Tradurre il dolore: la comunicazione medica della sofferenza



Provare dolore fisico è un’esperienza talmente diretta e personale che sfida ogni dubbio sulla sua realtà. La certezza del proprio dolore, contrapposta all’incertezza di quello altrui, ci fa riflettere sull’unicità dell’esperienza umana e sulle sfide della sua comunicazione e comprensione, soprattutto in un contesto medico.


In copertina, The Wounded Deer (1946), di Frida Kahlo

di Francesca Memini, Rossella Failla, Chiara Di Lucente

Provare dolore fisico è un’esperienza di cui non si può dubitare. Il dolore ci porta in uno stato di attenzione e presenza alla coscienza tanto incontestabile che, quando dobbiamo mettere alla prova il nostro senso di realtà, ci provochiamo dolore con un pizzicotto. Se il proprio dolore è una certezza, sapere che una persona che dice di provare dolore non stia mentendo è tendenzialmente un atto di fede. Inoltre, come sappiamo che quello che una persona chiama dolore sia la stessa cosa che provo io?

Dolore,  d’altro canto, è un termine ambiguo che usiamo per indicare esperienze molto differenti: è dolore quello provocato da un taglietto con la carta, dall’amputazione di un arto, da un’emicrania e anche quello causato da un lutto.

Ora se consideriamo il problema della comunicabilità del dolore all’interno di un contesto medico, ci rendiamo immediatamente conto che non si tratta solo di un problema filosofico, ma di un dilemma che può avere ricadute concrete sulla vita delle persone che soffrono, dei curanti che dovrebbero alleviare la sofferenza e del sistema sanitario che deve gestire l’accesso a trattamenti e cure.

Il dolore è il motivo principale per cui ci rivolgiamo al medico e quello cronico è una condizione che riguarda circa una persona su 5  a livello globale, con enormi difficoltà sia in termini di diagnosi sia di terapia. Attualmente non si hanno dati epidemiologici completi che possano attestarne la portata, ma da un’indagine condotta in Europa nel 2005 è emerso che circa il 19% degli adulti soffre di dolore cronico di intensità grave o moderata (in Italia questa percentuale è ancora più alta, con il 26% della popolazione colpita). In particolare, è emerso che il 21% delle persone con dolore cronico ha ricevuto una diagnosi di depressione, il 61% ha difficoltà o è impossibilitato a lavorare fuori casa, il 19% ha perso il lavoro e il 13% ha cambiato lavoro a causa del dolore. Insomma, si tratta di un fenomeno ampio e multiforme, che può avere natura, localizzazione e intensità diverse, fino a compromettere la sfera personale e professionale, le relazioni sociali e la qualità della vita in generale. Eppure, non riusciamo ancora bene a spiegare di cosa parliamo quando parliamo di dolore.

Lo studio dei meccanismi neurobiologici del dolore ha fatto passi da gigante negli ultimi 30 anni, tuttavia la medicina non ha trovato, nel cervello delle persone che ne soffrono, nessuna magica porta di accesso a questa esperienza,  che possa definirla in maniera “oggettiva”.

L’accesso rimane sempre quello: le parole del paziente. E spesso, soprattutto quando si tratta di dolore cronico, queste parole non vengono capite o prese sul serio.

A dirla tutta, i progressi della ricerca biomedica hanno cambiato più volte il rapporto dei medici con le parole del dolore (e di conseguenza con l’ascolto dei pazienti).

Come spiega la storica Johanna Bourke nel suo libro The Story of Pain: From prayer to painkillers,  le descrizioni del dolore nei libri di testo medici, fino a metà del 1800 dettagliate, evocative e ricche di metafore, sono andate asciugandosi, in parallelo con l’evoluzione della medicina. L’ascolto delle narrazioni dei pazienti che aveva scopo diagnostico ma anche “lenitivo” delle sofferenze psicologiche, in assenza di rimedi farmacologici efficaci, è stato progressivamente messo da parte, in favore di dati e analisi di laboratorio. Il paziente che si dilungava in complesse e articolate narrazioni del suo dolore rischiava di passare per ipocondriaco o persino bugiardo, in ogni caso un “cattivo paziente”.

