AlphaGo ha conquistato l’ultima scacchiera; la fantascienza ci aveva avvertito.
23, 25 e 27 maggio 2017. Segnatevi queste date perché potrebbero finire nei libri di storia: non segnano ancora lo spartiacque della singolarità tecnologica, che spaventa molti, ma il definitivo passaggio di consegne tra intelligenza umana e artificiale sul campo dei giochi scacchistici. Negli scacchi propriamente detti, di nobile tradizione occidentale, il cervello dell’Homo Sapiens ha alzato bandiera bianca da almeno dieci anni, col potentissimo motore di Fritz che metteva in imbarazzo il campione Vladimir Kramnik. Troppo semplice la struttura del gioco, troppo limitati gli spazi sulla scacchiera per impensierire i moderni processori alimentati da una serie di algoritmi sempre più vasta; se n’era già accorto Garry Kasparov quando strappò un pareggio a Deep Blue, ormai preistoria in quanto a potenza di calcolo, tra 1996 e 1997. Caduti gli scacchi l’ultimo baluardo restava il go, antico gioco cinese diffuso in tutto l’estremo oriente: su una griglia 19×19, per un numero di posizioni calcolabile in 2,08×10^170, si dispongono pietre bianche e nere allo scopo di conquistare porzioni del campo di battaglia. Una guerra di logoramento di cui solo l’istinto umano può cogliere le più intime sfumature, si diceva, grazie alla vastissima gamma di aperture disponibili che impediva alla macchina di trovare la soluzione vincente per tentativi, col cosiddetto metodo della forza bruta. Più che la ricerca ossessiva del vantaggio numerico, specialità del computer, sulla tavola da go serve il coup d’oeil dei migliori generali. Di questo erano convinti gli esperti, prima dell’avvento di AlphaGo.
Il software, sviluppato dall’azienda DeepMind e poi acquisito da Google, irrompe sulla scena nel 2015 quando batte il campione europeo Fan Hui. L’anno successivo si ripete superando il coreano Lee Sedol, poi si mette alla prova nel gioco online dove in pochi giorni, e sotto mentite spoglie, sbaraglia la competizione dei migliori giocatori del mondo – solo qualche tempo dopo dagli uffici di Mountain View sveleranno chi si celava dietro il profetico pseudonimo di Magister.
Fin dalle prime mosse intende battere AlphaGo al suo stesso gioco: una settimana più tardi sarà un 3 a 0 per la macchina, combattuto ma netto. “Dodici mesi fa il suo modo di giocare era ancora simile a quello di uomo”, ha dichiarato Ke Jie ammirato, dopo la sconfitta. “Stavolta, sembrava di avere di fronte un dio”.
L’ultimo appuntamento è fissato per il maggio 2017, e stavolta si fa sul serio. L’avversario designato è Ke Jie, fenomeno cinese. Ke Jie è giovanissimo e affronta la sfida con aria spavalda. A differenza di certi suoi colleghi più anziani, ingessati su posizioni conservatrici, ha una visione aperta del go. Ha studiato le mosse più innovative del computer, le ha comprese e implementate nel proprio stile. Fin dalle prime mosse intende battere AlphaGo al suo stesso gioco: una settimana più tardi sarà un 3 a 0 per la macchina, combattuto ma netto. “Dodici mesi fa il suo modo di giocare era ancora simile a quello di uomo”, ha dichiarato Ke Jie ammirato, dopo la sconfitta. “Stavolta, sembrava di avere di fronte un dio”.
Torna in mente, come un sinistro presagio, il Multivac di Isaac Asimov che è tra i computer più celebri della fantascienza. In L’ultima domanda si trasferiva nell’iperspazio e, alla morte termica dell’universo, pronunciava: “Sia fatta la luce!”Oppure la macchina immaginata da Fredric Brown in La risposta, che alla domanda “c’è Dio?” rispondeva: “adesso, sì”.
