Serve a parlare, a capire, ascoltare e a scrivere: insomma, il silenzio serve a pensare. E c’è una lunga storia, filosofica e letteraria, che il silenzio lo descrive e lo loda. Eccola.
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di Andrea Cafarella
Il suono del Vuoto
«Cosa è il Silenzio?». Ho sempre avuto questa ossessione. Questa domanda si ripete ciclicamente come un mantra nella mia testa, tutti i giorni.
Spesso sono i quesiti apparentemente più semplici a nascondere enigmi che contengono misteri, e nuove domande ne sprigionano di altre in una matrioska escatologica senza fine, la cui risposta termina sempre con un punto interrogativo. E il punto interrogativo perenne, il paradosso inesplicabile scoraggia anche i cercatori più esperti. Tutti si sono interrogati sul silenzio, almeno una volta nella vita. Chiunque abbia lavorato con la parola si è dovuto necessariamente domandare cosa fosse il silenzio. Ed è a loro che mi sono rivolto. Trovando compagni e maestri.
Una risposta forse non esiste, oppure la risposta è la domanda stessa, oppure essa è inesprimibile in una forma diversa da quella del silenzio stesso. In questo sarebbe sicuramente d’accordo John Cage che ha fatto del Silenzio il centro e l’ombra della sua musica. Potremmo comprenderne le forme percepibili razionalmente leggendo un testo brillante e interessante come Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo di David Le Breton, in cui si possono cogliere diverse implicazioni sociologiche, spirituali e filosofiche di grande importanza che abbracciano tutte le culture nell’arco dell’intera Storia dell’umanità. Eppure il libro termina con una confessione di impossibilità, la necessità di assumersi il paradosso insito nel silenzio. Le Breton sigilla il libro con una «ouverture» introdotta dall’arcinota sentenza shakespeariana che pronuncia Amleto prima di morire: «Il resto è silenzio». Tutto il resto è silenzio. A questa segue una singola pagina, molto intima e toccante, in cui avviene la confessione palese di cui dicevo, chiosata da un delicatissimo «Ma il silenzio ha sempre l’ultima parola». Come a dire che per quanto se ne possa parlare, per quanto lo si possa analizzare, la parola – e quindi il pensiero – finisce sempre nel Silenzio – e quindi nel Vuoto, quel «the rest» amletico. Il Silenzio è il suono del Vuoto. Non esiste il Silenzio, non lo si può udire mai. In natura non esiste. Forse – e dico forse perché restiamo nel paradosso dell’inesprimibile – il Silenzio si trova esclusivamente dentro di noi. Dentro di noi possiamo crearlo, possiamo fare il Silenzio, il Perfetto Silenzio.
Di questo sembrano essere convinte le filosofie orientali. La grande tradizione del pensiero buddhista e taoista, e yogico in generale, oltre a diverse altre sparse nell’immenso continente asiatico. Il Perfetto Silenzio si incontra solo nel Vuoto Sacro della meditazione. «Perciò il Santo si attiene alla pratica del Non-agire e professa un insegnamento senza parole» dice il Tao tê ching. E cosa dire dell’ascolto richiesto dal Bardo Thödol, «il libro che conduce al salvamento solo che lo si ascolti»? È indispensabile la morte. Per ascoltarlo davvero bisogna giungere a un ascolto così profondo – e quindi silenzioso – da rendere necessaria la condizione dell’essere moribondi. Una predisposizione reciproca – del libro e del moribondo che ne ascolta le parole – che Ugo Leonzio indica come «Grande Ascolto». Per questo motivo il libro è conosciuto come Il libro tibetano dei morti; non è un libro per attraversare la morte terrena, è un libro per vivi e moribondi che cercano l’illuminazione, il salvamento. Per iniziare il cammino verso di esso, bisogna prima raggiungere il Perfetto Silenzio.
Persino il monaco Yongjia Xuanjue, «l’illuminato da un giorno all’altro», scriverà: «il mio discorso è silenzio, il mio silenzio è discorso». E il suo è sicuramente un discorso illuminato e illuminante, Il canto dell’illuminazione per essere precisi.
