Tra ripugnanza e fascino: la melma come simbolo universale

Riflettere sull’iconografia della melma ci svela le connessioni storiche, letterarie e scientifiche di questo viscido fenomeno che ci affascina e respinge allo stesso tempo.


in copertina: Jacques Hérold, Le germe de la nuit (1937)

di Francesca Matteoni

Se dovessimo dare forma alle nostre paure, agli stati inquieti e ossessivi del vivere questa avrebbe il sembiante della melma, sostanza che striscia, ci raggiunge, causa un brivido di disgusto al solo pensarla. Melma viscida, sguisciante, appiccicosa. Sono nata in una terra che è stata una palude. Da bambina dunque ascoltavo ancora la storia dell’acquitrino, non molto lontano da casa, dove un uomo era stato risucchiato dentro con l’asinello. Sebbene quei terreni fossero stati da tempo bonificati sentivo sempre un brivido passando per il sentiero con la bicicletta, come se la terra potesse aprirsi e slittare, instabile e molle in una morbidezza mortale. Qualche anno dopo, in letteratura, avrei incontrato la palude dei dannati nel settimo canto della Commedia dantesca, dove sono puniti gli iracondi e fra loro Filippo Argenti, che Dante aveva realmente conosciuto e disprezzava.  

Quanti si considerano adesso nel mondo persone

di grande importanza, qui staranno come porci

nel brago, lasciando di sé il ricordo di atti spregevoli!”

La melma fuoriesce dalla stessa prepotenza delle anime infernali, come se, infine, ciò che hanno coltivato in vita divenisse manifesto: un furore da cui è impossibile liberarsi nella morte. 

Similmente Shakespeare mette in bocca all’uxoricida Otello, queste parole, riguardo l’amico Iago: “È un uomo onesto e ha orrore del fango/ che sta attaccato ad ogni azione immonda”. Peccato che Iago sia tutt’altro che onesto – e ciò di cui ha orrore non è che lo specchio del suo sentire. 

Ma cosa spaventa nella melma, slime, gioco “disgustoso”, a volte in tinte fosforescenti, amato dai bambini, che amano essere spaventati?

La risposta giunge da un altro poeta, il romantico Samuel Taylor Coleridge, che  evoca un’immagine disturbante e salvifica degli esseri molli. 

Ne La ballata del vecchio marinaio, il vecchio profetico, il cui occhio scintillante evoca una storia di perdizione e rinascita, racconta la sua esperienza nei mari equatoriali, immobili e senza brezza, a causa del sortilegio che lui ha gettato su tutta la nave, uccidendo un albatro innocente nella regione antartica. 

Il vento è caduto, il mare comincia a cagliarsi sotto il sole, la ciurma muore per l’arsura. Lui invece resta nel volere della Vita in Morte. 

Così dice la traduzione di Beppe Fenoglio:

Quei molti uomini, così belli uomini!

Ed essi tutti giacevano morti: 

e mille e mille cose da schifo 

Continuavano a vivere; e così io.

Quelle “cose da schifo” sono nella versione originale un più neutro “slimy things”, ma è significativo che slimy venga tradotto nel ripugnante “schifo”. Eppure, stremato dalla fatica e dal dolore, il marinaio infine si volta a quello stesso “mare stregato” e ai serpenti marini che si sono sostituiti alle onde, accorgendosi che sono cose vive. Nella sua apocalisse, questa è la forma che prende l’esistenza, la possibilità di nuova generazione e dunque della speranza.

Felici cose viventi! Lingua non c’è

Che possa dichiararne la bellezza!

Un’acqua d’amore mi fiottò dal cuore,

E, senza saper, le benedissi.

La benedizione del marinaio riconosce il valore del più ostile eppure anche più originario dei luoghi terrestri, l’oceano madre e matrigna che permette al vivente di sorgere.  Allora la melma acquista tutto un altro significato: quella sostanza mediana, strato dei fondali formato dal cadere della neve marina, ovvero i resti di molteplici organismi, che assorbe anidride carbonica, preservando in parte la temperatura del pianeta, è la prima manifestazione di quanto esiste e si muove, anelando alla coscienza. 