Del resto, la letteratura sci-fi ha sempre avuto un debole per gli scacchi e altri giochi di abilità. La scacchiera è un campo neutro dove mettere a nudo l’intelligenza umana e il suo innato spirito di competizione, un richiamo alle radici per una specie che si sposta su navicelle attraverso galassie estranee. Lo stesso Asimov, in Notturno, ritraeva le élite del futuro col capo chino su una tavola tridimensionale che ospitava sei giocatori in contemporanea. Non mancano le citazioni dirette, come il film Blade Runner che ripropone, nel duello tra Tyrell e Sebastian, le mosse conclusive di quella che fu definita “la partita immortale” tra Anderssen e Kieseritzky, datata 1851. Anche i pionieri dell’intelligenza artificiale intravedevano il potenziale della scacchiera come punto d’incontro tra computer e uomo, tanto da considerarla come un corollario del test di Turing – questo, ormai, ampiamente superato. La macchina si sforza di imitare la sensibilità umana, di acquisirne la visione d’insieme; noi, ogni volta che stringiamo tra le dita un pedone o un alfiere, sfogliamo il nostro catalogo mentale di aperture e difese, programmiamo le mosse considerando qualsiasi scenario, ripeschiamo ogni informazione utile sullo stile dell’avversario: esattamente quello che farebbe, con maggiore agilità, un processore. La differenza è che noi vediamo un nemico in chi occupa la sedia di fronte alla nostra; il computer invece non gioca contro di noi. A ogni turno risolve un quesito presentatogli da un enigmista senza volto. Padroneggia ogni dettaglio delle nostre partite precedenti, perché i programmatori hanno caricato le trascrizioni nella sua memoria, e forse in questo senso conosce il nostro gioco meglio di noi stessi, ma non sa se quel giorno abbiamo dormito male, se il pensiero di una donna appena conosciuta ci distrae o se i nostri rituali portafortuna ci fanno sentire imbattibili. Il computer non si emoziona e non avverte la pressione di un match in diretta televisiva, non soffre condizionamenti psicologici. Garry Kasparov osservò che Deep Blue sacrificava senza indugi un pezzo pregiato come la regina se riteneva quella la strategia migliore, mentre l’uomo si affeziona a certe idee, sente il bisogno di ordine nelle proprie riflessioni, a costo di non notare strade percorribili, e certi compartimenti del pensiero restano stagni. È per questo che AlphaGo ha ribaltato secoli di tradizione con una mossa mai eseguita prima – la trentasettesima della seconda partita contro Lee Sedol. Se il computer sbaglia, e può accadere, è perché gli algoritmi non gli hanno fornito la chiave di lettura ideale per quel frangente. Se l’uomo sbaglia, è un crollo verticale. Nel 1997 Kasparov si arrese a Deep Blue dopo appena 19 mosse; la sconfitta più veloce della propria carriera, al termine di una partita tesa e segnata da una svista già alla sesta mossa. Nel 2006 Vladimir Kramnik commise “l’errore del secolo” regalando scacco matto al motore scacchistico Deep Fritz da una posizione di vantaggio. Dopo quel match, vinto per 4 a 2 dal computer, fu chiaro che l’intelligenza artificiale non si sarebbe più guardata indietro e l’interesse si spostò verso giochi più complessi, come il go. “The science is done”, commentò il docente di informatica Monty Newborn, e non a torto: oggi persino uno smartphone può far girare un motore scacchistico più potente di quello che sconfisse Kasparov.
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Nella sua scalata ai vertici assoluti del go AlphaGo non si è macchiato di errori, e nemmeno i suoi avversari umani. Una supremazia netta. Per raggiungere tale livello gli sviluppatori di DeepMind si sono affidati alle recenti ricerche informatiche sulle reti neurali. In poche parole, il computer ha imitato i meccanismi logici della mente umana e la granitica intelligenza artificiale si è fatta più fluida, simile alla nostra. Questa tecnologia permette alla macchina di imparare da sola partendo da informazioni di base, dalle quali sviluppa collegamenti originali. Data l’altissima velocità di calcolo il ritmo dell’apprendimento assomiglia a quello, frenetico, con cui gli organismi più elementari tramandano i propri geni da una generazione all’altra. Ecco il secondo, sinistro presagio: i computer che si affacciano sulla scala evolutiva. Per prepararsi al confronto con Ke Jie, AlphaGo ha disputato cinquanta partite contro se stesso, recentemente diffuse al pubblico per lo stupore degli appassionati. Va da sé che simili potenzialità resterebbero soffocate negli spazi angusti di una scacchiera. All’indomani del trionfo DeepMind ha ritirato AlphaGo dalle competizioni per convertirlo ad altre applicazioni, più utili al progresso scientifico. Detto fatto: nel giro di pochi mesi sulle riviste specializzate compare la notizia del primo contribuito nel campo della chimica. I computer a reti neurali stanno prestando un aiuto sempre maggiore alla ricerca, secondo le modalità che l’esperta di scienza cognitiva Margaret A. Boden descrive nel suo articolo Creativity and artificial intelligence: “Le IA possono essere adoperate per dar vita a nuove idee in tre modi: producendo nuove combinazioni di idee già familiari, esplorando il potenziale degli spazi concettuali e facendo trasformazioni che permettano il generarsi di idee un tempo impossibili”
AlphaGo è più intelligente dell’uomo. Dobbiamo gioire o esserne preoccupati? Per il capo del progetto DeepMind, Demis Hassabis, AlphaGo si rivelerà un assistente benevolo: “In molti versi vedo le IA simili al telescopio Hubble, uno strumento scientifico che ci permette di vedere oltre e capire meglio l’universo che ci circonda”, ha scritto. Non tutti però condividono la sua visione ottimistica. All’indomani del successo su Ke Jie il New York Times titolava “le cose si mettono male per l’umanità”e subito partiva la corsa a condividere le opinioni degli scienziati più prudenti in merito ai rischi che il progredire dell’intelligenza artificiale porta con sé.
Alla fine del percorso, come al Multivac di Asimov anche a noi resta “l’ultima domanda”. Cosa non è in grado di fare un computer? Cosa – forse – non sarà mai in grado di fare?
