Tutti i dilemmi, ancora aperti, dell’atomica



Oppenheimer, il film, ce lo ha ricordato: i dilemmi etici, morali e scientifici attorno allo sviluppo della bomba atomica sono enormi. Facciamo chiarezza con una conversazione tra Francesco D’Isa, artista e filosofo, e Ignazio Licata, fisico teorico, saggista ed epistemologo. 


In copertina “amanti sulla spiaggia”, di Fausto maria liberatore, oggi all’asta da pananti casa d’aste

di Francesco D’Isa

 

Francesco D’Isa: Il successo dell’Oppenheimer di Nolan è una buona occasione per tornare a discutere del nucleare. Potremmo iniziare ad esempio dalle reazioni interne a Los Alamos…

Ignazio Licata: Si tratta di un periodo davvero complesso e molto difficile sintetizzare qui (ammesso che io sia la persona giusta). Quello che posso dire è che il movimento contrario all’uso della bomba, che inizia con Leo Szilard (un po’ paradossalmente l’uomo che scrisse la lettera al Presidente Roosevelt per sollecitare un progetto nucleare che avrebbe dovuto opporsi a quello nazista, poi firmata da Einstein, ebbe un certo sviluppo, toccando anche ampi strati della società civile (pensiamo al movimento Pugwash di Russell), senza avere mai un impatto davvero decisivo. Altri furono più pragmatici. Ad esempio, ho avuto modo di sentire dalla bocca di Emilio Segre la storia dell’uomo che lo riconobbe per strada e andò a stringergli la mano ringraziandolo perché senza la bomba suo figlio sarebbe morto nel Pacifico (il cinema ci ricorda anche quest’aspetto della guerra con “La sottile linea rossa” di T. Malick). Tra i pragmatici prevalevano due considerazioni. Una, tuttora valida, riguarda la posizione subalterna degli scienziati rispetto alla politica; l’altra ha a che fare con un principio generale della conoscenza scientifica, che è acquisizione collettiva: una volta che un’idea è nell’aria, qualcuno la realizzerà.

Uscito dalla bottiglia, il demone non ci rientra spontaneamente, anzi si mostra più forte di ogni possibile tentativo di contenimento. Potremmo chiamarlo “effetto Pandora”, ma vale per ogni tipo di innovazione, dall’aeroplano, a partire dalla ali di Leonardo per arrivare, dal telaio di Jacquard, al computer. Ed è qualcosa che accade normalmente nella ricerca scientifica: gli articoli che arrivano alla pubblicazione generano risultati, a volte anche molto lontani dalle intenzioni degli autori del primo lavoro. Nel caso del nucleare, nessuna moratoria ha mai eliminato del tutto il pericolo, se non in periodi in cui la moratoria coincideva con lo scenario politico (caduta del muro). Ma torniamo alla bomba nazista. Questa storia è anche piena di aspetti paradossali. Nel famoso incontro tra Bohr e Heisenberg, Heisenberg fece il possibile per far capire a Bohr che i tedeschi erano lontanissimi da poter realizzare una bomba a fissione, ma Bohr non lo capì. Il film di Nolan rende Bohr un po’ più sveglio. In ogni caso, la bomba era già il demone che non voleva rientrare nella bottiglia, neppure nella forma di una esplosione puramente dimostrativa e senza vittime. Non esistono mosse virtuali efficaci nella teoria dei giochi, e i politici guardavano già al dopoguerra. Il nemico non era più Hitler, il Giappone lo divenne soltanto momentaneamente, come rimpiazzo, ma si delineava esattamente negli “alleati” sovietici, che per il principio della superiorità autopoietica del demone creativo avrebbero avuto la bomba anche senza i vari Fuchs, ma grazie a fisici straordinari come A. Sacharov. Oppenheimer fu l’uomo che firmò Trinity, ma il suo ruolo come responsabile è naturalmente una narrazione sbagliata e innescata dalla mitologia del martire nel dopoguerra. Come fisico sapeva che la bomba non poteva non esistere; come poeta (il film di Nolan è bello anche per quello che non mostra o mostra soltanto indirettamente da una prospettiva obliqua) avrebbe voluto che il demone si dimostrasse soltanto uno spauracchio in grado di fermare ogni possibile guerra futura. Accettò Hiroshima, dunque le decisioni politiche e militari, pensandolo come l’ultimo sacrificio. Dichiarò davanti a Truman che si sentiva “le mani sporche di sangue”, al che il Presidente gli porse ironicamente il fazzoletto, gesto che ribadisce che non era stata mai sua la responsabilità della bomba e del suo uso. Come uomo cercò di frenare lo sviluppo degli armamenti atomici, accettando un “processo” farsa il cui esito era già scritto. I suoi scritti, bellissimi e precocemente invecchiati, prospettano la possibilità di una saggezza nucleare (controllo degli armamenti, patti bilaterali, un diverso ruolo dell’ONU) parole molto simili a quelle di Russell, nobili e inascoltate. Sia Oppenheimer che F.Dyson e R. Feynman riconobbero che il vero peccato dei fisici non consistette tanto nel realizzare la bomba, quanto nell’essersi appassionati nel farla. Gli enormi problemi teorici e tecnologici affrontati li isolarono in una bolla di ricerca febbrile, fin quando arrivò la notizia della capitolazione della Germania, che li riportò bruscamente al presente e all’urgenza militare di un (nuovo) obiettivo. Ancora oggi Los Alamos è un laboratorio interdisciplinare ed è rimasto il modello della Big Science (grossi progetti, problemi, finanziamenti, risorse…). Va detto che se ci fu un Prometeo fu Fermi, che realizzò fissione e reazione a catena, e che non disse mai nulla dopo. Bisognerebbe prendere dalla mitologia un nome diverso per Oppenheimer. Molte domande sulla sua natura complessa resteranno aperte. In fondo, le domande nascono da chi le pone, e chi le pone spesso ha anche una predilezione per una risposta. 