Scriveva Rachel Carson ne Il mare intorno a noi (Piano B): 

Vedo sempre l’uniforme, incessante discesa di materiali dall’alto, fiocco dopo fiocco, strato dopo strato: un movimento che si è protratto per centinaia di milioni di anni e che continuerà sino a quando vi saranno mari e continenti. Infatti i sedimenti costituiscono la materia della più stupenda “nevicata” che la Terra mai abbia conosciuto.

E ancora, nel suo La vita che brilla sulla riva del mare (Aboca), tracciando il confine fra la terraferma e l’acqua: “Là dove l’acqua – fosse anche lo strato più sottile – copriva la secca, la vita veniva allo scoperto uscendo dai nascondigli”. Limuli, gasteropodi, pesci-rospo, angiosperme e piante acquatiche, il cui destino si determina in quell’interfaccia che a un occhio disattento appare come un’informe massa appiccicosa. 

Sono queste parole di Carson che mi rimandano a un’altra immagine, proveniente dal film d’animazione, Allegro non troppo di Bruno Bozzetto. In questa piccola perla, risposta italiana a Fantasia di Disney, l’incedere del Bolero di Ravel è interpretato come l’origine della vita che comincia con la creatura amorfa e molliccia uscita da… da una bottiglia rovesciata di Coca Cola. Arcano passato e futuro si fondono nell’essere pronto a evolversi o involversi in altri dotati di arti e occhi. 

Quanto affascina nella sostanza molle è anche quanto respinge: la compresenza e l’alternanza della vita e della morte. Ne scrive la biologa Susanne Wedlich nel suo Vischioso. Storia naturale dello slime, pubblicato da poco nella collana terra di nottetempo, realizzando un saggio vasto, dove letteratura, medicina, scienza, ecologia raccontano insieme le avventure della sostanza in cui meraviglia e repulsione si mutano costantemente l’una nell’altra.

Manipolando la formula ermetica: come sopra sotto, potremmo dire dello slime: come dentro fuori, poiché per comprenderlo non possiamo soltanto concentrarci sul paesaggio esterno, ma dobbiamo ripensare il nostro corpo, i cui organi interni sono protetti da barriere di muco e sostanze viscide, che diventano sintomo di malattia quando in eccesso, che tengono il nostro respiro nella composizione dei polmoni e nutrono il feto nella placenta. 

 

“È la sostanza che segnala la transizione dalla salute alla malattia, e quando si soffre diventa difficile ignorarlo come si fa di solito. È il confine tra l’Io e il Tu durante il sesso, dove invece è più che gradito, perché ci consente un contatto senza frizioni. Rappresenta infine anche la frontiera ultima tra la vita e la dissoluzione definitiva della morte, quando il corpo si disgrega e perde ogni definizione”. Scrive la Wedlich. E prosegue oltre: “Lo slime può anche implicare una mancanza di distinzione fra l’Io che siamo e quello che vorremmo essere. Il conflitto generato dal fatto che i nostri impulsi apparentemente primitivi e animali sono purtroppo intrecciati alla nostra natura più elevata”. 

Qual è tuttavia questa natura più elevata? La facoltà dell’immaginazione che nutre memoria e inventiva; il principio ragionevole? È una domanda per me antica, che risale agli anni di dottorato, quando ero immersa in un altro tipo di slime umano, il sangue, culturalmente inteso, nell’Europa moderna.

Per rispondere occorre appunto fare un passo indietro nella medicina galenica che concepiva l’individuo come organismo poroso, la cui salute dipendeva dall’equilibrio fra i quattro umori –  sangue, bile nera (l’essenza della malinconia), bile gialla e flegma, tutti contenuti nel sangue stesso.

Secondo questa teoria alcune persone umane erano più bestiali delle altre, più soggette agli “umori viscidi” al loro accumulo e ristagno. Non è difficile comprendere, come ben spiega la Wedlich, che queste persone fossero le donne, naturalmente inferiori, costrette a purgarsi attraverso il flusso mestruale e destinate quindi ad altri malanni e delusioni mentali nell’età anziana, quando il sangue sarebbe imputridito nel ventre, salendo coi suoi fumi alla testa. Donne, ma anche etnie disprezzate: gli ebrei ad esempio, che alcuni dottori spagnoli del Seicento descrivevano come difettosi, tanto che perfino alcuni maschi potevano mestruare.