Le parole del dolore e la relazione tra linguaggio e dolore sono tornati oggetto di attenzione e di studio in medicina a partire dagli anni ‘70, con l’affermarsi del cosiddetto modello biopsicosociale del dolore, che rifiuta di far coincidere il dolore con la sola nocicezione – ovvero il processo sensoriale che avviene nel sistema nervoso in risposta a lesioni reali o potenziali dei tessuti, in cui neuroni periferici “sentinelle” si attivano e trasmettono un segnale dolorifico al cervello – introducendo le variabili biologiche, psicologiche e sociali. Questo modello oggi è comunemente accettato come stato dell’arte.

Per spiegare la natura del dolore, secondo questa nuova visione olistica del fenomeno, viene spesso utilizzato un aneddoto:

Un muratore di 29 anni è arrivato al pronto soccorso dopo essere saltato su un chiodo di 15 cm. Poiché il minimo movimento dell’unghia era doloroso, è stato sedato con fentanyl e midazolam. Il chiodo è stato quindi estratto dal basso. Quando lo stivale è stato rimosso, è apparsa una guarigione miracolosa. Nonostante fosse entrato in prossimità del puntale d’acciaio, il chiodo era penetrato tra le dita: il piede era completamente illeso.

Il ragazzo stava mentendo? Stava avendo un’allucinazione? Ma soprattutto che cosa stava davvero provando? Il suo dolore sarebbe stato lo stesso se il chiodo avesse davvero trapassato il piede? Era dolore o paura del dolore?

Poche righe ma estremamente efficaci nel mostrare che il dolore non è direttamente correlato a un danno dei tessuti, come si credeva un tempo.

Questa conoscenza ha portato a ridimensionare gradualmente anche il ruolo della nocicezione nell’esperienza del dolore.

Quello che sappiamo oggi è che l’esperienza del dolore è il risultato dell’attivazione, dell’elaborazione e dell’integrazione di diverse aree del sistema nervoso e del cervello, e che è modulata da input sensoriali, emotivi e cognitivi, da esperienze pregresse, aspettative, credenze e fattori sociali.

Tornando all’aneddoto del carpentiere, ascoltandolo si resta talmente stupiti dai meccanismi del cervello umano da dimenticarci che ci troviamo comunque di fronte a una narrazione.

L’aneddoto infatti compare la prima volta non in un articolo scientifico, ma in una rubrica editoriale (“Minerva” column del British Medical Journal nel 1995) e con una stringatissima documentazione medica (una radiografia): crediamo alla veridicità dell’episodio perché ci fidiamo delle parole del medico, testimone dall’esterno e narratore in terza persona. Ma in ultima analisi per poter essere certi che i fatti riportati siano veritieri, manca un ingrediente chiave: le parole del paziente, la testimonianza in prima persona della sua esperienza. Di fatto non siamo in grado di sapere non solo se i fatti siano accaduti realmente nel modo descritto, ma nemmeno se il carpentiere provasse davvero dolore e non, per esempio, solo paura del dolore, senza una reale esperienza di dolore.

E non lo sappiamo in primo luogo perché le sue parole non vengono riferite, in secondo luogo perché per spiegare la neurofisiologia del dolore diamo per scontato di sapere che cos’è la sua esperienza, ma per spiegarla sembra che ci manchino le parole.

L’ineffabilità del dolore

In uno dei più noti saggi sull’ineffabilità del dolore The body in pain, Elaine Scarry descrive il dolore come un’esperienza privata, interiore e sotterranea, intrinsecamente e per sua stessa natura incomunicabile. Di più, secondo Scarry il dolore non soltanto non può essere espresso tramite il linguaggio, ma porta alla distruzione del linguaggio stesso, facendoci regredire a uno stadio prelinguistico fatto di grida e di pianto.

La tesi di Scarry è che il dolore sia una forma particolare di sensazione che resiste al linguaggio in quanto priva di contenuto referenziale, uno stato di coscienza totalizzante ma privo di intenzionalità: la paura è sempre paura di qualcosa, l’amore è amore per qualcosa, il dolore no, è solo dolore.

