Un dialogo impossibile tra Celan e Heidegger

In un Lager tedesco, sottoposto ad accurato restauro e reso accessibile ai visitatori, due figure alquanto singolari si aggirano fra i turisti. L’una indossa pantaloni alla zuava e ha in testa un cappellino schwarzwälder, l’altra porta una camicia dal grande colletto bianco e sotto la giacca ha un maglione di lana grezza. Si tratta del filosofo Martin Heidegger e del poeta Paul Celan.


In copertina: Tomb for Heidegger, Siah Armajani (2016)

Questo testo è estratto da Luce d’addio Dialoghi dell’amore ferito, di Sergio Givone. Ringraziamo l’autore e Olschki editore.

di Sergio Givone

In un Lager tedesco, sottoposto ad accurato restauro e reso accessibile ai visitatori, due figure alquanto singolari si aggirano fra i turisti (turisti? e come chiamarli altrimenti?). L’una indossa pantaloni alla zuava e ha in testa un cappellino schwarzwälder, l’altra porta una camicia dal grande colletto bianco e sotto la giacca ha un maglione di lana grezza. Si tratta del filosofo Martin Heidegger e del poeta Paul Celan.

H. Che idea darsi appuntamento qui!

C. Un posto vale l’altro, ormai.

H. Già. Ormai… Ora e mai! Due cose difficili da tenere insieme, non crede?

C. Quel che vale per i vivi non vale per i morti. Infatti per i morti ora e mai stanno insieme benissimo.

H. Ma c’è la poesia, grazie a Dio.

C. Che cosa intende dire?

H. La poesia mette d’accordo i vivi e i morti. La poesia è per i vivi e per i morti. La poesia è memoria, religiosa memoria.

C. Sì. Questo l’ho imparato da lei. Diciamo che lei ha ridestato in me un pensiero che non si decideva a mostrarsi con chiarezza alla mia mente, ma che era lì, in un modo o nell’altro.

H. È la poesia quella che ci trasporta – e si trasporta –“dal suo ormai non-più al suo pur-sempre”. Sono parole sue, se ben ricordo. Che sia questo il senso del nostro appuntamento?

C. Per la verità io non le avevo dato appuntamento.

H. Uhm, sì, ha ragione. Lei però si aspettava da me… una parola. Una parola a venire: così disse.

C. Così ho lasciato scritto. Sul libro degli ospiti. Nella sua casa in montagna, a Todnauberg. “Nel libro della baita, con uno sguardo sulla stella della fontana e nel cuore una parola a venire”.

H. E che cosa voleva che le dicessi?
C. Qualcosa. Qualsiasi cosa. Purché non tacesse.

H. La prego, Celan, non si metta anche lei sul piano di quegli imbecilli…

C. Quali imbecilli?

H. Quelli che pretendevano da me le scuse! Si rende conto? Scusarmi… Scusarmi di che cosa? Già, dei milioni di morti, dell’olocausto, come si è voluto chiamarlo… Ma via! Ero forse io il colpevole? Mancava solo venissi a dirle che mi dispiaceva terribilmente, che non potevo immaginare, insomma, che mi ero sbagliato…

C. Per esempio. O qualsiasi altra cosa. Le avrei perdonato anche il sarcasmo, come glielo perdono ora. Sarebbe stato mille volte meglio del silenzio.

H. E invece sa cosa le dico? Che non solo non mi dispiaceva…

C. Lei mente a se stesso!

H. Non solo non mi dispiaceva, poiché sono sempre stato dell’idea che quel che doveva accadere, quel che non poteva non accadere, ebbene, che accadesse! E le dico anche che io avevo immaginato benissimo che sarebbe accaduto. E lo sa perché? Perché avevo pensato tutto quel che c’era da pensare in proposito.

C. Immaginato… Pensato… E quando mai? Dove, come?

H. Legga i miei scritti.

C. L’ho fatto. E con tutta l’attenzione che essi meritano.

H. Bravo.

C. Ma quella parola non l’ho trovata.

H. La parola che lei si aspettava da me, era già lì. Chiara, netta. Anche

se adesso mi accusano di aver fatto dell’oscurantismo. Lo sa come mi chiamavano? Mago, incantatore… Ed erano i miei migliori allievi a farlo, prima ancora degli altri! Anche lei lo pensa?

C. No, io non lo penso. Ma…

H. Ma avrebbe voluto leggere in me o cogliere dalla mia bocca qualcosa come: nei campi di sterminio l’uomo ha fatto naufragio, e con l’uomo ogni umanesimo possibile, oppure: nei campi di sterminio l’umano è stato annientato, o magari: nei campi di sterminio il senso dell’essere si è totalmente oscurato.