Tutta la filosofia orientale, dallo Zen giapponese al vedantismo tradizionale, fino agli insegnamenti dei Sufi del deserto, è imperniata del concetto di silenzio e di quello che nominiamo qui come Perfetto Silenzio. Anche la storia del pensiero occidentale, tuttavia e per fortuna, non è affatto esente dall’attraversare solitudine e silenzio come simboli ed esperienze sacre. Fin dal caro Plotino, in cui il concetto di hēsychía è centrale e allusivo della condizione necessaria per iniziare la ricerca di un invisibile e sterminato universo altro. Ovviamente bisogna tenere sempre a mente Socrate e la sua avversione per la parola scritta. Così come la Genesi biblica, in cui Dio crea innanzitutto il cielo e una terra informe e deserta, immersa nel buio e quindi, inevitabilmente, nel silenzio, prima ancora di dire la luce. Questo percorso sotterraneo del pensiero silente ha attraversato l’Occidente, dalle origini fino alla grande filosofia europea novecentesca – che certo potremmo ricondurre alle idee presocratiche. Ricordo, tra le tante espressioni di questa linea di sangue, di questa tradizione, a titolo esemplificativo, il famoso aforisma wittgeinsteiniano «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» che chiude – e contemporaneamente ri-apre – il suo monumentale Tractatus.
Si potrebbe citare Cioran come Heiddeger, Nietzsche, Beckett e molti, moltissimi altri. Questo però non è il mio intento (seppure mi rendo conto che sarebbe molto interessante provare a raccontare una Storia del Silenzio). Quanto ho intenzione di tentare è un’esplorazione sistemica del silenzio e dei silenzi fino a raggiungere ciò che ho cercato di identificare come Perfetto Silenzio – ovvero lo stato di coscienza che potrebbe permettere, in teoria ma solo tramite la pratica, di raggiungere l’illuminazione.
-->Per farlo mi avvarrò di due strumenti tra tutti quelli che potrei trovare e scegliere. Due testi straordinari e significativamente molto brevi che esplorano l’arte di tacere (ossia l’arte di esprimere il Perfetto Silenzio, l’arte di dire il Silenzio).
Il primo è un trattato dell’abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart, pubblicato a Parigi nel 1771 con il titolo L’art de se taire, principalement en matière de religion, tradotto semplicemente come L’arte di tacere, appunto. Un libro incredibilmente formativo che in pochissime pagine riesce a esprimere totalmente «l’antica lezione recuperata dalle arti del silenzio», nelle parole dei curatori. E mi sembra che anche nell’introduzione che presenta il testo si possa rintracciare quel paradosso di cui dicevo: «il silenzio tuttavia è un’essenza» vi è scritto (i corsivi sono miei), «l’arte di tacere è un’arte paradossale della parola. Non basta, per tacere, tenere la bocca chiusa. Il silenzio dell’uomo non è il mutismo dell’animale, perché il suo silenzio è espressione: l’uomo parla la lingua del volto». Sembrerebbe quasi un elogio della mimica: «che il vostro viso parli allora al posto della vostra lingua». È evidente, però, che non si tratta certo solo di mimica facciale; non basta chiudere la bocca e aggrottare la fronte, solo il Santo taoista, esclusivamente «Il saggio possiede un silenzio espressivo, che diventa una lezione per gli imprudenti e un castigo per i colpevoli». Scopriamo attraverso il linguaggio cattolico come anche nella tradizione occidentale il silenzio diventa espressione cruciale del linguaggio e di tutto il «resto», oltre il linguaggio, di cui dicevamo sopra. Innanzitutto, come fondamento della parola, rappresenta cioè l’arte della parola che emerge dal silenzio. Non in termini dicotomici, però. La parola non è l’opposto del silenzio. La parola – come la musica, il rumore, il silenzio stesso – tutto è immerso nel Silenzio e nel Vuoto. Nella Notte che precede la luce.

L’altro libro fondamentale, di cui utilizzerò le intuizioni per la mia esplorazione, è l’ultimo scritto di Giovanni Pozzi, Tacet. Un testo di grande profondità. Silenzioso e accogliente come il vuoto. La mente sacra di Pozzi illumina, attraverso la parola, il paradosso del silenzio, rivelando il Perfetto Silenzio tramite i silenzi giustapposti prima, dopo e tra le parole, grazie alle allusioni, le ombre e a un discreto tacere.
La complessità e la necessità del silenzio assoluto
Bisogna, a questo punto, un po’ come fanno le tribù Inuit nel nominare la neve, stabilire dei diversi gradi di silenzio. Proviamo a identificarne tre: il silenzio, il silenzio assoluto e il Perfetto Silenzio. Il silenzio è quello che sta tutt’attorno al discorso e al canto; il silenzio di quando semplicemente noi non esprimiamo dei suoni. Il silenzio assoluto è quello che si crea quando scegliamo di non generare alcun suono, quando tratteniamo la parola. Il Perfetto Silenzio è un silenzio spirituale che creiamo dentro di noi.