Secondo il punto di vista di alcuni filosofi con approccio fenomenologico, invece, il dolore può essere considerato come una sensazione intenzionale che però non è diretta verso un oggetto del mondo ma verso un particolare oggetto-soggetto: il nostro corpo vissuto (Leib).

Una posizione simile è quella di Bourke che vede il dolore come un modo in cui viene esperito qualcosa, non ciò che viene esperito; un come della persona, non un cosa. “Il dolore, spiega la storica,  non è la cosa o l’oggetto che si sta provando, ma è ciò che si prova a sentire la cosa o l’oggetto”,

Bourke sottolinea il ruolo attivo e valutativo svolto dal soggetto nell’esperienza del dolore, che diventa un modo di essere-nel-mondo. In italiano utilizziamo generalmente le parole “avere dolore” come se il dolore fosse un oggetto che entra nella nostra sfera di coscienza dall’esterno, Bourke predilige l’espressione “being-in-pain” per sottolineare la soggettività di questa esperienza. Di nuovo quindi potremmo derivare l’ineffabilità del dolore, l’impossibilità di uscire da questa prima persona.

Tuttavia il soggetto che soffre, nel suo essere agente e non solo recipiente dell’esperienza dolore, ha  adottato nel corso della storia principalmente una strategia d’azione specifica: quella di oggettificare il dolore come entità, rendendolo indipendente dal sé, trasformando il dolore in parola.

Il farsi parola del dolore

Scarry cita le parole di Virginia Woolf nel saggio “On Being Ill” :
Una scolaretta che vuol dare voce alle sue prime pene d’amore può rivolgersi ai sonetti di Shakespeare o all’eleganza di Donne, ma lasciate che una persona provi a descrivere un dolore: Il linguaggio d’improvviso si prosciuga.

È interessante scoprire che un recente studio ha dimostrato la falsità di questa affermazione, andando a calcolare la frequenza delle parole che indicano il dolore nella letteratura e nella poesia classica e contemporanea in lingua inglese:  al contrario di quanto afferma Woolf, le parole del dolore sono molte e vengono usate persino in senso metaforico per descrivere situazioni che non sono direttamente correlate a condizioni dolore.

Nonostante l’ineffabilità o forse proprio a causa di questa, l’esperienza del dolore sembrerebbe stimolare la creatività linguistica, producendo metafore estremamente efficaci.

Virginia Woolf osservava anche che di fronte alla povertà del linguaggio:

Non c’è niente di già pronto. La persona che soffre è forzata a coniare delle parole da solo, e prendendo il dolore in una mano, e un grumo di puro suono nell’altra (come forse gli abitanti di Babele all’inizio), a premerli l’uno sull’altro, perché una nuova parola alla fine ne esca

Come spiega Scarry una metafora semplice come “mi sembra che ci sia un chiodo conficcato nella pianta del piede” o “ mi sento come se mi avessero accoltellato” permette di attribuire alcune caratteristiche esterne al corpo (forma, lunghezza, colore del chiodo o del coltello) alla sensazione privata del dolore che così può almeno essere immaginata dagli altri. Ma descrivere attraverso le metafore le sensazioni interiori del dolore serve anche a chi ne soffre per mappare la sua esperienza all’interno di uno spazio di conoscenze note e dare senso a questa esperienza.

Susan Sontag, una delle scrittrici che più si è dedicata allo studio delle metafore di malattia con uno sguardo critico, nel 1964 ha pubblicato un racconto su Harper’s Magazine, “Man with a Pain” (1964), in cui il protagonista cerca di dare senso al fatto bruto, la sua esperienza di dolore, sperimentando una serie di metafore.

O la ferita è un contratto (allora c’è una data di cessazione, in cui tutti gli obblighi vengono annullati) o è un’eredità (allora è sua finché non può lasciarla in eredità a qualcun altro) o è una promessa (allora deve mantenerla) o è un compito (allora può rifiutarlo, (allora può rifiutarlo, anche se sarà licenziato) o è un regalo (allora deve cercare di custodirlo prima di scambiarlo) o è un ornamento (allora deve vedere se è appropriato) o è un errore (allora deve rintracciare la persona in errore, se stesso o un altro, e spiegare pazientemente le cose) o è un sogno (allora deve aspettare di svegliarsi).