FD: Parli di un principio generale della conoscenza scientifica, che “una volta che un’idea è nell’aria, qualcuno la realizzerà”. È forse l’unico argomento che trovo avere qualche valore per giustificare lo sforzo intellettuale nella creazione di un abominio come la bomba atomica. È infatti anche l’unico argomento che usa Oppenheimer nel film di Nolan per persuadere i colleghi, “altrimenti la farà Hitler”; sebbene perda mordente quando con la sconfitta nazista resta soltanto un Giappone stremato. Mi rifaccio al film e non alla storia perché mi interessa più che altro lo sguardo di noi contemporanei sul dilemma, in questo caso quello degli americani, per bocca dei loro studi cinematografici. Nel film alcuni uomini politici per risolvere i (non molti) dubbi etici del fisico usano ragionamenti che ricordano l’esperimento mentale del “trolley problem”. Ad esempio, “riporteremo a casa i nostri ragazzi”, dove si dà per scontato che una vita americana vale più (quante di più?) di una giapponese; o “i giapponesi non si arrenderanno, morirebbero più persone”, che è un tentativo di riportare la questione sull’etica utilitarista, che basa la sua saggezza sull’idea di minimizzare il danno, sebbene in questo caso a partire da una statistica inventata. È lo stesso limite del Trolley problem nella sua variante dell’ “omone”: “Un tram è fuori controllo e sta per uccidere cinque persone legate ai binari. Tu sei su un ponte sopra il tram con un uomo corpulento accanto a te. Se lo spingi sul binario, la sua mole fermerà il tram, ma lui morirà. Salverai cinque persone sacrificando una. Cosa faresti?” Nell’esperimento si dà per scontato che gettare l’uomo sia uno stratagemma funzionante e che nulla andrà storto, un po’ come i giapponesi che “non si sarebbero sicuramente arresi”. In un contesto geopolitico in cui non c’è accordo tra attori è però difficile immaginare che se sviluppare una tecnologia può dare un vantaggio questa non venga fatta perché è pericolosa. Accade qualcosa di analogo con le AI, che ovviamente sono ben più benigne e utili della bomba atomica: davvero pensiamo che se restringiamo l’accesso ai dati per addestrarle lo faranno tutti i paesi? Ironia della sorte, proprio il Giappone ha già deciso di non farlo. La storia della bomba comunque ha molti lati oscuri che il film ignora, al di là del suo primo (e al momento ultimo) impiego militare. Ad esempio la risposta mai data alla domanda “da dove viene tutto quell’uranio”: da condizioni di semi-schiavitù in Congo. Il film è abbastanza generoso con le enormi problematiche etiche e mi pare che l’unica saggezza sinora dimostrata dagli umani non sia rifiutarsi di costruire oggetti che non dovrebbero esistere perché altrimenti lo fanno altri, ma nel tabù relativo al loro effettivo utilizzo. Anch’esso legato ai rapporti di forza e a equilibri di danni/benefici, che per fortuna al momento funzionano come deterrenti.