C. Glielo ripeto: meglio che tacere.

H. Questo qualcosa che secondo lei avrei dovuto dire è precisamente ciò che ho detto. Ed è tutto, tutto ciò che si può dire. Vede, Celan, nella notte del mondo – questo io sono andato sostenendo fin da prima della guerra e poi dopo, instancabilmente, senza badare agli insulti che mi venivano rivolti – sì, nella notte del mondo l’uomo non solo si perde ma è destinato a perdersi, senza scampo, e non c’è uomo che possa salvarsi né salvare. Questo destino trova la sua stazione finale nei campi di sterminio. Ed è la notte del mondo, appunto. Lei sa che cos’è la notte del mondo?

C. Credevo di saperlo, ma ora non ne sono più tanto sicuro.

H. La notte del mondo scende sulla terra e la terra rabbrividisce, agghiaccia. La notte del mondo mortifica il vivente. Lo mortifica in tutti i modi e nel modo più sistematico. La notte del mondo è la volontà di potenza. È cosa dell’uomo, la volontà di potenza, perché è l’uomo a sprigionarla, e tuttavia l’uomo di fronte ad essa può ben poco: l’uomo non dispone della volontà di potenza, è la volontà di potenza che dispone dell’uomo. La volontà di potenza assoggetta la terra e la trasforma in campo – uso di proposito questa parola – di sfruttamento e di manipolazione. La volontà di potenza è il dominio assoluto e senza riserve della necessità – la più spaventosa e terribile necessità che mai si sia presentata sulla scena del mondo. La volontà di potenza è il male metafisico ed è al tempo stesso l’apparato tecnologico, è la disumanizzazione ed è la tecnica… concetti, questi, che servono per capirci, ma a cui sfugge la sola cosa che conti. Ossia: che il processo di disumanizzazione si compie dappertutto, in ogni punto del pianeta, così come in ogni dimensione dello spirito. Ovunque accade lo stesso, assolutamente lo stesso, anche se in forme più o meno evidenti. L’uomo è andato a fondo, va a fondo, sempre di nuovo, e neppure sappiamo per quanto tempo ancora. Perciò i campi di sterminio sono la stazione finale… sempre di nuovo. O no? In ogni caso non c’è nulla, nei campi di sterminio, che non ci sia – o sia già stato – altrove e ovunque, e che non si ripresenti qua e là nel mondo. I campi di sterminio sono il terminale – usa dire così, ora – di un processo che risucchia il mondo tutt’intero in un vortice di annientamento. Le dirò di più: questo annientamento a ben vedere è auto-annientamento.

C. Fatico a seguirla, professore.

H. Non importa. Basta che lei colga in quel che dico l’eco di una verità che viene da lontano. Lei ha orecchio di poeta e allora le chiedo: avverte o non avverte questa eco?

C. Temo di no.

H. Mi dispiace, ma ora sono io a doverle dire: lei mente a se stesso!

C. Forse. Però, vede, quando sento dire, come ho appena sentito dire da parte sua: stazione finale, io penso bensì: stazione finale, ma penso a quella stazione finale e solo a quella.

H. Cioè?

C. La stazione dove arrivavano i convogli da tutta Europa. Predisposta affinché non ci fosse ritorno. Ma al tempo stesso attrezzata in modo da trasformare quanto rimaneva di vita in forza-lavoro. Poi, l’incenerimento. E la cenere usata come fertilizzante.

H. Perfetto. Questa è la volontà di potenza. La vedrà in azione ovunque lei voglia posare lo sguardo: dove si coltivano i campi, dove si costruiscono le macchine, dove si curano i malati. L’uomo, che ne è il titolare, in realtà non può nulla di fronte ad essa. Ne è al servizio. Di conseguenza, non è più quello che era. Totalmente disumanizzato, o quanto meno dimentico di sé e di quello che era chiamato a essere. Disumanizzato, degradato, entwürdigt. Svuotato di quella dignità che per ogni umanesimo è l’essenza dell’uomo. Finito. Vede: non c’è ritorno. E tutto sta nel segno di un principio economico che riduce tutto ciò che è – l’essere, il vivente infinito! – a quantità misurabile e calcolabile.

C. Eppure…

H. Eppure, “Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. La lingua, essa sì, nonostante tutto, rimase acquisita. Ma essa dovette passare attraverso tutte le proprie risposte mancate, passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva, ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce, ‘arricchita’ da tutto questo. Con questa lingua, in quegli anni e negli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà”. Queste sono parole sue, dottor Celan.

C. Sì, sono parole mie. E io le rivendico. Le rivendico contro di lei, professore!

H. Strano. Avrei pensato l’esatto contrario.

C. Lei ha detto: volontà di potenza. E va bene. Però vede, professore, quella è precisamente una parola che ha tentato di passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte, ma non c’è l’ha fatta. È rimasta impigliata nella trama fitta ed equivoca di quel discorso.

H. Interessante.

C. E lo sa che cosa avrebbe potuto liberarla?

H. Lo dica lei.

C. No, non la poesia.

H. E che cosa, allora?

C. Il cuore. L’umiltà del cuore. Solo attingendo all’umiltà del cuore la poesia avrebbe potuto convertire quella parola in una parola di verità.