Come ben espresso da Sontag, la scelta di una metafora piuttosto che di un’altra porta con sé conseguenze nel modo di dare senso e di vivere l’esperienza, nell’attribuzione di una causalità al dolore che ha un impatto anche sulla tolleranza del dolore e sull’efficacia della terapia, nel modo di vivere la relazione di cura, nella motivazione necessaria per affrontare un percorso terapeutico o la necessità di integrare il dolore cronico nella propria vita quotidiana, in assenza di una terapia risolutiva.

Resta però ancora aperto un problema più radicale. Se l’esperienza del dolore è del tutto soggettiva e privata, tanto da richiedere la creazione di un linguaggio su misura nel tentativo di comunicarla, come impariamo ad attribuire il nome dolore proprio a quella esperienza specifica e non a un’altra? Come facciamo a sapere che quello che indichiamo con l’etichetta “dolore” non sia nausea o un altro tipo di disagio con un’etichetta verbale differente?

Comunicare il dolore tra pubblico e privato

Ludwig Wittgenstein affronta proprio questo problema ne Le Ricerche filosofiche usando la metafora del coleottero nella scatola:

Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo «coleottero». Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. – Ma supponiamo che la parola «coleottero» avesse tuttavia un uso per queste persone! – Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del giuoco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota.

Il problema della designazione dell’oggetto-dolore viene superato con la teoria dei giochi linguistici: è inappropriato usare la parola dolore pensando di nominare un oggetto; abbiamo imparato a etichettare come dolore un’esperienza soggettiva perché il concetto di dolore rientra nel linguaggio pubblico. “Avete imparato il concetto di dolore quando avete imparato il linguaggio”, scrive Wittgenstein.

Il genitore (o il caregiver) istruisce il bambino su come nominare e rispondere agli eventi che egli, in base alla sua cultura,  considera dolore.

Lo psichiatra Mark D. Sullivan, nell’articolo del 1995, Pain in Language. From Sentience to Sapience riprende ed estende la posizione di Wittgenstein, spiegando che solo attraverso questa spiegazione siamo in grado di giustificare perché i fattori sociali e il linguaggio stesso danno forma all’esperienza di dolore e ai comportamenti che ne conseguono.

Al contrario di Scarry il dolore non è più un fenomeno privato, ma vive insieme al linguaggio, insieme alla sua espressione pubblica.

Come fa notare Mark Sullivan, ad essere mediato dal linguaggio non è solo il nostro accesso al dolore degli altri ma anche l’accesso al nostro stesso dolore, e ciò rende l’esperienza del dolore un fenomeno sociale oltre che strettamente soggettivo e privato:

“il dolore umano è un’esperienza concettuale oltre che sensoriale perché il contatto con il nostro dolore è mediato dalla struttura concettuale del linguaggio. In quanto concettuale, il dolore rimane soggettivo ma diventa un fenomeno essenzialmente sociale”.

Chi sceglie le parole e le metafore del dolore

Le parole che usiamo per descrivere il dolore sono frutto di un tentativo di attribuzione di senso individuale – il farsi parola del dolore – ma anche di una negoziazione sociale.

Il linguaggio pubblico è sempre un linguaggio situato che cambia nel tempo, nelle culture e in contesti specifici e che viene modulato nelle interazioni.

Il contesto medico è caratterizzato da un suo linguaggio specifico, influenzato dalle credenze (sulla fisiologia, sul comportamento del paziente con dolore, sull’efficacia dei trattamenti) tipiche di questa “cultura”. Un esempio è il McGill Pain Questionnaire, una delle scale di valutazione più usate per quantificare e descrivere il dolore percepito da un paziente. Il questionario è costituito principalmente da 78 descrittori, parole che possono essere usate dalle persone per descrivere il loro dolore e che appartengono a tre categorie principali: sensoriali, affettive ed valutative, oltre a una scala di intensità e altre domande per identificarne altre caratteristiche. La persona che esegue questa autovalutazione, quindi, è invitata a selezionare le parole che ritiene più adeguate per descrivere la propria esperienza del dolore.