Una melma non dissimile era ritenuta, da Aristotele in poi, la causa della generazione spontanea di molti esseri inferiori – gli esseri che strisciano, che popolano l’acquitrino: salamandre, vermi, rospi. La putrefazione poteva dar vita, ma una vita rivoltante, lovecraftiana, che proliferava nelle acque ferme e nel sangue mestruale che, secondo una tradizione italiana, nutriva mostri e basilischi, mentre è Giovan Battista della Porta, nel suo Della magia naturale, a dirci come il midollo e la carne umana diventassero culla di serpi, decomponendosi nella morte.

Melma fisica e morale, veicolo di disagio e rancore.  

Tuttavia è la stessa medicina antica a donarcene una lettura affatto differente: nell’umidore radicale formato dagli umori si accendeva la fiamma dell’anima, espressa dagli spiriti – naturali, vegetali, animali – immaginati quali vapori, a metà fra il visibile e l’invisibile.

“Lo spirito è il più sottile dei vapori, che viene espresso dal sangue”, scriveva Robert Burton nella sua opera epocale in tre volumi, L’anatomia della malinconia, pubblicata nel primo Seicento e da poco tradotta in italiano. 

Un vapore che tiene anima e corpo in un mutuo scambio, proprio come fanno le sostanze vischiose. Questa visione filosofica, abbandonata dalla medicina attuale, potrebbe invece essere molto utile per ripensare l’esistenza quale interconnessione o rete, in cui gli esseri procedono per prossimità e reciproca influenza. 

In nome di questa connessione la Wedlich usa parole chiave per varie categorie che continuamente rimandano dal particolare all’universale, dal dentro al fuori, dal corpo dell’individuo al corpo-mondo.  Fenomeno, Fisica, Organismo, Vita, Evoluzione, Natura, Ambiente, fino a immaginare il microbiota, ovvero l’aggregazione di microrganismi attraverso secrezioni vischiose, nello spazio.

“Alcune specie microbiche terrestri mostrano ancora oggi la loro capacità esclusiva di colonizzare ambienti ostili. Possono tollerare temperature estreme, acidi bollenti o radiazioni nucleari, e di solito lo fanno racchiusi in un gel protettivo. Questo è ciò che rende questi artisti della sopravvivenza terrestri così interessanti per l’astrobiologia, che vivano nelle profondità marine, sotto i ghiacci o nelle sorgenti calde. Persino nelle profondità della crosta terrestre abitano comunità microbiche che potrebbero essere state rinchiuse per milioni di anni in minuscoli pori senza luce e senza contatto con la superficie terrestre”.

Parlare di slime è dunque entrare nel mistero delle origini della vita, fisica ed emotiva. Il primo passo immaginativo va verso i mostri tra cui troviamo non solo le creature tentacolari di Lovecraft, ma il terribile Blob “rosso”, melma aliena e omicida, metafora poco criptica della minaccia comunista nell’America degli anni Cinquanta. Ma subito dopo incontriamo in universi assai più affascinanti, che mostrano lo slime quale connettore tra la materia inerte e la vita terrestre. 

In principio fu lo slime, infatti, almeno secondo la teoria della melma primordiale al centro della ricerca scientifica del XIX secolo. Secondo il biologo evoluzionista tedesco Ernst Haeckel lo slime ricopriva tutto il fondale oceanico, inglobandolo in un unico macro-organismo. Il tempo lo avrebbe smentito, ma le sue idee non furono affatto isolate, tanto che lo stesso Darwin in una lettera privata a un altro biologo ipotizzò: ““E se (oh, che grande se!) potessimo immaginare che in un piccolo stagno caldo con tutti i tipi di sali di ammonio e fosforo, luce, calore, elettricità, eccetera, si formasse chimicamente un composto proteico…” Una pozza calda da cui luci e corpi fossero fuoriusciti, modificandosi nelle epoche. 