IL: la tua riflessione etica è un vero e proprio innesco di temi che vanno oltre la bomba. Riprendiamo dal nucleare. Siamo in una nuova fase in cui la deterrenza come la si è concepita fino a ieri non è più valida, e la riflessione dell’IA Joshua, in Wargames (1983): “Strano gioco. L’unica mossa vincente è non giocare. Che ne dice di una bella partita a scacchi?” oggi non è l’unica conclusione necessaria. La deterrenza del dopoguerra era basata su una situazione tipica della teoria dei giochi, due giocatori e somma zero con mutua distruzione assicurata. Adesso il numero di giocatori è fortemente variabile, e le motivazioni non sono così “razionali” come quelle di USA e URSS. Siamo in pieno “out of joint”. Infine, ci sono le armi nucleari tattiche la cui esistenza è garantita, in un certo senso, proprio dalla necessità di stare ben al di sotto della mutua distruzione. E credo di poter dire che anche la chiarezza classica del concetto di “vittoria” è stato sostituito da un gran numero di altri obiettivi. Siamo passati dagli scacchi nucleari al poker ed oggi la situazione è più simile a quella della roulette. Una situazione non meno tragica si delinea sulle questioni del clima e dell’ecosostenibilità. Nel mio “Arcipelago” (Nutrimenti, 2023) individuo una striscia sottile di possibilità di uscire dalla crisi dell’antropocene, ma in questo caso l’omone del tuo esempio è il nostro stile di vita inteso in senso globale. Come mi hai fatto notare una volta, neppure io mi sentirei di scommettere sulle capacità di cambiamento del capitalismo. Potrebbe avvenire davanti alla possibilità di vantaggi economici effettivi in un clima culturalmente favorevole, ma quanto tempo ci resta? Che tipo di istituzioni possono contribuire davvero ad un cambiamento di rotta?

FD: Hai ragione nel delineare uno scenario nuovo rispetto alla vecchia guerra fredda, tutto sommato più preoccupante. Il diavolo si nasconde nelle parole: “armi nucleari tattiche” è un’espressione che mi ha sempre incuriosito. L’ho sentita la prima volta nelle minacce di Putin all’Ucraina. In che senso “tattiche”? Sembra che si intenda “abbastanza grandi da piegare il nemico ma non così tanto da innescare una reazione dalle altre potenze nucleari”. È un gioco a dir poco rischioso. Intanto, quanto devono essere “piccole”? Tipo Hiroshima? Alla fine rispetto a quelle odierne le bombe dell’epoca – a oggi le uniche esplose contro obiettivi militari – possiamo tranquillamente definirle piccole. Dunque il gioco è che io faccio esplodere una “piccola” bomba, che per quanto la definisca tattica fa una strage orrenda, ma nessuno me ne tira un’altra perché poi si scatenerebbe davvero la mutua distruzione e magari me la cavo con delle sanzioni o cose così. Non sono un esperto di geopolitica per poter valutare la plausibilità o efficacia di quello scenario, ma conosco abbastanza la psicologia umana per sapere che per far sembrare accettabile un orrore bisogna passare da orrori graduali sempre più grandi… l’esempio più clamoroso è l’antisemitismo nazista. Le istituzioni a livello mondiale possono ostacolare un orrore improvviso, ma sono in grado di arrestare un climax infernale? E, per tornare a noi, ormai le bombe esistono, ma qual è la responsabilità dei ricercatori?