Gli autori del questionario, gli psicologi Ronald Melzack e Warren Torgerson, sostenevano che era “affidabile, coerente e soprattutto utile”, che rappresentava uno strumento diagnostico, in quanto vi era “una notevole coerenza nella scelta delle parole da parte dei pazienti che soffrono della stessa sindrome del dolore o di sindromi simili”.  Infine, sostenevano che le persone con dolore erano profondamente grate per aver dato loro un linguaggio.

Nuovo paradigma, nuove parole. Ma in questo caso le parole “giuste” vengono fornite direttamente dal medico. Sono davvero quelle giuste?

Qualche problema è emerso nelle traduzioni: per esempio i finlandesi faticano a comprendere l’associazione dell’esperienza del dolore con  il termine “punitivo” , mentre in inglese è la stessa parola “pain” ad avere una parentela con il concetto di punizione. In Asia e in India le metafore utilizzate in occidente non sono affatto quelle più comuni.

Ma i limiti non finiscono qui. La definizione di un’ontologia linguistica, una categorizzazione dell’esperienza del dolore determina i confini stessi dell’esperienza: per fare un esempio al di fuori dell’ambito medico, la progressiva secolarizzazione della società ha portato alla riduzione dell’uso di metafore religiose per descrivere il dolore, con questa riduzione sembrano essere scomparse anche le sfumature positive del patire, presenti già nella cultura greca e legate al suo valore pedagogico ed esistenziale.

È stato evidenziato che nei descrittori del MCGill Questionnaire c’è una presenza esclusiva di emozioni e di giudizi morali negativi: il dolore è crudele, punivo, una tortura. Una rappresentazione unilaterale che può diventare molto problematica per esempio nel caso di un dolore cronico, che non può essere eliminato definitivamente. Mancano inoltre descrittori per la dimensione temporale dell’esperienza, che permettano la narrazione di un processo, di cambiamenti, di ricordi, di aspettative.

Poiché la scelta delle metafore e delle parole per comunicare il dolore influenza la stessa esperienza del dolore, imporre una serie di parole da un menù è un esercizio di potere che, in un setting clinico già governato da un’asimmetria relazionale andrebbe ripensato con consapevolezza e responsabilità.

La nuova definizione scientifica di dolore

Nel 1979 l’Associazione internazionale per lo studio del dolore (IASP) ha per la prima volta costituito uno specifico comitato, comprendente membri di diverse specialità cliniche, incaricato di formulare una definizione del dolore che potesse essere recepita e utilizzata da operatori sanitari e dai ricercatori dalle organizzazioni professionali, governative e non governative.

Seppur con qualche revisione, la definizione del dolore è rimasta la stessa per più di quarant’anni, fino al 2020. Siamo di nuovo a una rivalutazione del modello esplicativo che comporta un cambiamento nelle parole del dolore.

La nuova definizione descrive il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata o che sembra essere associata a un danno tissutale, potenziale o reale”.

Accompagnano questa definizione sei punti chiave:

  • Il dolore è sempre un’esperienza personale, influenzata a vari livelli da fattori biologici, psicologici e sociali.
  • Dolore e nocicezione sono fenomeni diversi. Il dolore non può essere dedotto esclusivamente dall’attività dei neuroni sensoriali.
  • Attraverso le loro esperienze di vita, gli individui apprendono il concetto di dolore.
  • Il racconto di un’esperienza come dolore da parte di una persona dovrebbe essere rispettato come tale.
  • Sebbene il dolore svolga solitamente un ruolo adattivo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e sul benessere sociale e psicologico.
  • La descrizione verbale è solo uno dei tanti comportamenti per esprimere dolore; l’incapacità di comunicare non nega la possibilità che un animale umano o non umano provi dolore.

Alcuni di questi punti sono evidentemente frutto di una riflessione sulla natura del dolore, che vanno a correggere credenze attribuibili a un paradigma puramente biomedico (il riferimento al danno tissutale e alla nocicezione, la valorizzazione delle componenti psico-sociali).

Il tema della comunicazione del dolore diventa un punto chiave: il rispetto della narrazione del paziente guadagna un posto specifico e c’è anche spazio per un po’ del coleottero di Wittgenstein.

