Alle 23: 48 del 29 giugno 2009 un treno merci che trasporta quattordici vagoni-cisterna carichi di Gpl deraglia quattrocento metri dopo la stazione di Viareggio, nel cuore della città: la prima cisterna si squarcia e il gas ancora liquido si rovescia sulla massicciata, quindi passa allo stato gassoso e si disperde come una nube.
Dal lato di via Ponchielli il Gpl trova via libera, entra nelle case e quando esplode fa crollare tre palazzine, provocando nel frattempo un incendio che devasta tutta la strada. Undici persone muoiono sul colpo, altre ventuno perderanno la vita in seguito a causa delle ustioni (l’ultima resisterà più di sei mesi), mentre un centinaio di feriti gravi affronteranno negli anni a venire le conseguenze di quella notte.

I treni non esplodono (edizioni Piano B), di Federico di Vita e Ilaria Giannini, raccoglie le storie di chi quella notte è stato lì: familiari delle vittime, ustionati, soccorritori, personale dell’ospedale, giornalisti accorsi sul posto, pompieri ma anche semplici passanti.
Intervistiamo gli autori per L’INDISCRETO, per scoprire di più di questa strage poco celebre.
Francesco D’Isa: La prima domanda può sembrare ingenua, ma ha un suo senso. Di questa strage si è parlato e si parla pochissimo rispetto ad altre di pari entità. A vostro parere perché questo trattamento da “strage di serie B”?
Federico e Ilaria: Ci sono diverse dinamiche che possono portare a una differente ribalta mediatica, ma è curioso che la più grande strage ferroviaria europea abbia avuto così poco spazio sui media. Un confronto con una tragedia di dimensioni analoghe, quella della Costa Concordia – in cui come a Viareggio sono morte 32 persone – risulta eloquente a riguardo. C’è da dire che la spettacolarizzazione si verifica quando viene resa possibile: nel caso del processo di Viareggio – che si tiene al tribunale di Lucca – non sono ammesse telecamere e registratori durante le udienze. È un segnale preciso: c’è una esplicita volontà di silenziare quanto più possibile i mezzi di informazione riguardo a questa vicenda, e se pensi che a sette anni di distanza a parte un fumetto il nostro è il primo libro che parla della strage di Viareggio si può dire che si è riusciti a perseguire l’obiettivo di farne parlare il meno possibile.
«È curioso che la più grande strage ferroviaria europea abbia avuto così poco spazio sui media. Un confronto con una tragedia di dimensioni analoghe, quella della Costa Concordia – in cui come a Viareggio sono morte 32 persone – risulta eloquente a riguardo.»
Per quella che definirei una “statistica delle emozioni”, se non si è coinvolti per qualche motivo in disastri come questo si tende a far finta di nulla, perché è impossibile contenere tutto il dolore del mondo. Com’è stato per voi, che non avete avuto parte alla strage, trattare dall’interno una cosa che abitualmente viene vissuta come “cose terribili che capitano”?
Ilaria: Viste dall’esterno tutte le tragedie sono uguali: scene di sofferenza e distruzione che guardiamo passare con la coda dell’occhio al telegiornale, volti di vittime e sopravvissuti in lacrime che scorrono in fretta e il giorno dopo sono dimenticate, ingurgitate dal flusso continuo delle notizie. Ormai siamo assuefatti a queste immagini e non ci fanno più molta impressione, da una parte è normale, come dicevi non si può soffrire per tutti i mali del mondo, ma così insieme all’empatia rischiamo anche di perdere la capacità indignarci per quelle morti che potevano essere evitate, che non sono una fatalità ma hanno chiaramente dei responsabili. Viareggio è uno di questi casi. Con il nostro lavoro volevamo risvegliare le coscienze senza fare appello all’ istinto da voyeur del dolore: le testimonianze raccolte sono molto toccanti, ma restano sempre misurate, perché non abbiamo forzato le persone che si aprivano con noi in nessun modo, né le abbiamo indirizzate a condividere i dettagli macabri o a svelarci il punto più oscuro del loro lutto.