IL: Vedo che il tuo livello d’indignazione, man mano che procediamo, si avvicina pericolosamente a una soglia critica. E ti capisco. Nel mio caso può sembrare diverso perché con alcune di queste cose ci convivo da anni. Nel mio lungo periodo americano ho passato alcuni mesi presso Il Lawrence Livermore Lab, un polemico figlio di Los Alamos nato nel 1952 sotto l’egida di E. Teller. Durante un pranzo conobbi Spyros, che si presentò come designer di bombe.

A quel tempo- la fine degli anni 80 – le “mini” erano in pieno sviluppo. L’idea era di poter contenere un’arma nucleare in una valigetta, e in effetti possono essere straordinariamente piccole. Oppenheimer e altri erano convinti che la bomba atomica a fissione era qualcosa di così complicato, macchinoso e distruttivo da poter mettere fine a tutte le guerre. Questa convinzione l’aveva anche Teller, a patto che la bomba fosse a fusione. Le armi nucleari tattiche rispondono a un principio diverso: sono fatte per colpire un bersaglio specifico in un’area limitata (una caserma, un ponte, un’installazione petrolifera, etc.) , trasportate da truppe terrestri. Per darti un’idea una tattica ha un raggio d’azione massimo di 500 km e il potenziale distruttivo è intorno a 50 Km, con un fallout di 3000 km2. Il raggio d’azione di una bomba nucleare “tradizionale” può arrivare ad 8000 Km ed il fallout a 40.000 Km2. Le “mini” colpiscono siti, le maxi il cuore di una nazione. E obbediscono a un nuovo principio che potremmo chiamare “reciproca distruzione controllata”. Gli incidenti nucleari come Chernobyl e Fukushima ci hanno insegnato come contenere le “zone” (per dirla con lo stalker degli Strugatsky) per riprendere una sorta di normalità all’esterno, e le mini sono assai meno pericolose di un disastro nucleare. Ricordiamoci poi che una moratoria nucleare, a parte non essere mai rispettata come patto tra potenziali avversari, oggi dovrebbe estendersi ad un gran numero di armi che usano proiettili all’uranio. Dal punto di vista tecnico, quindi, una guerra nucleare è sempre possibile.

Ma veniamo al cuore della tua domanda: cosa possono fare gli scienziati? Nei Grundrisse Marx osserva acutamente che inizia un legame organico tra potere e saperi tecnici. Non c’è più spazio per l’inventore occasionale e l’innovazione fortuita, la tecnocrazia è un sistema unico. Questa è una delle previsioni più felici del pensiero marxiano, e il nostro tempo lo conferma in modo così evidente da passare quasi inosservato, uno dei tanti postulati cui ci siamo abituati. La scienza è un’attività collettiva impensabile senza risorse adeguate che provengono dalle istituzioni e dal mercato. Lo scienziato oggi fa parte anche di una narrazione che lo vede (e lo vuole) come una versione 2.0 del filosofo, con un codazzo di verità indefettibili. Un martire perenne della conoscenza, un folle sufi armato di equazioni, chip e provette, ma un risultato della struttura sistemica economia-scienza è che, a dispetto della sua immagine pubblica o di pochi casi eclatanti, lo scienziato è del tutto incapace di opposizione, è l’ultimo operaio. Oggi il fazzoletto del Presidente viene sfoggiato provocatoriamente non in faccia ad un uomo, ma all’intera comunità scientifica (che, va detto, oggi è assai meno autorevole di quella di Los Alamos, come qualità e densità di risultati, benché enormemente più numerosa rispetto a quegli anni). La risposta forse è nello scienziato come uomo assieme ad altri uomini, nuove moltitudini in grado di influenzare il potere suggerendo un modo diverso di usare le tecnologie, costruendo una barriera in grado di creare una contromossa politica. 