Anche Giovanni Pozzi definisce tre categorie «di silenzio collegate alla parola: di chi la formula, di chi l’ascolta, di chi la conserva» che corrisponderebbero ai tre silenzi poc’anzi individuati ma che qui vogliamo ritorcere nel tentativo – paradossale – di esprimere il silenzio in sé stesso e non in relazione al linguaggio. Con la contraddizione evidente, derivata dall’oggetto paradossale di cui parliamo, che si debba necessariamente utilizzare il linguaggio come mezzo, lasciando quindi al lettore delle direzioni verso le quali ascoltare, che restano inesprimibili e si possono udire lontane solo sporgendosi in cerca del «resto», in cerca del Vuoto.
L’abate Dinouart ci dice che «esiste un silenzio prudente e un silenzio artificioso. Un silenzio compiacente e un silenzio canzonatorio. Un silenzio spirituale e un silenzio stupido. Un silenzio di plauso e un silenzio sprezzante. Un silenzio politico. Un silenzio dell’umore e un silenzio del capriccio» analizzando, di ognuno di questi silenzi, gli aspetti più significativi nel particolare, con grande perizia. Questo ci può dare la misura della complessità del silenzio, la caratteristica misterica che lo conforma in scatole che contengono altre scatole piene – e vuote – delle domande che mi ossessionano e che hanno interrogato tutti noi da sempre.
Reputo essenziale, urgente e necessario tornare sempre al silenzio. Così da dare, innanzitutto, una vera importanza alle parole. «Quando si deve dire una cosa importante, bisogna stare particolarmente attenti: è buona precauzione dirla prima a se stessi, e poi ancora ripetersela, per non doversi pentire quando non si potrà più impedire che si propaghi» suggerisce Dinouart. Per questo motivo il ritorno perenne al silenzio mi pare davvero inderogabile. Penso che da queste ingiunzioni bisognerebbe ripartire in cerca della via. La vera via kafkiana, la più paradossale.
«Viviamo in un’epoca in cui il silenzio è stato bandito» scrive Giovanni Pozzi, seguito da centinaia di pensatori in coro. Urge imparare a fare il Perfetto Silenzio. Riprendere la tradizione per ricordarci il significato del «tacere». Anche etimologicamente «tacere» non è semplicemente «fare silenzio», o «non dire niente». Significa «non parlare quando si potrebbe o dovrebbe parlare». In qualche modo è simile al trattenersi. Trattenersi dal parlare. «Non esprimere» e quindi, paradossalmente, esprimere così il Perfetto Silenzio; Tacere significa Non-parlare, non vuol dire esclusivamente «non parlare». Equivale al Non-agire nel e col linguaggio. Ovvero: agire senza agire – parlare senza parlare. «Bisogna trovare entro la solitudine gli spazi dove coltivare questi silenzi, scoprire come possano vivere con un interlocutore che parli tacendo».
Fare il Perfetto Silenzio
«È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio» così inizia il breve ed essenziale trattato dell’abate Dinouart. Un invito che ripeto e mi ripeto costantemente. Sembra un po’ uno di quei classici modi di dire: «conta fino a dieci prima di dire una cosa» oppure «non parlare di quello che non sai». Mi pare assolutamente giusto e condivisibile ma nasconde un significato ancor più profondo. L’ostacolo è significativo. Lo spazio che si crea in quei dieci secondi è un’esplorazione del pensiero feconda. «Non parlare di quello che non sai» nasconde un «ancora» tra «qualcosa che» e «non sai». Significa che cominci a sapere quello che non sai. Sai dove guardare, sai che esiste. E questo è uno spazio enorme.
Basti provare ad applicarlo alla scrittura, l’arte di usare le parole.
L’abate scrive: «È bene trattenere la penna, se non si ha da scrivere qualcosa che valga più del silenzio». Somiglia vagamente a una di quelle frasi fatte degli editor americani: «qui hai scritto troppo» – se vogliamo semplificare l’espressione senza evitare l’allusione a quanti libri non esisterebbero se usassimo questo concetto come precetto del mestiere di scrivere. Ed è vero: bisognerebbe Non-scrivere. E Non-scrivere non è l’equivalente di «non scrivere» ma sicuramente ha qualcosa a che fare con quel «non scrivere troppo», non scrivere inutilmente, non scrivere qualcosa che non abbia davvero un senso profondo.