La Wedlich non scarta le varie teorie, esponendole, ma al contrario le tesse intelligentemente nell’osservazione scientifica e nel suo incanto. La melma al principio dei mondi mantiene una sua forza suggestiva e poetica, che procede dal microbo, il più piccolo degli animali, completamente avvolto nel muco o nel gel (biofilm).

“è indiscutibile che i biofilm siano la prima, la più diffusa e la più efficace forma di vita sulla Terra. E la matrice viscosa rappresenta, in un certo senso, la loro materia oscura”. Zona di frontiera, interfaccia, dove le cose si aggregano e vengono assorbite, dove alcuni muoiono per creare il fondamento di altri. 

Dalle prime creature medusoidi e lamellate che vagavano sul fondo marino, non proprio vegetali, non del tutto animali, duecento milioni di anni fa, alla variegata famiglia dei Gelata, i cui appartenenti (come le meduse) usano il muco o gel per spostarsi nell’acqua e cacciare, alle tecniche di caccia di animali e piante terrestri (si vedano le carnivore), che funzionano grazie a sostanze vischiose, lo slime, trova sempre il suo ruolo nella sopravvivenza. Un ruolo oscuro, dice la Wedlich, un ruolo che inquieta, nello stesso modo in cui, può inquietare, dico io, comunicare che le epidemie, fenomeni non esenti dall’azione del vischioso, sono un’occasione per comprendere il nostro essere natura tale e quale a tutto il resto. Lo slime non separa e nemmeno ricuce, tiene insieme, con una certa tenacia, il cadavere e il neonato.  

Nell’epoca del giusto entusiasmo per la realtà fungina e per la rete miceliare che, attraverso secrezioni e corpi molli, mette in relazione trasformativa il cosmo vegetale, mi sembra conseguenza più che logica concentrarsi sullo slime. Se il muco che riveste le ife fungine diventa l’oggetto dell’indagine, significa allora distoglieremo lo sguardo dalla bellezza, anch’essa viscosa, della creatura fungo per ammirare i suoi processi. Essi ci diranno che l’azione vitale è predatoria, si alza da un magma informe per definirsi e poi ricrollare nella melma della fine, ma in una prospettiva ben lontana dalle istanze consumistiche e capitalistiche che ci stanno portando al centro del baratro senza alcun ritorno empedocleo. Siamo prede e creature predatorie in continua collaborazione, decadiamo negli strati dell’oceano da cui siamo sorti, il nostro sistema neurale è una interpretazione della rete micorrizica, la malattia il sintomo di vite altre, sebbene non gradite, dentro l’universo dei corpi. 

Torno ai miei luoghi urbani, al mito del pantano da cui la mia città è nata e che ormai popola solo i nomi di alcune strade. Tanti decenni fa o nel futuro, ogni declinazione temporale è del resto una mera questione immaginativa, una palude ribolliva in questa landa, forse ultima manifestazione di una presenza aliena caduta sulla terra, forse creatura emersa dalla roccia e dall’oceano. Quando ha iniziato a ritirarsi per cause diversamente naturali, inclusi i cambiamenti climatici e la mano umana, le cose hanno rivelato una forma, una solidità, un’intenzione, una volontà. Eppure la palude non è scomparsa. È solo scesa nel profondo, nei nutrienti del terreno, nei sedimenti delle angosce e delle speranze dei vivi. Là ci tiene tutti pronta a sommergerci o farci rinascere. Chiede la nostra benedizione di marinai dall’occhio spento, che vincono solo se si arrendono al cosmo. E alla sua melma. 


Francesca Matteoni (1975) è poetessa e scrittrice. Ha all’attivo sia pubblicazioni accademiche sia altre di stampo divulgativo sulla storia della stregoneria e la medicina popolare in italiano e inglese. Tra i suoi ultimi libri: Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ 2919); un saggio sulle piante sacre nel volume La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita; il libro di poesia Ciò che il mondo separa (Marcos y Marcos, 2021) e Io sarò il rovo. Fiabe di un paese silenzioso (effequ 2021). È redattrice di Nazione Indiana e scrive per Kobo e L’Indiscreto. Il suo ripostiglio si trova qui.

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