FD: Quel che dici sulla “mini” conferma i miei timori, anzi, mi stupisce che siano queste le mini, se non sbaglio 50 km di potenziale distruttivo è tipo tutta Roma… comunque quel che dici sugli scienziati è molto vero e interessante. È proprio da te che ho letto questa citazione di Oppenheimer: “Che cos’è che mi preoccupa in modo speciale? […] Per dirla con estrema e brutale semplicità, il punto fondamentale è che lo scienziato, nella società odierna, non ha più posto di quanto ne abbiano l’artista o il filosofo” – a cui aggiungo che anche l’artista e il filosofo ne hanno troppo poco. Gli scienziati/e sono diventati degli operai della conoscenza, privi di una vera influenza politica e talvolta anche intellettuale sulle loro scoperte. Nella nostra epoca tutto ha subito il processo dell’industrializzazione, anche la scienza, che è affidata a persone dalle competenze sempre più settoriali, prive di una visione di insieme, inconsapevoli del processo collettivo di cui fanno parte – hai citato Marx, e possiamo ben dire: alienate. Da un certo punto di vista è necessario, perché la disciplina ha raggiunto un tale livello di complessità che sarebbe impensabile abbracciarla interamente. Ma molto è anche l’effetto dell’industrializzazione e della conseguente burocratizzazione del sapere i cui effetti nefasti ha descritto bene Hannah Arendt. Questa struttura non si limita a rendere possibili degli orrori etici, ma impoverisce anche la ricerca.

Il problema ovviamente non è che il processo creativo sia collettivo, anzi, nella scienza come nell’arte è un arricchimento, peraltro sempre più strangolato da brevetti e diritti d’autore. Si tratta del modo in cui si organizza questo sforzo collettivo, la sua industrializzazione, che impedisce la transdisciplinarietà e la visione di insieme che arricchiscono qualunque impresa conoscitiva. Mi ricorda il celebre “Shut up and calculate!” legato all’interpretazione di Copenaghen della teoria dei quanti: chi fa scienza deve restare al suo posto, nel tassello operativo attribuitogli nella catena di montaggio. Intendiamoci, la figura dello scienziato tuttologo che usa la propria autorità per esprimersi in ambiti che ignora è ancora più odiosa, ma credo sia necessario un po’ di respiro interdisciplinare per riuscire a fare qualche scoperta innovativa… e magari evitare queste tragedie etiche. Tu che ne pensi?

IL: Una frase come quella di Bohr è ricorrente nella scienza, ed è sempre salutare. Ad esempio, agli inizi del calcolo infinitesimale, quando i concetti non erano ben definiti e sembravano piuttosto contenere qualcosa di paradossale, D’Alembert incitava le truppe matematiche dicendo Allez de l’avant, la foi viendra ensuite” e ancora “Le calcul porte sa preuve avec soi”. Si tratta di situazioni storiche in cui si apre alla ricerca un nuovo orizzonte, ma non si capisce ancora bene il senso del nuovo campo, o come si ricollega alle conoscenze già storicizzate. L’esperienza insegna che in questi casi proseguire il lavoro senza indugiare troppo in interpretazioni è la via più feconda, perché a volte è proprio l’accumulo dei vari tasselli che suggerisce la forma del puzzle. Ad esempio nel caso della Meccanica Quantistica “andare avanti” ci ha portato verso la fisica atomica, nucleare, molecolare, la superconduttività e oggi la gravità quantistica, mentre il dibattito fondazionale prosegue su alcune riviste e sembra fermo al 1927. Quasi tutte queste “interpretazioni” non hanno aggiunto un epsilon alla conoscenza, al più hanno suggerito metodi d’approccio a quelle che potremmo chiamare “tecnologie di calcolo”. La conclusione è che abbiamo dovuto elaborare un’immaginazione quantistica, del tutto non classica, suggerita da equazioni ed esperimenti, e non tentare di far rientrare il mondo quantistico all’interno di un apparato cognitivo che si è sviluppato nel mondo macroscopico, come diceva Bohr. Ma queste sono tipiche vicende “interne”, dubbi, esitazioni e sospensioni di giudizio che sono parte integrante della scienza della ricerca.

Il livello speculativo che manca alla scienza si pone sul piano dei rapporti scienza-società-economia, che come abbiamo visto è un blocco unico molto forte, una sorta di scheda prestampata che si autoreplica. E’ del tutto naturale che più conoscenza acquisiamo più le geografia dei saperi diventa frastagliata e variegata, e dunque aumenta l’iperspecializzazione, che non è soltanto un “confinamento” monastico della mente, ma soprattutto lo sviluppo di un linguaggio e di una tecnologia nuovi, che implicano finanziamenti forti e mirati. Questi sono decisi dalla politica ( intesa in senso generale) ma a sua volta la politica chiede consiglio alla scienza in forma di commissioni, proprio come abbiamo visto nella storia di Oppenheimer. Le persone che vanno a far parte di queste commissioni sono persone con un certo grado di autorevolezza che in genere rispecchiano le posizioni dominanti all’interno della comunità scientifica, posizioni che a loro volta hanno avuto un certo grado di riconoscimento sociale. Quasi un circolo vizioso!