«Per scrivere sono necessari sangue freddo e presenza di spirito, che vengono a mancare quando ci si espone troppo» continua Dinouart; «mille cose che bisognerebbe trattenere sfuggono, e i lettori se ne accorgono». Questo «i lettori se ne accorgono» mi ha sempre colpito. Mi sembra così contemporaneo che non mi sorprenderebbe ricevere la stessa frase, appunto, da qualcuno che stia lavorando con me a un testo. Di cosa si accorgono i lettori? Mi viene da rispondere: dell’assenza di Vuoto, ma non credo che ci sia una sola risposta. Probabilmente non c’è alcuna risposta.
«Si deve, dunque, fare la massima attenzione, per non scrivere niente che non sia prima stato saggiamente meditato». Sicuramente bisogna meditarne la validità, il valore – la quantità di Vuoto, verrebbe da dire, di quello spazio generato dalla tensione verso la Verità. Quella dell’abate però è una ragione perlopiù pratica: bisogna stare molto attenti a quello che si scrive e a quanto invece resta taciuto, poiché «si è padroni dei propri pensieri solo fino a quando non si scrivono e si affidano ai lettori».
Si deve quindi innanzitutto fare silenzio, trattenersi, non-agire per trovare uno spazio dal quale sia possibile imboccare la via e fare i primi passi. Il secondo di questi passi è un ascolto sincero e meditante che sta prima del gesto ma è parte del gesto, è il silenzio interno alla musica, quello tra le note. Se prima di iniziare il discorso bisogna «fare il silenzio», tra le sue parole bisogna creare uno spazio vuoto che possa far fruttare l’assenza di suono e di parola.
Ascoltare il Perfetto Silenzio
La condizione di silenzio assoluto è quella che più mi interessa. È la dimensione dello studio, della scoperta, dell’attesa. Ed «è proprio nel momento del silenzio e dello studio che bisogna prepararsi a scrivere». È il momento in cui si elabora un pensiero, in cui si coglie un’intuizione, si capisce qualcosa, si esplora il Vuoto.
«I libri prematuri sono come la frutta acerba. Allora perché tanta fretta? Perché precipitarsi, spinti dal desiderio di pubblicare? Aspettate, quando avrete imparato a tacere e a riflettere, sarete pronti per scrivere» ci ingiunge ancora Dinouart. Poiché questo tempo dell’attesa corrisponde alla parola, la crea. È proprio lì che si crea la parola, prima di essere detta o scritta. Nel Non-agire, nel fare silenzio nasce l’ascolto vero, l’humus vitale del verbo sacro. «Per ascoltare occorre tacere» ci ricorda Pozzi, e specifica con precisione, «non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto)», ovvero il silenzio di cui dicevamo nel paragrafo precedente, ma bisogna cercare un silenzio assoluto, «un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui» (corsivo mio).
Il silenzio assoluto è il silenzio dell’ascolto. Non è ancora il Vuoto ma è in cerca dell’altro, è sempre pronto a imparare. Ed è anche l’unico modo per iniziare a percepire il Perfetto Silenzio che si trova dentro le parole, nei suoni. «Nulla come l’ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. È l’analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi». Ascoltare significa vedere l’altro, comprenderlo e così comprendere una parte di noi. «L’apice del silenzio di ascolto si ha quando la parola stessa si presenta silenziosa senza perdere alcunché della sua vitalità: nella lettura». Nella lettura della parola silenziosa sulla carta Pozzi vede l’apice dell’arte dell’ascolto. Dove il concetto di «lettura» andrebbe esteso – a mio parere – alla lettura di opere d’arte visiva, della musica, persino dei paesaggi. Del proprio Sé. I linguaggi hanno infinite forme e parlano in molti modi diversi.
Esplorare la condizione del silenzio, in sostanza, stare nel silenzio assoluto vuol dire prepararsi a ricevere e imparare a ricevere. Fidarsi e affidarsi. Vuol dire credere agli altri per credere a noi stessi. Scegliere di ascoltare equivale al trattenersi dal parlare.

Dire il Perfetto Silenzio
«Esiste un momento per tacere, così come esiste un momento per parlare». Dopo quanto detto, risulta strano notare che già il secondo precetto dell’abate Dinouart ci induce alla Parola. Come sappiamo – adesso – la parola non è tuttavia una qualsiasi parola, è la Parola Unica, parlare non è semplicemente parlare ma «parlare rettamente» ovvero «non-parlare». Difatti il precetto successivo ce lo ricorda con solerzia: «nell’ordine, il momento di tacere deve venire sempre prima: solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente».