H. Dubito che l’umiltà del cuore possa essere accostata alla volontà di potenza. E magari intesa come un suo correttivo. O lei crede alla favoletta del leone e del topo? Guardi che il buon senso di Esopo non è che uno dei tanti frutti avvelenati della metafisica. È un sapere inquinato anche quello, mi creda, sapere ingannevole.

C. Lasciamo stare Esopo, benché… Torniamo alla volontà di potenza. La volontà di potenza c’è, perché c’è la volontà. La pura e semplice volontà. Che può essere malvagia. Ma può anche essere buona.

H. Bene e male non hanno più luogo nella stazione finale.

C. Nella stazione finale, al capolinea, arrivava un’umanità dolente. E ad attenderla c’era un’umanità feroce.

H. E con questo? Quella che sarebbe andata in scena, non era una tragedia! Una bestemmia il solo pensarlo, questo sì. Auschwitz una tragedia… Con tanto di pietà e terrore e catarsi. O, perché no, colpa ed espiazione. Ma si rende conto?

Alcuni turisti si avvicinano ai due.

T. Scusate, sapreste indicarci dove si trovano i forni crematori? H. In fondo a sinistra.

T. Grazie.

Si allontanano.

H. Prego. Stava dicendo?
C. Al capolinea arrivava un’umanità dolente. E ad attenderla c’era un’umanità feroce.

H. D’accordo.

C. Un’umanità che più poveramente e più semplicemente umana non poteva né immaginarsi né pensarsi. Lei sa come arrivavano lì quelli che arrivavano? E che cosa accadeva subito dopo? Che vita fosse la vita di quelli che erano tenuti in vita? E che morte fosse la morte di chi veniva immediatamente messo a morte? Ci sono dichiarazioni in proposito. Dei sopravvissuti. I quali hanno anche scritto libri. Qualcuno l’avrà pur letto.

H. Sì, ma non ne ho ricavato granché. Niente, intendo dire, che non potessi sapere o figurarmi con un piccolo sforzo di fantasia. Non è dai sopravvissuti ai campi di sterminio che ho appreso di che cosa sia capace l’uomo. Lo sapevo già.

C. Neanche Dio avrebbe potuto…

H. Io invece preferisco dire: solo Dio potrebbe… Ma questa è un’altra storia.

C. Né io né lei, professore, crediamo in Dio. E neppure i sopravvissuti ai campi, i testimoni, avessero o non avessero la fede in lui, hanno poi fatto valere quella fede contro di lui. Semmai hanno testimoniato l’impossibilità di testimoniare – Dio sa con che stretta dolorosa. Eppure non possiamo fare a meno di nominarlo, Dio. Questo vale per me e per Lei. Ma vale anche per i sopravvissuti.

H. Già, è curioso. Tanto più che ad Auschwitz Dio non è si proprio fatto vedere. E come avrebbe potuto? Nello spazio del disumano, l’uomo c’è ancora. Ma non c’è più Dio. Così come non c’è più il bene e non c’è più il male. C’è l’uomo, al di là del bene e del male.

C. Al di là del bene e del male, c’è il male. È un fatto: non appena l’uomo si pone al di là del bene e del male, precipita nel male.

H. Non lo credo. E lo sa chi mi conferma in questa convinzione? Proprio uno dei sopravvissuti a cui lei ha appena fatto riferimento, uno dei testimoni. L’ebreo Hans Mayer, il quale, emigrato in Belgio e assunto il nome di Jean Améry, pochi giorni dopo l’invasione viene consegnato alla Gestapo. Finisce ad Auschwitz. Ne esce vivo. Pubblicherà, tra le altre cose, un libro dal titolo piuttosto eloquente: Al di là della colpa e della espiazione. Sarà un assertore dell’inevitabilità del suicidio. Teoria che metterà in pratica.

C. Quando il gelo afferra ogni cosa, solo un colpo d’ascia può spezzarlo.

H. Esattamente. Il pensiero di Améry è che “chi è stato torturato rimane torturato”. Vale a dire: chi ha subito atti volti ad annientarlo – e ad annientare non solo il corpo, ma anche l’anima – resterà per sempre estraneo a tutti gli altri e non potrà più ambientarsi nel mondo, perché “l’abominio dell’annientamento non si estingue mai”. Bravo, Améry. Non si potrebbe dir meglio.

C. Ma questo è l’inferno!

H. Senza alcun dubbio. Però, mio caro Celan, una volta posto l’inferno – e non si può non porre l’inferno, necessario è l’inferno, incontrovertibile è l’inferno, e solo uno sciocco può pensare che l’inferno non esista o sia un’invenzione dei preti – una volta riconosciuto l’inferno, dicevo, occorre fare ancora un passo. Un piccolo passettino, in più, ma che passettino! Perché se è vero, com’è vero, che il nulla e cioè l’abominio dell’annientamento che non si estingue mai ci obbliga a porre l’inferno, è altrettanto vero che l’inferno, ossia l’abominio dell’annientamento che non si estingue mai ci obbliga a porre il nulla: e a riconoscerlo, e a pensarlo, per quello che è veramente. Vogliamo farlo insieme, amico mio?