-->Federico: C’è qualcosa che ti spinge ad affrontare un determinato tema, in questo caso molto doloroso. Il progetto è nato da un’ossessione, quella di Ilaria, che è della zona di Viareggio e da anni pensava di scrivere qualcosa della strage. Io mi sono avvicinato tramite lei e la frequentazione di quei luoghi. Il silenzio poi, soprattutto se confrontato al clamore riservato ad altri casi di cronaca, non faceva che amplificare assurdità e ingiustizia. Così come lo Stato che sceglieva di sfilarsi decidendo di non presentarsi come parte civile. Più ti approssimi a questa storia e più sembra che non se ne voglia parlare, è una cosa che di per sé – per mia indole – mi invita a volerlo fare, e visto che in qualche misura a queste persone era stata tolta la voce il modo più giusto per non trattarli come numeri, come dici tu, era proprio far parlare loro, dunque scegliere un impianto il più asciutto possibile in cui si prendessero vita le voci dei testimoni. Personalmente è stato un lavoro molto duro, a tutti i livelli, perché quando entri nelle case di chi ha sofferto e che è lì per raccontarti i momenti più dolorosi della sua vita non puoi che accogliere a tua volta quel dolore, e naturalmente è un’operazione emotivamente molto intensa, appena ti avvicini diventa immediatamente evidente che i morti non sono affatto solo numeri.
Parlando di questioni più stilistiche, come è nata la scelta di questa particolare mescolanza di inchiesta e narrativa?
Ilaria: Abbiamo ragionato a lungo su quale forma dovesse avere questo libro e alla fine abbiamo deciso che la cosa migliore era lasciare spazio a chi aveva vissuto quella notte, anche per restituire la voce che era stata loro sottratta dai mezzi di informazione. Come autori ci siamo eclissati il più possibile, a partire dalla raccolta delle testimonianze: accendevamo il registratore e lasciavamo che le persone si esprimessero liberamente, senza fare troppe domande, senza forzare il loro racconto in nessuna direzione prestabilita e il risultato è stato un fiume in piena di parole, soprattutto per i molti che per la prima volta avevano accettato di parlarne con qualcuno e si sono ritrovati a ricostruire anche per loro stessi una narrazione di quel trauma. Le storie emerse appaiono così come isole di un arcipelago che pagina dopo pagina si dispiega di fronte al lettore, connesse non solo attraverso quei legami inevitabili in una città piccola come Viareggio, ma in una ragnatela di coincidenze – a volte sfacciate, a volte sottese – che mostrano come il 29 giugno la linea tra i salvati e i sommersi sia stata un filo labilissimo, su cui tutti i viareggini, non solo i residenti di via Ponchielli, hanno camminato sospesi. La parte finale di inchiesta sui buchi nella sicurezza ferroviaria italiana ed europea serve a inquadrare la strage nel sistema che l’ha resa possibile: i tagli al personale, gli investimenti sulle linee dell’alta velocità a discapito delle altre, le mancanze di controlli sono i tasselli del puzzle che a Viareggio si sono ritrovati a combaciare perfettamente e hanno innescato l’esplosione.
Federico: Se si vuole classificarlo è un libro di non-fiction narrativa radicale; di inchiesta ci sono una quindicina di pagine in fondo e credo che la definizione di inchiesta sia impropria. Molti ci dicono che Viareggio stessa in questo modo finisce per essere come un personaggio del libro, e trovo che sia vero. Si respira un particolare tipo di umanità, di complicità quasi, tra le persone e le storie i cui archi si sono trovati a intrecciarsi quella terribile notte e sulle pagine di “I treni non esplodono”, e sono vicende che si rispondono, che producono echi, che risuonano come le ottave in un pianoforte, e questo non succede solo perché le persone in un posto piccolo come Viareggio si conoscono, capita anche perché emergono dei tratti tipici di un certo tipo di umanità, generosa, schiva, coriacea anche, che è caratteristica di quel luogo. Durante una presentazione a Roma Claudia Bena, una libraia, ha detto che leggere questo libro fa l’effetto di vedere una tragedia greca, in cui i personaggi entrano in scena uno alla volta e nel suo momento ciascuno viene investito dalla luce per tornare nell’oscurità appena ha finito di parlare. Non so se l’allestimento delle tragedie antiche fosse proprio sempre così ma l’immagine mi è piaciuta: di sicuro era nostra intenzione creare un legame intenso, quasi ipnotico, tra il lettore e le storie.
Come ha reagito la città davanti al relativo silenzio dell’opinione pubblica? Come si è storicizzata la strage?
Federico e Ilaria: Viareggio ha reagito con forza alla strage del 29 giugno, sono nate associazioni di familiari delle vittime e di semplici cittadini che si battono per chiedere giustizia e anche perché sia messa in sicurezza tutta la rete ferroviaria. A sette anni di distanza il lavoro quotidiano di queste associazioni è decisivo, senza il loro impegno forse non si sarebbe arrivati a questo punto. Per portare avanti il processo era necessario non accettare i risarcimenti (ovviamente qualcuno l’ha fatto a Viareggio, ma molti no, e proprio perché volevano ottenere giustizia a tutti i costi), e dubito che in una situazione di tale ostracismo qualunque città avrebbe reagito in questo modo, ci vuole una caparbietà fuori dal comune.
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