Solo dopo che abbiamo imparato ad ascoltare, a leggere – nelle differenti forme cui alludevo sopra – possiamo davvero metterci a parlare, a scrivere rettamente, a non-scrivere.
Effettivamente, «sarebbe irragionevole disapprovare il fatto che un uomo d’ingegno scriva», continua Dinouart, «ma deve aspettare il momento giusto per farlo» solo dopo aver esperito il silenzio assoluto fino all’ultima goccia: «vale a dire: quando avrà una buona base di erudizione; quando conoscerà a fondo la materia prescelta; quando, dovendosi dedicare all’istruzione degli altri, si sarà ben istruito». Restiamo ancora in un ambito puramente razionale, è semplice: bisogna studiare per poter scrivere di qualcosa, conoscere quanto si sta scrivendo, poiché scrivere, come parlare – rettamente –, equivale a insegnare. Siamo tutti maestri e allievi, anche solo di noi stessi. E quando diciamo o scriviamo qualcosa stiamo, a tutti gli effetti, insegnando – nel suo significato etimologico di «mostrare», «indicare», «palesare». Ossia: «rivelare».
«Bisogna scrivere quando l’anima si trova nella situazione propizia» aggiunge Dinouart. E capiamo subito quanto possa essere difficile raggiungere questa condizione, quella del Perfetto Silenzio, la dimensione da cui è possibile parlare e scrivere rettamente. Possiamo scrivere solo quando il nostro ascoltare ha riempito il nostro silenzio abbastanza perché la nostra erudizione sulla materia prescelta abbia una buona base – fin qui è chiaro e semplice, ma continua –, e la nostra anima si trovi «nella situazione propizia». Cosa significa esattamente? «Morta nel silenzio dell’ascolto, la parola rigermoglia nel silenzio fervido che l’avvolge. Assimilata e ricreata attraverso la meditazione, si delinea come un essere nuovo». Significa che per avere il diritto di scrivere, bisognerebbe raggiungere un silenzio di morte «fervido che l’avvolge», avvolge la parola altrui ormai interiorizzata e meditata, e rinata attraverso la nostra morte, «assimilata e ricreata attraverso la meditazione». Questo significherebbe parlare e scrivere rettamente. Stare nel silenzio assoluto in cui è possibile «leggere» davvero e lì attendere, seguitando a leggere, finché quelle letture non saranno germogliate in parole che a quel punto, e solo a quel punto, è possibile scrivere o dire, mostrare, rivelare, insegnare rettamente.
Lettura e scrittura fanno parte dello stesso gesto, non sono opposte, l’una germoglia nell’altra, «la scrittura si depone nel silenzio quanto la lettura, ma con moto inverso: l’una attinge dall’alfabeto il senso e lo affonda nello spirito; l’altra ve lo estrae e lo effonde sulla pagina tracciandone il sentiero. È un cammino silenzioso». È una via crucis del silenzio, poiché bisogna morire per risorgere nell’illuminazione. È un cammino che porta all’incontro con il vero Sé, espresso nell’illuminazione; il vero incontro. Tacere – ovvero ascoltare e leggere, parlare e scrivere o più in generale esprimersi rettamente –, in fondo, è l’arte d’incontrarsi davvero. Poco importa se nella solitudine o nell’incontro con l’altro, è sempre con noi stessi che avviene l’incontro.
Tacere: l’arte del Perfetto Silenzio
Abbiamo individuato tre gradi, tre fasi di silenzio da percorrere fino ad arrivare al Perfetto Silenzio. Potremmo dire però che Tacere corrisponda a un unico grande gesto che sta prima, durante e dopo la sacra attività dell’ascoltare e del parlare correttamente, della Scrittura e della Lettura. Nel silenzio si esprime il significato dell’incontro che è il fine ultimo di queste azioni e del Tacere stesso. Incontrarsi, nel suo senso più alto, è l’espressione più profonda e complessa del silenzio. È il Perfetto Silenzio.