Secondo James Lovelock, il padre dell’ipotesi “Gaia” oggi novantottenne, è solo una questione di tempo prima che i robot prendano il sopravvento, rimpiazzando un’umanità indebolita dal collasso ambientale. Un processo pacifico o bellicoso? Su questo Lovelock non si sbilancia, ma è sicuro che l’escalation sarà rapida e inarrestabile: l’uomo ha messo in pausa la selezione naturale, garantendo la sopravvivenza anche al meno forte, ma le intelligenze artificiali vivranno in un mondo pienamente darwinista.
Quando si parla di scienza e futuro si alza sempre la voce di Elon Musk. Tra progetti per portare l’uomo su Marte o trasferire coscienze su cloud, il magnate di Tesla attende con ansia una regolamentazione saggia e precisa. “Con la AI stiamo evocando un demone”, ha detto, e molti dei suoi investimenti sono rivolti a evitare uno scenario à la Terminator. Non a caso, Musk ha contribuito con un milione di dollari alle ricerche del professor Nick Bostrom, a capo del Future of Humanity Institute di Oxford, che nel suo best seller del 2016 – Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies – scriveva che siamo “come bambini che giocano con una bomba”. Se tali opinioni possono sembrare troppo allarmiste, ricordiamo che anche Stephen Hawking non ammetteva mezze misure: “la AI si rivelerà l’invenzione migliore o la peggiore nella storia dell’umanità”.
Per restare sull’attualità, non è un mistero che gli algoritmi dei principali social network e motori di ricerca conoscano i nostri gusti meglio di noi stessi: esattamente come il Multivac di Asimov che, in uno degli stadi della sua evoluzione millenaria ritratto dal racconto “Diritto di voto”, rimpiazzava l’intera classe politica con funzionari scelti su base statistica.
C’è un ulteriore quesito che merita una riflessione coscienziosa: di quanta potenza di calcolo dispone veramente un gigante del settore come Google, e a che ritmo proseguirà il cammino? Il go è caduto con dieci anni di anticipo rispetto alla tabella di marcia, e il recente annuncio della nuova generazione di processori TPU, pensati appositamente per l’auto-apprendimento delle macchine, è stato accolto con stupore: 64 schede collegate in un pod possono raggiungere una potenza di 11.5 petaflops. In termini più comprensibili, si tratta di 11.500.000.000.000.000 informazioni al secondo. Nonostante la tecnologia di Google sia open source, la concorrenza è diversi giri di pista indietro.
Alla fine del percorso, come al Multivac di Asimov anche a noi resta “l’ultima domanda”. Cosa non è in grado di fare un computer? Cosa – forse – non sarà mai in grado di fare? AlphaGo può insegnare a se stesso a giocare a go inscenando un numero impronunciabile di partite differenti, così come un simile processore può apprendere un linguaggio autonomo o capire quando ridere alle battute di una sit-com, ma non saprà spiegarti il significato di una barzelletta – di cui pure ha riso – mai sentita prima. Per quello servirebbero reti neurali in continua espansione, connesse fra loro, come accade nel cervello umano, e non è sufficiente ricevere in pasto miliardi di informazioni. Commentando le sue sfide con Deep Blue, Kasparov individuava una costante nello stile di gioco delle intelligenze artificiali: per il 99% calcolo, per l’1% comprensione. Con AlphaGo la distribuzione delle percentuali è sicuramente cambiata, ma resta un collo di bottiglia – che sia questa la discriminante per cui ci definiamo senzienti? Per quanto AlphaGo giochi “come un dio”, come disse il suo avversario Ke Jie, sotto certi aspetti è meno abile di un bambino. Non sa cambiare le regole del gioco. Non sa fare i capricci e rifiutare di muovere un pezzo. Non sa deprimersi per mancanza di stimoli, come invece accadde al Multivac di “Tutti i guai del mondo” che pianificava la propria morte per sfuggire al peso dell’umanità, gravante sulle proprie spalle. Non sa ribaltare la scacchiera quando la partita si mette male. Non sa perdere di proposito, fingendosi meno intelligente per convincere l’uomo a fidarsi di lui. “La disumanità del computer”, scriveva Asimov, “sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta”. Se varcherà questa soglia, divenendo ancora più umano, le cose cambieranno.
E se vedessimo le vittorie della macchina contro l’uomo in realtà come la semplice vittoria dei programmatori del gioco – che si avvalgono a loro volta di esperti giocatori – e degli ideatori dell’hardware contro il miglior cervello umano allenato a quel gioco?
Se servono così tanti sforzi, di così tante persone, per sconfiggere un solo cervello umano, vuol dire che di strada ne dobbiamo fare ancora tanta. Ma intanto, bisognerebbe sfruttare queste conoscenze delle IA per utilizzarle magari in qualcosa di più utile..
[…] Ancora sulle Intelligenze Artificiali, che hanno preso possesso del terreno scacchistico e di altri giochi enigmatici affini. C’è speranza? O la speranza è una trappola inventata dai padroni? Su L’indiscreto… […]