica quantistica emergente ebbe un suo ruolo nel fomentare le paure cosmiche di Lovecraft, perciò non è del tutto campato in aria immaginare che Azathoth possa aver avuto una genesi “improbabilistica”. Immaginare che il mondo di cui ci racconta Lovecraft sia uno dei peggiori possibili tra i Molti Mondi, uno in cui in qualche modo le ossimoriche leggi del caso hanno finito per generare il “Caos Definitivo, al cui centro si avvolge il dio cieco e idiota Azathoth, Signore del Tutto” (L’abitatore del buio). Come è potuto accadere? […] Ebbene, la storia della fisica ci regala un altro oggetto che appare all’improvviso destando sconcerto (soprattutto a se stesso): un cervello. Non appare in una stanza, ma nel buio dello spazio profondo: è il cosiddetto cervello di Boltzmann, che prende nome da Ludwig Boltzmann, lo scienziato che lo ideò. La sua origine è connessa con la fisica ottocentesca alle prese con i paradossi della termodinamica e dell’entropia. In particolare, ragionò Boltzmann, le condizioni di partenza che hanno prodotto, col tempo, esattamente questo universo sono così fantasticamente improbabili (cioè a bassa entropia) che è meno probabile che io in questo momento sia seduto in salotto a scrivere un saggetto, piuttosto che un cervello che galleggia nello spazio allucinando di scrivere un saggetto nel suo salotto, generatosi casualmente dal cozzare erratico di particelle che si creano nel ribollire del vuoto cosmico.

Cosa accadrebbe se molti di questi cervelli apparissero d’un tratto nelle vicinanze gli uni degli altri? Molti miliardi di miliardi di cervelli. Si troverebbero a orbitare, uno sciame di cervelli ognuno perso nelle sue allucinazioni. Se i cervelli continuassero ad apparire ed ammassarsi, si troverebbero stretti gli uni agli altri dalla gravità, fondendosi tra di loro e finendo per collassare in un buco nero. In quel luogo inimmaginabile è possibile, perché no?, che comincerebbero a udire flauti striduli e tamburi incessanti. E se è possibile, e credi (o ti diverti a credere per qualche minuto) ai Molti Mondi, allora ce n’è uno, di mondi, in cui questa cosa accade, c’è un mondo in cui Azathoth è un buco nero fatto di cervelli di Boltzmann. Devi poi sperare che non sia proprio il tuo».

L’intervento che chiude questa rassegna sul Novo Sconcertante Italico è quello della scrittrice Veronica Raimo, che invita a riflettere sulle possibilità speculative che simili definizioni, benché prive di valore accademico, portino in dote nel panorama del dibattito letterario.

Veronica Raimo: «L’ultimo romanzo che ho scritto, Miden, può afferire in qualche modo a questo Novo Sconcertante Italico. E un’altra circostanza per cui sono qui è che mentre stavo finendo il romanzo mi sono ritrovata a curare l’edizione italiana di un’antologia di speculative fiction, curata nell’edizione originale da Jeff VanderMeer, che si chiama in inglese Sister of the Revolution. Si tratta di una raccolta di racconti di scrittrici che vanno dagli anni ’60 fino agli anni ’00, per curare l’edizione italiana della quale non ho dovuto fare altro che scrivere l’introduzione e individuare una serie di traduttrici e traduttori. Questo libro che in italiano è stato chiamato Le visionarie è stato pubblicato dalla casa editrice NERO, legata alla rivista NOT, di cui prima sono stati citati due articoli fondamentali per definire il canone di cui parliamo. Quando mi è stata chiesta l’idea di curare questo libro insieme a Claudia Durastanti, l’ho fatto fondamentalmente per amicizia, perché sembrava una di quelle imprese belle ma complesse da vendere, che conteneva al suo interno autrici in qualche caso note grazie alla riduzione televisiva dei loro romanzi, come Margaret Atwood, ma per il resto estranee al pubblico italiano. Questo libro ha venduto più di tutti gli altri che io abbia mai pubblicato. È vero, non sono una scrittrice di best-seller, però qualche anno fa una scommessa del genere sarebbe stata incredibile. Una casa editrice nuova, che tra i primi libri che lancia sul mercato decide di investire su speculative fiction e femminismo, fa un libro che va così bene che a distanza di tempo continuiamo a essere invitati per panel e interventi, perché il tema del libro è diventato nel frattempo centrale. Insomma, tutto ciò mi sembra sintomatico. È ovvio che qualsiasi tipo di etichetta nata in questo modo non ha la scientificità né il tipo di analisi che può essere fatto all’interno dell’accademia, sono trovate funzionali e strumentali, come lo è stato il New Italian Epic, però se a un certo punto un’etichetta individua un’urgenza del contemporaneo, e crea un interesse da parte del pubblico, un interesse che forse era semplicemente in filigrana, per me è comunque una cosa positiva. Quindi parlare in modo negativo di quando si formano degli hype, delle tendenze o di mode che sembrano solamente, per me è sbagliato. Se sono degli hype validi, perché non dargli credito? Magari dureranno appena un paio d’anni, però in quei due anni saranno venute fuori cose interessanti, come l’antologia Le visionarie su cui non avrei mai scommesso, e che invece ha portato nuove lettrici e nuovi lettori a confrontarsi con fantascienza e femminismi, un risultato che per me è stato davvero una cosa utopica in sé.

E lo stesso mi sento di dire anche riguardo al Novo Sconcertante Italico, non è un semplice specchietto per le allodole, mi sembra interessante che ci sia un gruppo di intellettuali che si prende questo rischio, di far arrivare a un cerchio sempre più grande proposte che magari prima non ci sarebbero arrivate. Un’altra cosa che riguarda Le visionarie è che quando con Claudia Durastanti stavamo scrivendo la postfazione, ci siamo rese conto che all’interno di questo canone, assolutamente fluido e accogliente, in realtà sarebbero potute rientrare tantissime cose, tantissimi autori e autrici che avevano operato questo tipo di sconfinamento. Dunque era un po’ difficile escludere qualche autore a priori, e questo da un lato espande in maniera trasversale e diacronica l’idea di Novo Sconcertante Italico, dall’altra fa pensare che quegli elementi che nei romanzi – anche nei Promessi sposi – non sono mai stati ancora considerati, forse grazie a questa nuova chiave lo saranno. Per restare ai Promessi sposi per ora non sono stati letti come un romanzo che aveva note se non proprio fantastiche perlomeno conturbanti, adesso invece potrebbe esserci l’occasione di rileggerli in questa chiave».


Federico di Vita è nato a Roma e vive a Firenze. Ha curato la raccolta di racconti Clandestina (effequ, 2010), è autore del saggio-inchiesta Pazzi scatenati (effequ 2011, poi Tic, 2012) – Premio Speciale nell’ambito del Premio Fiesole 2013; e, insieme a Ilaria Giannini, del libro “I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio” (Piano B, 2016).

2 comments on “Tra fantasy, fantastico e weird: indagine sul “Novo Sconcertante Italico”

  1. […] – e anche nuove voci (che magari sono state evocate nei recenti dibattiti sulla letteratura “sconcertante o di sconfinamento”) risultano profondamente interessati alle dinamiche e alle riserve di senso […]

  2. […] vorrei iniziare questo articolo confessando che il dibattito sul cosiddetto «Novo Sconcertante Italico» mi serve soprattutto come pretesto per introdurre un libro, La festa nera di Violetta Bellocchio, […]

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