C’è, nell’elenco dei tipi di silenzio composto dall’abate Dinouart, uno dei silenzi più interessanti ed è pregno del discorso che stiamo portando avanti: il «silenzio spirituale» che l’abate contrappone al «silenzio stupido». Mi sembra che questa condizione dell’anima, dello spirito, appunto, descriva esattamente quello stato dell’essere che abbiamo provato a delineare parlando del Perfetto Silenzio. «Si ha silenzio spirituale quando si scopre sul viso di una persona che non dice nulla, quell’aria aperta, gradevole, vivace, dalla quale traspaiono, senza l’aiuto delle parole, i sentimenti che si vogliono far conoscere» (corsivo mio), il silenzio spirituale è appunto quel silenzio che ascolta profondamente l’altro, fino a cogliere quanto egli esprime nel suo silenzio, mentre «non dice nulla». E risulterà ormai chiaro e consequenziale che «vi è silenzio spirituale soltanto in presenza di passioni vive, che producono effetti sensibili all’esterno e si manifestano sul viso di coloro che ne sono animati. Così si vede che la gioia, l’amore, la collera e la speranza provocano una maggiore impressione accompagnati dal silenzio piuttosto che da discorsi inutili, capaci soltanto di indebolirli». Nel silenzio spirituale impariamo a cogliere le emozioni, quelle che l’abate chiama «passioni vive», solo se espresse mediante il silenzio. Il Perfetto Silenzio sarebbe quindi l’incontro di due silenzi assoluti. Lo si raggiunge per tramite della pratica e dell’arte di saper incontrare il silenzio dell’altro nel nostro silenzio. Esso deve necessariamente essere preceduto da uno svuotarsi del Sé, per potere accogliere l’altro e viceversa, contemporaneamente, esprimere ciò che vogliamo affidare, poiché l’altro lo accolga, attraverso il nostro silenzio. In un circolare donarsi che ricorda emotivamente quello di Marcel Mauss, per la sua importanza urgente e radicale.
«La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio. Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocata al centro dell’uomo: il cuore che mai non dorme, vigile nell’ascolto, metafora assoluta dell’abitacolo e metonimia dell’intera persona umana». La solitudine diventa allora un luogo dal quale accogliere, da raggiungere proprio perché bisogna incontrare l’altro, e questa condizione primordiale di solitudine è l’unica dalla quale è possibile aspirare all’incontro dei silenzi e delle solitudini stesse. La cella diventa allora «abitacolo» in un senso accogliente e ospitale, si fa «cuore che mai non dorme», non è annichilimento – come erroneamente si riduce la filosofia nietzschiana nella limitata nozione scolastica del nichilismo. È la sensibilità superumana di Nietzsche, quell’essere «vigili all’ascolto» che ci farebbe sentire e comprendere pienamente la sofferenza di qualsiasi altro essere, persino di un cavallo incontrato per strada. Quella sensibilità che porta il mondo a offrirsi e torcersi davanti a noi mostrandosi nella sua verità più sconvolgente. È l’illuminazione della filosofia tibetana. Il Perfetto Silenzio è l’arte di svelare e ri-velare la Verità.
La Verità però non esiste: è un paradosso inesprimibile. Così la stanza del silenzio è «il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace». Vale a dire che senza il mondo, senza l’altro, senza le espressioni dei silenzi e delle solitudini altrui – libri, immagini, parole – senza un altro silenzio che possa incontrare il nostro silenzio, non è possibile raggiungere l’illuminazione. Per questo bisogna parlare, cercare l’incontro con l’altro, insegnare. Insegnare per imparare. Condividere. Finalmente smascherarsi, svelarsi e rivelarsi davanti al mondo nella nostra insensatezza, scoprire il nostro senso nell’assenza e così svuotarsi, restare nel silenzio e nella solitudine finché il Vuoto, estasiato ed estasiante, non si sarà palesato, per tramite del Perfetto Silenzio
C’est le silence et ce n’est pas le silence
Samuel Beckett
Glossario minimo del Silenzio
Silenzio
Il silenzio di quando semplicemente noi non esprimiamo dei suoni.
Silenzio assoluto
Quando scegliamo di non generare alcun suono, quando tratteniamo la parola.
Perfetto Silenzio («Grande Ascolto»)
È un silenzio spirituale che creiamo dentro di noi.
Vuoto (Sacro)
«Il resto» amletico o «ciò» di cui, per Wittgeinstein, non possiamo parlare, ciò che «si deve tacere».
Bibliografia minima sull’arte di Tacere
Abate Dinouart, L’arte di tacere (Sellerio, 1989; Elliot, 2013)
Giovanni Pozzi, Tacet (Adelphi, 2002)
Cage, J., Silenzio (Shake, 2010; il Saggiatore, 2019)
Le Breton, D., Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo (Raffaello Cortina Editore, 2018)
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