C. Lo abbiamo fatto tutta la vita.
H. Il nulla è un concetto perfettamente contraddittorio.

C. E va bene.
H. Meno bene quando si pensa di averlo per ciò stesso liquidato.

C. Lo si pensa non senza ragione, dopo tutto.

H. Il fatto è che il nulla è contraddizione, ma è anche ciò che rende possibile la contraddizione. Il nulla è la potenza del negativo – e tu puoi negarlo fin che vuoi, il nulla, in quanto contraddizione, ma provati a negarlo in quanto potenza che la rende possibile, la contraddizione, in quanto potenza del negativo e anzi del contradditorio! Smisurata potenza. Inestinguibile potenza. Questo significa: “Annientamento che non si estingue mai”. E questo tra l’altro spiega perché l’annientamento sia auto-annientamento. Solo il nulla annichilisce: anche il nulla stesso.

C. Come dire: l’inferno è il nulla, il nulla è l’inferno. È così?

H. In un certo senso è così.

C. Ma se è così, è troppo poco. Non mi basta un inferno che, in fondo, altro non è che il nulla. Quell’inferno lì, non è l’inferno di cui stiamo parlando.

H. Vero anche questo. Infatti è così solo in un certo senso.

C. E in un altro?

H. In un altro il nulla è un po’ più che l’inferno. Molto di più. Infinitamente di più. Insomma, quel passettino è un affare serio.

C. E lei lo faccia quel passettino.

H. C’è inferno e inferno. L’inferno in cui la colpa è inespiabile, è certamente qualcosa di infernale. Fine pena, mai! Ma si rende conto? Chiunque abbia la compiacenza di lasciarsi sfiorare da un pensiero del genere, se non è un cervello di gallina rischia di andar fuori di testa. Una cosa che non si riesce a pensare e nondimeno è piena di verità, indubitabilmente. Proprio così. Eppure c’è qualcosa di più infernale – anche questa cosa è piena di verità e dunque è degna di essere pensata. Ed è l’inferno che sprofonda in se stesso, l’inferno inghiottito dal suo stesso nulla. Vede, caro Celan, l’inferno che resta saldo sul suo fondamento, sul suo principio, ossia sul principio sacrosanto della colpa inespiabile, per l’appunto resta saldo. A essere tenuta ferma, è la colpa. E con la colpa, l’espiazione. Ma prima ancora: la giustizia divina. E tutto il resto, tutto. Con ciò la meravigliosa architettura dell’essere è posta su basi sicure, per l’eternità. Poi però…

C. … la potenza del negativo, il nulla…
H. Esattamente. Il nulla, questo tarlo implacabile, svuota, rode, polverizza. Lo fa nel mondo di sopra. Figuriamoci nel mondo di sotto. Quanto può essere smagliante e corrusco lo splendore delle tenebre! E quanto seduttivo! Ma il tarlo del nulla ne smorza la luce più profonda. La spegne. E “da buio a buio”, vom Dunkel zu Dunkel, come direbbe lei, quel tarlo fa il suo lavoro. Sbriciola la sostanza viva del male. E alla fine non ne resta più nulla. Non resta che il nulla.

C. Resta, lei dice?

H. Anche Améry lo dice. Senta cosa scrive Améry e che razza di ipotesi osa avanzare: “E se coloro che si proponevano l’annientamento avessero avuto ragione, in base al fatto innegabile che erano loro i più forti?” Ecco la risposta che si dà: “Sì, le SS potevano bene fare quello che facevano: il diritto naturale non esiste, e le categorie morali nascono e muoiono come le mode. C’era una Germania che mandava a morte gli ebrei e gli avversari politici perché riteneva che solo per questa via avrebbe potuto realizzarsi. E con ciò?” Con ciò, nulla. Anzi, il nulla.

C. È stato suo allievo, Améry.

H. Non direttamente. Però la pensa come me. E comunque ha letto Pascal e Kant. Con intelligenza.

C. Vale a dire?

H. Améry ha capito che dove il diritto non ha la forza di farsi valere, la forza vale come diritto. Le SS dettano legge perché la legge non è se non quella di chi ha la forza di dettarla. O no? Ma Améry ha capito una cosa perfino più importante.

C. Cioè?

H. Ha capito che il diritto naturale non è, come credono i troppi che vanno cianciando di democrazia in nome del diritto positivo, natura! Al contrario, il diritto naturale è spirito. È il principio divino che è nell’uomo. È ciò che fa dell’uomo, un uomo. È la cosa più sua, più sacra. Tantomeno è un principio eteronomo, una legge che gli si impone ex alto, perché Dio è più intimo a lui di quanto lui lo sia a se stesso.