Non ti farò esempi di fisica sia perché credo sia passato il messaggio che le teorie che sembrano privilegiate per costruire una teoria del tutto sono, al più “neanche sbagliate” (è il titolo del libro di Woit sulle stringhe), e non sono due o tre ma un numero ben più consistente (quanti conoscono la teoria dell’ Amplituhedron di Nima Arkani-Hamed, affascinante e innovativo cocktail matematico che unisce il meglio delle altre teorie?). Poi in fisica si trova quasi sempre il modo di fare test “economici”, magari utilizzando un frammento di tempo macchina di altre ricerche. Ma se andiamo in territori come quello delle malattie rare ( un numero piuttosto consistente) o alle questioni di ecosostenibilità, il ricercatore si trova in cronica penuria di mezzi e dunque nell’impossibilità di mostrare al mondo anche soltanto i potenziali benefici della sua ricerca. La storia recente del COVID mostra i limiti di questa miopia sistemica, abbiamo arsenali di armi batteriologiche ma l’avvento di una nuova forma di SARS ci ha trovato del tutto impreparati. In generale si va avanti per inerzia, si tira il collo alla curva logistica cercando di migliorare l’esistente, anche quando l’esistente è esausto e si dovrebbe voltare pagina. Ma quella pagina non possono voltarla da soli gli scienziati.

Infine, c’è un aspetto culturale che riguarda l’aumento progressivo di specializzazione. In fisica abbiamo studenti sempre più bravi ed efficienti nel campo di specializzazione, ma quasi del tutto ignari di quello che accade fuori da quel campo e non hanno alcuna consapevolezza storica dei percorsi della fisica, di come si è arrivati a quel campo che conoscono così bene. Gli articoli che risalgono a pochi anni prima per loro sono preistoria per lo più inutile. Un giovane scienziato così somiglia ad un isotopo, la cui conoscenza decade rapidamente con il tempo. Più che di iperspecializzazione preferisco parlare di sindrome di performatività, ed è un fenomeno abbastanza diffuso anche fuori dalla scienza. Ad esempio dai conservatori escono cantanti e strumentisti sempre più bravi tecnicamente, ma con scarsissima consapevolezza culturale degli universi (Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, Debussy, Bartok) che pretendono di eseguire. Si va avanti per luoghi comuni. Per non parlare della piattezza cui tende il jazz quando è inteso come genere, etichetta, e non come un approccio diverso ai suoni e al modo di comunicare con gli altri musicisti. E poi ci sono le domande transdisciplinari, quelle che non promettono alcun guadagno, ma forse varrebbe la pena porsi. Ne ricordo soltanto una qui. Una delle grandi passioni di Mitchell Feigenbaum, fisico teorico che ha dato fondamentali contributi alla teoria del caos, era la teoria della visione di Goethe, che oggi viene ritenuta poco più di una curiosità storica, qualcosa da relegare nella soffitta delle cose “sbagliate”. Ma Mitchell era convinto che si trattava di un suggerimento prezioso. La teoria di Newton e poi l’integrazione ondulatoria di Huygens, hanno aperto lo studio scientifico della luce, ma la teoria di Goethe pone ben altra questione che riguarda il patto tra l’occhio e la luce. Partendo da questo caso, si potrebbero fare molti esempi di domande potenti che attraversano saperi diversi e gettano luce su ognuno di loro. Il dialogo tra Jung e Pauli è uno di questi. IL nostro dovere è combattere la “scheda prestampata”; nel caso dell’organizzazione della produzione scientifica è una questione economica, politica e culturale, in quello del rischio di formare degli scienziati “meme” è necessaria una filosofia della scienza che non si limita a scrutinare dall’esterno le pratiche scientifiche, ma che si pone all’interno della ricerca per spostare la questione del senso dei saperi scientifici all’interno di una visione più ampia, e capace di assumersi dei rischi, della conoscenza.

