Tra semplificazione e complessità

Per capire il mondo nella sua interezza e varietà abbiamo, necessariamente, bisogno di entrambe. Eppure il rischio di non trovarla, questa bussola, è altissimo per chiunque.


in copertina e nel testo, delle opere di Max Walter Svanberg

di Selena Pastorino

La prima volta che un testo filosofico ha ridicolizzato la mia ingenuità intellettuale mi trovavo in Germania come studentessa e stavo seguendo un corso sulla cultura tedesca. Dato lo scarto linguistico, non avevo potuto fare a meno di leggere con la lentezza e l’attenzione volute dall’autore quel brano straordinario che è l’incipit di Su verità e menzogna in senso extramorale. In poche righe, Nietzsche scardina la fiducia umana nell’antropocentrismo, mostrando come l’intera parabola della sua storia non sia che un breve istante, indifferente all’universo tutto. Mi ero sentita stupida, scossa, eppure incredibilmente a mio agio, come se finalmente avessi incontrato chi guardava la realtà senza distogliere lo sguardo, ma anche senza presumere che il proprio punto vista fosse il più panoramico.

Penso che la lezione maggiore che si possa trarre da buona parte dei testi nietzscheani, o, in genere, filosofici, sia proprio quella di impegnarci in un esercizio costante nei confronti della realtà: mettendo da parte le nostre convinzioni più comode e consolatorie, trovare la forza di compiere tutte le torsioni necessarie a comprenderequanto più possibile del reale, anche se questo implica provare a rapportarsi alle miriadi di trasformazioni che lo animano e ne fanno una dimensione complessa, di cui noi non siamo che una parte. 

Eppure semplificare e addomesticare questa complessità è un’attività che ci è connaturata. Di più, ci è necessaria, perché se ci trovassimo a gestire la mole di minuscoli e cangianti dati percettivi che provengo dalla nostra esperienza saremmo annientati, ridotti letteralmente a un niente, di fatto impossibilitati ad agire e sopravvivere. Proprio per questo, però, è almeno altrettanto importante stabilire fino a che punto la semplificazione sia funzionale e oltre che misura ecceda il suo compito, come se si trattasse di un farmaco che, in dosaggio eccessivo, potrebbe separare a tal punto la nostra consapevolezza e la realtà da renderci ignari della nostra condizione reale. E, quel che è peggio, esposti alla manipolazione altrui.

Nel varco che può crearsi tra ciò che siamo e ciò che crediamo di essere si possono insinuare molteplici narrazioni, pronte a combattersi per stabilire quale sia la migliore, quale cioè riesca a essere così semplice da consolarci per la sua comprensibilità, più che per le effettive speranze che potrebbe regalarci: quanto più complessa e inedita è la situazione che ci troviamo a fronteggiare, quanto più le nostre risorse sono impegnate in emergenze pressanti, tanto più siamo propensi a cedere alla più facile delle spiegazioni, qualunque cosa ci dica.

Una tendenza che si riconosce bene nelle dinamiche che hanno animato alcuni dei più recenti confronti pubblici su temi di interesse generale, di stretta attualità o di lunga tradizione, dalle vaccinazioni contro il COVID alla guerra in Ucraina, dallo schiaffo di Will Smith alle molestie degli alpini, ma anche dal ruolo del fascismo nella storia italiana all’occupazione israeliana in Palestina. Di fronte a ogni questione si stagliano in maniera sempre più netta delle polarizzazioni d’opinione, che non contemplano alternative intermedie o confusioni reciproche, tentennamenti o critiche. La loro insorgenza e la loro crescita si alimenta del nostro suddetto, urgente, bisogno di orizzontarci, che si ritrova tuttavia a essere trasformato nella richiesta di posizionarci, o, più precisamente, di schierarci a nostra volta.