C. Ma il diritto naturale non esiste, dice Améry.

H. Esattamente. Il diritto naturale non esiste. Come non esiste Dio.

C. Anche lei ne è convinto? Come tutti?

H. Anch’io ne sono convinto. Come tutti. E come tutti ripeto: Dio è morto.

C. Be’, qui, in questo posto, volendo, se ne ha la prova.

Un gruppo di studenti con il loro insegnante si ferma a due passi da loro.

I. Martin Celan, Paul Heidegger… pardon, sono confuso e sbalordito dalla sorpresa… Lasciate che vi dica la mia ammirazione… e di questi ragazzi… che vorrebbero… loro permettono… permettono una foto… voi e noi insieme?

C. Certamente.
H. Ne sono lieto, Celan. Quell’altra volta che ci siamo visti lei si era rifiutato di farsi fotografare con me, o sbaglio?

C. No, non sbaglia.

Restano qualche minuto in ascolto, mentre i due riprendono tranquillamente il loro discorso, poi se ne vanno parlottando fra loro.

H. Dio è morto. Morto e sepolto. Par di avvertire ancora il lezzo della putrefazione, diceva Nietzsche dal naso fine…

C. Ci sono odori che restano nelle narici per sempre, anche dopo la più completa rimozione della causa.

H. Bel tema di riflessione, questo! Se lei avesse ragione, Celan – e io credo che lei abbia ragione – quel “per sempre” andrebbe ripensato alla radice. E non sarebbe mica una cosa dappoco… Ma non è il caso di divagare: ci torneremo, su questo punto.

C. Dunque: se Dio non esiste, tutto è lecito. Améry aveva letto non solo Pascal e Kant, ma anche Dostoevkij. Il quale aggiungeva: tutto, tutto lecito… anche l’antropofagia.

H. Sì: se il diritto naturale non esiste, dice Améry, tutto rientra in una logica perfettamente autoritaria, perfettamente strumentale e perfettamente logica, soprattutto. Cioè basata sul principio: è così perché è così. Nei campi la prima cosa che il deportato doveva impara

re era: qui non c’è perché, hier gibt es kein warum.

C. Non è esattamente il principio cui si ispira la sua filosofia.

H. È quel che dico anch’io. Perciò non capisco tutto questo incaponirsi contro di me, come se io fossi responsabile di quella roba lì.

C. Però lei ha taciuto.
H. Questo è falso. Io non ho taciuto. Ho detto tutto quello che c’era da dire, e l’ho detto nel modo in cui potevo dirlo io: filosoficamente.

C. Non però tutto quello che ci stiamo dicendo ora.

H. Lei è in errore.

C. Mai prima d’ora, mi corregga se sbaglio, mai lei ha fatto cenno all’inferno – l’inferno dei campi, i campi come realtà infernale. Mai ha parlato del nulla come di un inferno raggelato e spento, inferno al di là dell’inferno.

H. Forse non ho indicato con sufficiente esplicitezza a che cosa mira realmente la volontà di potenza? Dovevo per forza appiccicare un’etichetta alla realtà infernale che il suo dispiegamento produce? Del resto, come credo di aver chiarito una volta per tutte, quella realtà infernale non è più inferno perché è più che inferno. È l’inferno disertato dagli uomini e abitato unicamente da spettri. È la notte del mondo.

C. L’inferno disertato dagli uomini e abitato unicamente da spettri… E che cosa sono i campi, se non l’inferno disertato dagli uomini e abitato unicamente da spettri?

H. I campi, come abbiamo detto, sono il punto d’arrivo. Nei campi si compie un processo mondiale, non locale, cui hanno lavorato gli stessi che adesso gridano allo scandalo. Spettri anche loro. Come spettri sono i carnefici e spettri sono le vittime.

C. No, professor Heidegger! Lei non può mettere sullo stesso piano i carnefici e le vittime.

H. Ma che cosa crede? Che io non sappia la differenza che passa fra loro? O che io sia così insensibile da non provare pena per gli uni e ripugnanza per gli altri? Lei mi fa torto, a credermi un tale deficiente. La differenza c’è, certo che c’è… Solo che si tratta di una differenza su cui le categorie morali non hanno più presa. Bene e male non sono più per noi. Strumenti inutili. Viti che non mordono.

C. Eppure, quando la sua allieva Hannah Arendt si è occupata della questione – la nostra questione! – non ha potuto fare a meno di quelle categorie.

H. Immagino lei si riferisca alla cosiddetta banalità del male.

C. Sì.

H. Povera, cara Hannah! Chissà se si è accorta dell’equivoco… Io credo di no. Come che sia: l’idea della banalità del male è una bellissima idea. Può essere venuta in mente solo a chi abbia imparato a fare i conti con il destino al quale, ci piaccia o no, siamo consegnati…

C. E dove lo avrebbe imparato? Alla sua scuola?

H. A dire il vero Hannah disse: alla scuola di Jaspers.

C. Forse l’ha detto per farle dispetto.
H. Può darsi. Vero è in ogni caso che fu Jaspers a sostenere la teoria del male come banale influenza. Sì, diceva che il male si diffonde per contagio, nessuno è veramente colpevole, però ciascuno a suo modo lo è.