FD: Direi che “shut up and calculate!” è una frase salutare se viene letta come un invito all’esplorazione, ma non come chiusura alla curiosità. L’esempio che fai sui rapporti scienza-società-economia e le armi batteriologiche mi fa pensare che l’anello più debole non sia la ricerca ma i suoi scopi. È curioso pensare agli usi che facciamo degli abissi di conoscenza e mistero che ci ha aperto la fisica recente; non solo le bombe, ma ai tantissimi strumenti per ripetere quel che abbiamo sempre fatto, seppure in modo diverso, come scambiarci commenti, apprezzamenti e messaggi. Da un lato sviluppiamo concetti vertiginosi come un Amplituhedron, dall’altro vogliamo che i calcoli ci portino a produrre uno schermo sempre migliore dove mettere dei cuoricini alle foto. La discrepanza tra tecnologia e scopi umani è sempre più profonda via via che la prima si evolve mentre la seconda resta invariata, e sebbene la nostra curiosità intellettuale resti viva davanti ai misteri che scoperchiamo, di fatto l’impegno maggiore (pratico, dunque economico) cerca di assecondare i nostri scopi più antichi, come rapporti sociali e la guerra. Più che un male in sé mi pare una testimonianza di una crescente disarmonia. Qui penso che gli scienziati abbiano delle responsabilità ben limitate, fanno solo parte di un sistema difficile da alterare – tornando al film su Oppenheimer, per usare un termine cinematografico i suoi drive restano un po’ un mistero. Non sembra che sia né porre fine alla guerra, né scoprire qualcosa di nuovo (perché di fatto non era quello in gioco con la bomba). Forse una curiosità da falena, vedere se quanto si era calcolato era davvero possibile?

IL: Credo che questa tua riflessione tocchi il cuore del problema contemporaneo. Tutti abbiamo realizzato, almeno una volta nella vita, che la distribuzione dei saperi tra le persone fosse paragonabile a un paesaggio pieno di dune e fossi, con alcune colline localizzate molto alte, le prime rappresentano la conoscenza di qualcosa su una media molto ampia, e le colline l’accumulo di competenza tra specialisti e ricercatori. La caratteristica di un paesaggio simile nella contemporaneità è che non c’è più alcun ragionevole rapporto tra il paesaggio medio e le colline. Il primo è più ricco di fossi (l’omologazione semplificatrice, la dimensione fake), e le colline sempre più aguzze, votate alla iperspecializzazione. Molte aziende “mediano” tra alcune realizzazioni sulle colline e i consumi del piano terra, ma sembra che le conquiste più belle e profonde, come la famosa “teoria del tutto”, interessino poco, giusto per la fabbricazione di libretti divulgativi e menzogneri, che sollecitano più pigrizia che voglia di conoscenza. E abbiamo già detto di quei progetti che potrebbero cambiare il nostro stile di vita, che non vengono adottati da nessuno. Si parla molto del genio umano, ma assai poco dell’inerzia cognitiva che ci contraddistingue a livello personale e collettivo. Un pò come avviene per la musica: siamo pronti a subire passivamente seduti, con molti colpi di tosse, un paio d’ore di Mozart e Beethoven per poi alzarci sollevati e gridare al capolavoro, mentre Schoenberg, Berg e Szymanowski – ma forse si potrebbe partire da Mahler – restano dei perfetti sconosciuti.

Si possono dare tante spiegazioni di questo aumento d’inerzia, ma io so- e l’ho verificato in un campo considerato difficile come quello della fisica e della matematica- che se si offrono delle possibilità di conoscenza non banale né omologata alle persone e gli si dà qualche ragione per perseverare, per nuotare verso il largo con un piccolo salvagente, la loro mente risponde con entusiasmo. Cosa forse possibile anche con le alternative sociali che non siano i cambiamenti apparenti e random dei nomi e della nomenclatura dei partiti politici.

Un paio di riflessioni finali sul nostro soggetto di partenza.