Nonostante ci sembri che la spiegazione più semplice sia anche la più efficace, queste contrapposizioni non riescono davvero ad adempiere alla loro funzione di orientamento. Non tanto per l’assurdità degli estremismi che talvolta si trovano a incarnare, bensì per la stessa logica dicotomica che realizzano e potenziano, la quale produce almeno tre effetti indesiderati, per non dire pericolosi. In primo luogo, ci impedisce di avere degli strumenti con cui affrontare ogni situazione che non si lasci ricondurre a una delle due visioni del mondo, causando una specie di cortocircuito mentale che ci lascia ancor più sperduti e disorientati di quanto non fossimo prima: se, per esempio, so che un orologio è rotto ma lo controllo all’ora in cui si è fermato, farò fatica a contemplare l’ipotesi che io stia effettivamente facendo i conti con un’eccezione e la mia prima tentazione sarà piuttosto quella di pensare che forse funzioni ancora. Non è che una terza (o quarta o quinta…) opzione non si dia, ma provare a elaborarla ci costa notevoli risorse intellettuali, quelle necessarie a mettere in dubbio la spiegazione dicotomica accettata in precedenza e quelle che servono per poter visualizzare altre descrizioni del reale almeno parimenti esplicative. È una delle questioni alla base della riflessione (filosofica) sull’evoluzione delle scienze sperimentali: quante nuove informazioni, quante deviazioni, può tollerare una teoria prima di dover essere sostituita da una migliore? Nel caso delle suddette contrapposizioni, la risposta è nessuna. La rigidità di queste presunte interpretazioni della realtà non permette di adattarle al mondo, costringendoci a un dispendio di energie cognitive maggiore di quello che dovrebbe permetterci di risparmiare o, peggio, conducendoci all’incapacità di considerare come reale tutto ciò che contrasta con la nostra visione del mondo.

Non solo. Anche qualora volessimo sobbarcarci la fatica di confrontarci onestamente con la realtà, ci troveremmo a mal parata nel provare a impiegare le nostre forze esplicative, quasi che a furia di non utilizzarle perdessimo la praticità nel metterle in funzione. In effetti, quanto più ci affidiamo a letture del reale che non abbiamo contribuito a costruire – o che forse abbiamo un tempo elaborato ma ormai usiamo nella loro versione più semplice – tanto più atrofizziamo quella capacità di orientarci che ci serve per fare i conti con il reale, ivi compresi gli imprevisti di cui sopra. Insomma, l’arte dell’interpretare ciò che raccogliamo dalla realtà e che mettiamo insieme con il concorso di altre prospettive, provando a cercare quel famoso punto di equilibrio che impedisce di tramutare i farmaci in veleni, richiede esercizio e impegno costanti. Senza questo imperterrito allenamento perdiamo progressivamente la capacità di nominare ciò che circonda, di riconoscere ciò che siamo, di orientarci e direzionarci in questa nostra realtà.

Infine, ed è forse il rischio maggiore, contrapporre due visioni alternative del reale significa sostenere che se una delle due è corretta, l’altra è sbagliata, in modo così assoluto e rigoroso da avere delle implicazioni morali. La dicotomia implica un inevitabile manicheismo: se una visione del mondo non è solo imprecisa ma falsa, chi la sostiene deve essere impreparato, stupido, infido, o mendace, in ogni caso un interlocutore di poco valore. Di qui a sminuirne la dignità umana il passo è brevissimo, come sappiamo per averlo visto accadere in modo veemente e violento nelle più recenti questioni. Nonostante per poter colpire chi contrappone la sua visione della realtà alla nostra sia necessario introdurre nuove semplificazioni, nuove contrapposizioni e altrettante fallacie, spesso ci troviamo a scivolare dal piano della conoscenza a quello etico senza quasi accorgercene e, quindi, senza saperlo evitare.