C. Colpevole?

H. Ammetto che la colpa è una strana anguilla: c’è e non c’è al tempo stesso. Ma andiamo a vedere come stanno le cose relativamente alla banalità del male. Un bel fenomeno, quello! La banalizzazione del male è il male sedato, raffreddato: al punto che di esso resta una traccia spettrale. Un fantasma – e nient’altro. Il male non c’è più. È letteralmente caduto nel nulla. Sia coloro che lo fanno sia coloro che lo subiscono sono spettri – sui campi in quanto teatri spettrali come lei sa le testimonianze sono concordi. Non che il male cessi di apparire com’era: spaventoso, terribile, distruttivo. Al contrario, mai come ora scopre il suo volto in modo impudico, osceno. Nei campi la spettralità si sposa perfettamente alla oscenità della morte. Tuttavia il male non c’è più. E non c’è più neanche il bene. E se non c’è più il male e non c’è più il bene, non c’è più Dio. Si voleva una prova sperimentale che Dio è morto? Eccola! Dubito che la bravissima Hannah volesse arrivare a tanto. Certo è che il vecchio Scholem non gliel’ha mai perdonata.

C. Una prova sperimentale, ha detto. Sono d’accordo con lei, professore, su questo punto. Ma ho l’impressione che questa volta a cadere in equivoco sia lei.

H. Ah sì?
C. Sì. Consideriamo l’esperimento all’interno del quale si è ottenuta quella prova. Si può dire che l’esperimento consistesse nell’annientare Dio per meglio annientare l’uomo e viceversa?

H. Si può dire.

C. Bene.
H. Subito dopo, però, bisogna chiedersi chi volesse quella cosa – chi volesse portare to on, la totalità dell’ente, la natura, Dio e l’uomo, l’essere così come lo si conosceva, al niente. C. Benissimo. E la risposta?

H. Tutti e nessuno.

C. Nessuno prima che tutti, immagino, poiché a voler portare l’essere al niente, come lei mi ha spiegato, è una volontà impersonale, anonima, che di certo non si preoccupa di dar ragione di quel che vuole o non vuole. O sbaglio?

H. Non sbaglia. Anche perché nel frattempo l’essere si era portato al niente da sé: come dimostra il fatto che la terra è andata via via riducendosi a una miniera da sfruttare e il cielo… il cielo anche. E di questo andamento delle cose, non si può certo incolpare qualcuno in particolare. Dunque: tutti e nessuno. Ma principalmente: nessuno.

C. Anche tutti, però. Se non altro perché tutti sembrano partecipare a qualcosa che ha l’aria d’essere un destino. Ad esso sono soggetti, come lo sono i personaggi di una storia già scritta, e come lo siamo noi, figli del nulla.

H. Destino comune a tutti.

C. E allora soffermiamoci su questo: tutti. C’è un punto su cui lei, professore, ha sorvolato. Ed è che l’esperimento di cui stiamo parlando può riuscire solo a una condizione. Ossia che tutti facciano la loro parte. Assumano quel destino che è di tutti e quindi anche il loro. Lo riconoscano. Al punto che esso diventa la cosa essenziale con cui identificarsi. Gli uomini delle SS appaiono su quella scena livida e spettrale come se non avessero avuto una vita precedente, ma da sempre fossero quello che sono: funzionari dello sterminio. Cui si dedicano con piena consapevolezza del ruolo. E non solo loro. Chiunque accetti un incarico, anche il più umile, lo fa con la massima diligenza, disponendosi a essere un ingranaggio di quella perfetta macchina di morte. Non importa che costoro siano vittime, e restino tali, sapendo di essere comunque condannati: prestano la loro opera. Non importa che lo facciano in nome di una improbabile dilazione della pena o altro: lo fanno.

H. Destino è pur sempre un esser chiamati, un appello.

C. Esser chiamati a… È triste il suo pensiero, Heidegger, sa di caserma. Ma le concedo che ci sia del vero in quello che lei dice. Anche gli innocenti sono stati chiamati a… A che cosa, nessuno potrà mai dire, ma non per questo la domanda è assurda.

H. Che la domanda non abbia risposta, e tuttavia sia impossibile non porsela, è il tragico. Era il tragico, in scena ad Auschwitz?

C. Non lo escluderei, anche se lei ci ha già fatto sopra dell’ironia.

H. Dopo tutto l’ironia è cosa del tragico.
C. I deportati non sapevano e non potevano darsi alcuna spiegazione del loro esser lì. Le ragioni che trovavano – ed erano magari quelle giuste! – apparivano talmente folli e insensate da risultare non credibili. Eppure avevano la percezione che su di loro gravasse un destino – del tutto indecifrabile, e anche beffardo, vera e propria cosa del diavolo, ma destino. Tant’è vero, tra gli scampati, qualcuno arrivò a dire che la sua vita non era senza senso, se aveva potuto sopravvivere e testimoniare. Aggiungendo però che i testimoni veri erano coloro che non potevano testimoniare perché erano dovuti soccombere: gli inabissati, i sommersi, che a un certo punto si offrono, inermi, al destino.