Diceva Robert Serber, che Oppenheimer era “meravigliosamente impaziente”, preferiva spesso una valutazione approssimata a un calcolo esatto, ma era il primo a vedere un problema, a trarne un’idea, vedere uno sviluppo o un possibile intoppo. Sono sempre stato convinto che queste capacità di Opje trovino le loro radici nella vasta formazione culturale fatta di poesia, letteratura, arte e musica. I saperi si aiutano e si nutrono tra loro, ed ogni singola capacità trae forza da una visione culturale ampia.

Alla famigerata commissione divenuta adesso famosa con il film di Nolan, Oppenheimer spiegò che esistevano anche ragioni scientifiche per impegnarsi a Los Alamos. La maggior parte dei grandi nomi che aderì all’impresa aveva riconosciuto nel passaggio dalla teoria alla tecnologia quello che lui chiamava un “problema dolce”, una sfida che non avrebbe soltanto implementato conoscenze già acquisite ma ne avrebbe prodotte di nuove, una cosa accaduta tante volte nella storia della ricerca, si pensi alla scienza del volo dopo i fratelli Wright.

Ma, come dici tu, i drive di Opje restano oscuri, pur tenendo conto dei nazisti, della bomba di Heisenberg e del problema “dolce”. Questo fa parte del suo fascino. C’è chi ha analizzato l’importanza dell’impresa – praticamente la nascita della big science – , il bisogno di riconoscimento, l’attesa di un Nobel. Ricordiamoci che Oppenheimer nasce in un famiglia agiata e cresce in una società in cui l’antisemitismo, seppur velato, fa ancora la differenza. Se si leggono le sue lettere, sin da quelle giovanili, si resta colpiti da un’enorme capacità di seduzione, un bisogno di piacere. In uno dei frammenti postumi di “Umano, troppo umano” Nietzsche scrive che l’uomo di genio ha difficoltà a prendere decisioni perché vede troppe possibilità (il ché è molto quantistico se ci pensi). Sicuramente Oppenheimer non aveva visto il maccartismo specioso che gli fu gettato addosso, e neppure le sue mani “sporche di sangue”.

Non lo sapremo mai. In conclusione vorrei citare un romanzo ucronico di Robert Sawyer, uno degli autori di SF più attenti alla storia e alle cose della scienza. The Oppenheimer Alternative (2020) è un’attenta ricostruzione della storia del progetto Manhattan e una fantasia su un durante e dopo alternativi. Alla fine Oppenheimer, già gravemente malato, torna indietro nel tempo per vedere Jean Tatlock e impedirne il suicidio. Del resto, aveva detto che Jean era l’unica persona con cui si sentiva libero. Credo che proprio la libertà fu la cosa che gli mancò di più.


IGNAZIO LICATA È FISICO TEORICO ED EPISTEMOLOGO PRESSO L’INSTITUTE FOR SCIENTIFIC METHODOLOGY (ISEM) DI PALERMO. ALLIEVO DI D. BOHM, LE SUE RICERCHE RIGUARDANO I FONDAMENTI DELLE TEORIE FISICHE, LE ORIGINI QUANTISTICHE DELL’UNIVERSO E LA FISICA DELL’EMERGENZA. NEL 2008 RICEVE IL PREMIO “LE VENERI” A PARABITA (LECCE) PER L ‘ATTIVITÀ DI SEEDING CULTURALE SUI TEMI DELL’INTERDISCIPLINARIETÀ. OSPITE AL FESTIVAL DI FILOSOFIA (2004 E 2011), SI OCCUPA ATTIVAMENTE DEI RAPPORTI TRA ARTE, SCIENZA E LETTERATURA. TRA LE PUBBLICAZIONI: “OSSERVANDO LA SFINGE” (DI RENZO, 2009), “LA LOGICA APERTA DELLA MENTE” (CODICE, 2008) , “PICCOLE VARIAZIONI SULLA SCIENZA”(DEDALO, 2016) E “COMPLESSITÀ. UN’INTRODUZIONE SEMPLICE”(DI RENZO, 2018). PER L’IMPERIAL COLLEGE PRESS HA CURATO “BEYOND PEACEFUL COEXISTENCE; THE EMERGENCE OF SPACE, TIME AND QUANTUM” (2016).

Francesco D’Isa  (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi come L’assurda evidenza (Tlon, 2022). Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.

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