Inoltre la IASP mette a fuoco un altro aspetto cruciale. L’esperienza del dolore può esserci anche quando non può essere comunicata o non può essere comunicata verbalmente (bambini, animali, persone con limitazioni cognitive o linguistiche)

Questa definizione di certo ha ancora dei limiti, ma sappiamo che la scienza non prevede dogmi e potrà in futuro essere rivisitata. Tuttavia che questa attenzione per il legame tra dolore ed espressione linguistica rimane problematica, se non addirittura inattuabile, nella pratica.

Poiché l’esperienza privata del dolore resiste al metodo scientifico, i medici continuano a cercare di ricondurla a una serie di fenomeni osservabili e misurabili: la ricerca della “firma” del dolore nel cervello attraverso strumenti di imaging nella ricerca o la quantificazione su una scala numerica dell’esperienza del dolore nella clinica restano la regola, non l’eccezione. Le narrazioni spesso frammentarie e faticose dei pazienti nello studio medico, continuano ad essere poco gradite (basti pensare che in Italia i tempi medi per ottenere una diagnosi sono superiori ai cinque anni)Anche uno strumento tutto sommato limitato come il McGill Questionnaire, ma comunque più informativo di una scala numerica, è praticamente caduto in disuso.

L’ascolto delle narrazioni di dolore è spesso faticoso per i professionisti sanitari e la frustrazione per l’impossibilità di trovare una soluzione definitiva in caso di cronicità lo è ancora di più. Tuttavia è proprio grazie a  queste narrazioni, inizialmente caotiche e frammentarie,  che è possibile arrivare a una comprensione dell’esperienza del dolore come vissuta proprio da quel paziente, e co-costruire un linguaggio condiviso, una narrazione comune che renda più efficace la presa in carico e i trattamenti.

Serve consapevolezza nel gestire una negoziazione di significati tra medico e paziente all’interno di una relazione asimmetrica: anche soltanto con la scelta di un descrittore numerico, il paziente risponderà cercando “la risposta giusta”, il numero che indurrà nel medico la reazione attesa (non essere giudicato lamentoso, ma anche ottenere terapie o trattamenti).

Occorre avere sempre la consapevolezza che le   parole usate hanno un impatto sulla percezione del dolore e sul tipo di relazione tra medico e paziente e ricordare l’importanza di essere testimoni, di credere alla narrazione di chi soffre. Alla fine dei conti, e prima di ogni trattamento o terapia, la richiesta principale della persona con dolore è quella di essere creduti.


Francesca Memini
Laureata in filosofia, si occupa di progettazione e comunicazione strategica in ambito medico, collaborando con agenzie di comunicazione, università, associazioni di pazienti e società scientifiche. Ha conseguito un master in Medicina Narrativa presso Istud Sanità e ha svolto attività di formazione per i professionisti della salute nell’ambito delle medical humanities. E’ socia operativa di Logon ETS, associazione per la promozione della cultura digitale e ha fondato lo studio Con cura per la progettazione di attività di comunicazione di salute e digital health.
 
Rossella Failla
Nata a Siracusa nel 1986, si è laureata in filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi sui concetti di salute e malattia nell’epistemologia di Georges Canguilhem. Si occupa di comunicazione sociale e di salute per imprese, istituzioni ed enti del terzo settore. Nel 2022 ha conseguito il master in “Cultura & Salute” presso il Cultural Welfare Center di Torino. Scrive di  medical humanities, antropologia della salute e narrazioni della contemporaneità. Ha fondato lo studio Con cura per la progettazione di attività di comunicazione di salute e digital health.  

Chiara Di Lucente
Nata a Pescara nel 1995, si è laureata in Biotecnologie Mediche e ha conseguito il master La Scienza nella Pratica Giornalistica di Sapienza Università di Roma. Attualmente collabora con la stessa università nella gestione, disseminazione e comunicazione di un progetto europeo sulle infrastrutture di ricerca nell’ambito della biofisica, si occupa di comunicazione scientifica e della salute e ha scritto per testate come Wired.it, Galileo.net, Scienzainrete.it, Gimema Informazione. Ha fondato lo studio Con cura per la progettazione di attività di comunicazione di salute e digital health.  

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