H. Testimoni gli uni e gli altri. Ma di che cosa? C. Testimoni del nulla, professore.

H. Vedo che anche lei è arrivato dove sono arrivato io.

C. Io lì mi ci sono trovato. E non perché lì volessi arrivare.

H. A ciascuno il suo tratto di strada.

C. Però…

H. Però?

C. Da lei mi aspetto un’altra parola. Una parola più essenziale. Intendo dire: più vera.

H. E dove trovarla? Nel nulla? Se è per questo…

C. Un esperimento, dicevamo. Nei campi ha avuto luogo un esperimento mai tentato. Varrebbe la pena interrogarsi sulla natura di questo esperimento, non crede?

H. Certamente.
C. Esperimento mai tentato.

H. Perché dice così? Sempre e ovunque, in ogni tempo, in ogni angolo della terra, per i motivi più diversi, abietti, fantasiosi, quali che fossero, l’uomo ha ucciso l’altro uomo. E soprattutto è accaduto che l’uomo usasse dell’uomo esclusivamente come mezzo e non anche come fine.

C. È accaduto qui, è accaduto sempre. Ma qui…

H. Qui in modo sistematico, su scala industriale, e con lo scopo di cancellare dalla faccia della terra un certo tipo d’uomo. È questo che intende dire?

C. Intendo dire che qui, uccidendo in quel modo, si è voluto uccidere non solo questo o quell’uomo, ma l’uomo. Si è voluto annichilire la sua essenza. Demolire la sua anima. Sbriciolare quanto c’è nell’uomo di più propriamente umano.

H. Questa è l’azione di una potenza che ci sovrasta.

C. No, questo è un esperimento che ha avuto luogo qui e soltanto qui.

H. Che cosa glielo fa pensare?

C. Il fatto che uccidere ed essere uccisi fossero eventi assolutamente impersonali. Non solo di routine, ma quasi superf lui… Qui ad Auschwitz si dava la morte e si moriva. E la morte la si dava non ai vivi, ma ai morti, ai già morti! E la si dava come non si era ancora mai visto: impersonalmente, quasi si trattasse di un fatto di ordinaria amministrazione.

H. È così che quella potenza si afferma e si manifesta.

C. Nondimeno era un esperimento, esperimento, capisce!

H. Sì, perfettamente.

C. Non credo. Lei avrebbe dovuto prestare orecchio a chi l’esperimento lo ha patito, insomma, le cavie, ma non lo ha fatto. E perché avrebbe dovuto? La teoria bastava e avanzava. Una volta afferrato il concetto, le verifiche empiriche sono un di più… Se ne può fare tranquillamente a meno.

H. Proprio così.

C. Invece no. E lo sa perché? Glielo dico io. Perché in quel di più capita di trovare un men che niente che ti obbliga a ripensare la teoria. Lei ha letto Primo Levi?

H. No.

C. Sa di chi sto parlando? H. Sì.

C. Primo Levi dice lo stupore che prese lui e i suoi compagni di sventura quando a Fossoli, dove erano stati radunati, furono fatti salire sui vagoni merci che dovevano portarli ad Auschwitz. Per metterli in riga e rendere le operazioni ordinate e rapide ci furono colpi, a caso. Una violenza superflua e fredda. Le sue parole sono queste: “… e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore… Soltanto uno stupore profondo: si può percuotere un uomo senza collera?” Eppure la risposta era lì, in quel Wieviel Stück? del maresciallo che vuol sapere dal caporale quanti pezzi sono stati caricati su ogni singolo vagone. Cose, non persone. O meglio, persone diventate cose: dentro quei vagoni chiusi dall’esterno – scrive Levi – uomini, donne e bambini sono compressi senza pietà come merce di dozzina: “in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo”.

H. Appunto: “in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo”. Dice proprio così, Levi? Esattamente quel che stavamo dicendo noi, mi pare.

C. Incipit experimentum: questo dice Levi! La cosa gli costa una specie di fatica mentale supplettiva. La sua teoria, professore, non l’aveva messa in conto, quella cosa.

H. Quella cosa tuttavia non contraddice la mia teoria, se vogliamo chiamarla così.

C. No, non la contraddice. Ma ci obbliga a ripensarla. O quanto meno a considerare le cose altrimenti.

H. Ossia?
C. Dal punto di vista di coloro che l’esperimento lo facevano e di coloro

che ne erano l’oggetto. Fondamentale è la percezione che gli uni e gli altri avevano del loro ruolo: da una parte i funzionari, di qualsiasi livello, naturalmente, anche il più basso e insignificante, e dall’altra i prigionieri, sia quelli che in qualche modo facevano resistenza sia quelli che invece accettavano passivamente la loro sorte (e anche qui, in entrambi i casi, quante differenze minime ma decisive!).