Posto che tutti questi rischi siano concreti, come credo, non possiamo ovviamente sperare di trovare una formula semplice che, senza tenere conto del reale che ci circonda e ci costituisce, ci dica una volta per tutte cosa fare. Nessuna intuizione geniale può dispensarci dal confronto con la realtà, pena riproporre in altra forma i pericoli di cui sopra. Per provare a capire come si potrebbe agire occorre piuttosto considerare la complessità della nostra condizione di interpreti del mondo: la responsabilità della nostra finezza d’interpretazione, cioè del suo livello di accuratezza, dipende in gran parte da noi. Questo significa che, da un lato, spetta a noi soltanto stabilire, di volta in volta, quante risorse possiamo davvero impiegare per comprendere una questione nelle sue complesse articolazioni. Tuttavia, dato che di rado possiamo disporre liberamente delle nostre risorse, in termini di tempo, denaro, attenzione, eccetera, sarò sempre, dall’altro lato, più o meno in grado di poter impiegare una certa quantità di forza interpretativa a prescindere da quanta ne voglia davvero utilizzare in relazione alle mie effettive priorità (già individuare le quali è un bell’esercizio di onestà intellettuale).

Tenerci in questo equilibrio è quindi tutt’altro che semplice, tanto più considerato che spesso definire la propria posizione si impone come necessità pratica prima ancora che teorica (basti pensare alla questione vaccinale rispetto alla quale occorreva maturare un’opinione perché era impossibile sottrarsi alla scelta di vaccinarsi o meno). Anche in questo caso tuttavia le possibilità sono ben più delle contrapposizioni binarie che ci verrebbe spontaneo immaginare. Per esempio, possiamo trovare un modo per posizionarci senza schierarci, occupando una posizione più dettagliata e consapevole, cioè più responsabile e più intellettualmente onesta, rispetto alle postazioni rese disponibili dal dibattito pubblico. Per tornare al caso dei vaccini contro il COVID vaccinarsi o non vaccinarsi non erano le uniche due alternative possibili, sebbene deviare dall’ortodossia di un estremo implicava essere rubricati nell’altro: a seconda dei momenti si poteva, e si doveva, tra l’altro, stabilire quando effettuare il vaccino, definire con l’ausilio del personale curante se il proprio stato di salute richiedeva o sconsigliava una vaccinazione tempestiva, decidere se proseguire con le seconde e terze dosi, valutare quali e quante precauzioni adottare in attesa o in alternativa al vaccino, scegliere di affrontare l’iter raccomandato eppure mantenere una certa diffidenza (la scrivente era entusiasta di ricevere la prima dose ma è uscita di casa lasciando un biglietto per sua figlia nel caso non avesse fatto ritorno a casa). Le possibilità insomma non erano mai solo due.

Sottrarsi alla richiesta di adottare una rigida linea interpretativa ci permetterebbe di rompere le regole del gioco, guadagnando spazio per definire il nostro approccio alla realtà, laddove sia inevitabile. A maggior ragione qualora questa necessità di opinare sia solo apparente, perché la questione in oggetto è ciò di cui tutti parlano, o solo relativa, perché è ciò di cui tutta la mia bolla professionale parla (spesso senza averne le competenze), aver difeso un margine individuale ci permetterà di dichiarare che non siamo informati sulla questione, che preferiamo aspettare di aver tempo per capire o, ancora, che abbiamo questioni più urgenti di cui occuparci per tenerci in piedi. Insomma, non dobbiamo sempre avere forze sufficienti per immergerci nel pantano del reale, ma proprio per questo dobbiamo tutelare la nostra possibilità di ammettere che non è per noi il momento di affrontarne la fatica, anziché cedere alla tentazione di aggirarla con qualche pozione mal dosata.


Selena Pastorino è Dottoressa di ricerca in Filosofia e docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Mazzini di Genova. È membro del Seminario Permanente Nietzscheano e collabora con diverse testate online. Si occupa del pensiero di Friedrich Nietzsche (Prospettive dell’interpretazione, ETS, 2017; Per la dottrina dello stile e Da quali stelle siamo caduti?, Il melangolo, 2018), di pop-filosofia (Black Mirror, con Fausto Lammoglia, Mimesis, 2019) e di filosofia del corpo (Filosofia della danza, Il melangolo, 2020; Filosofia della maternità, Il melangolo, 2021).

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