H. Secondo lei, come si dovrebbe considerare questa percezione che essi avevano di sé? Come l’acquisizione ad arte di una seconda natura, oppure come una maschera indossata pur sempre ad arte?

C. Chissà… Bisognerebbe vedere caso per caso, i mille e mille casi, con tutte le sfumature possibili e immaginabili. Certo è che SS e funzionari dovevano percepire se stessi come uomini superiori, e così si atteggiavano: uomini che si erano liberati della loro umanità come d’una limitazione indebita. Mentre i prigionieri, trattati come uomini inferiori, dovevano percepire se stessi come tali: uomini a cui il ricordo della loro umanità finiva con l’essere un peso insopportabile e un tormento ulteriore. Dovevano: quelli, se no non avrebbero potuto fare quello che facevano, questi, se no si sarebbero resi colpevoli di un atto di insubordinazione. Figuriamoci, voler essere uomini! il più grave atto di insubordinazione, nei campi, passibile di morte immediata.

H. Bene. E allora?

C. E allora il soggetto di quel dovevano non è anonimo e indifferenziato, perché è di volta in volta questa persona singola. Un turista, un po’ imbarazzato:

T. Le latrine, per cortesia.

C. Quelle storiche sono annesse ad ogni blocco, quelle in uso può trovarle laggiù. Prosegua per di qua, poi chieda.

T. Grazie.

C. Prego.

H. Übermenschen, Untermenschen… Non significa quasi nulla. Superiori, inferiori, gli uomini possono esserlo indifferentemente. Nessun punto fermo, nessuna linea di demarcazione, fra gli uni e gli altri, che permetta di dire: o questo o quello, o di qua o di là, o sopra o sotto. No, non esiste il paradigma uomo. Il fatto è che l’uomo è sempre oltre l’uomo, non importa se verso l’alto o verso il basso. C. Non significa quasi nulla, lei ha detto. Quasi nulla. Ebbene, non è nello spazio di quel “quasi” che si decide il destino di ognuno?

H. Un destino, comunque.

C. Sarà pure un destino, ma a me sembra che superuomini e uomini subumani fossero tali a seguito di un progetto che li riguardava. Un prodotto di laboratorio. Dove si è cercato di fabbricare vita allo stato puro, sì, nuda vita, vita che non è nient’altro che vita. Dunque, vita subumana creata dai superuomini.

H. I campi sono fabbriche di morte, non di vita. Non diversamente da tutte le altre fabbriche, del resto.

C. Ne è poi così sicuro? E se fossero invece fabbriche di vita? Vita disumana… Levi ha visto giusto, professore. Qui siamo, come lui dice, in un “complicato mondo infero” dove tutto è finalizzato a un unico scopo: la creazione di un essere umano totalmente svuotato della sua umanità. Fu subito chiaro, in un laboratorio del genere, che per realizzare questo obiettivo occorreva una cosa sola: portare l’uomo che ha cessato di essere tale fin dal suo ingresso nel campo in uno stato di totale indifferenza. Lei ha detto: l’uomo può essere così o cosà indifferentemente. Senonché l’indifferenza è una condizione a cui l’uomo deve essere portato. Non è facile, dice Levi, ma neanche impossibile. Bisogna togliergli il nome e tatuargli un numero sul braccio. Levargli i vestiti, le scarpe, tutto. Esporlo in tutta la sua vergognosa nudità allo sguardo di chi può fare di lui quello che vuole. Per costui la sola difesa è l’indifferenza. Ed ecco l’uomo nuovo che Levi ha visto comparirgli davanti: “Tutto gli è a tale segno indifferente che non si cura più di evitare la fatica e le percosse e di cercare il cibo. Eseguisce tutti gli ordini che riceve, ed è prevedibile che, quando lo manderanno alla morte, ci andrà con questa stessa totale indifferenza”. Ecco, nel laboratorio, nel campo di lavoro, è stata creata la vita postuma. La vita che è al di là della vita in quanto è al di sotto della vita. Vita, tuttavia.

H. E secondo lei quale sarebbe la ratio dell’esperimento?

C. La vita al di sotto della vita viene rimessa totalmente nelle mani del suo creatore, che non è Dio ma è il superuomo: il quale si pone al di là della vita in quanto è al di sopra della vita. Consegnare l’uomo subumano al superuomo è non solo un atto politico, che sancisce l’identificazione della forza con il diritto. È il nomos di quel “complicato mondo infero” che trionfa sul nomos della terra. Questo volevano, questo hanno ottenuto.

H. Lei sopravvaluta i nazisti, dottor Celan. Li ho conosciuti bene, io. Non erano così luciferini, mi creda. Più facile trovare fra di loro gente bestialmente stupida, nonostante qualche lampo d’intelligenza.

C. Eppure lo spirito del tempo si è manifestato in loro proprio come la luce che si fa nera nel punto cieco dell’occhio.

H. Questo sì. Ma a condurre la danza era pur sempre l’essere, non l’uomo! D’accordo, noi sappiamo che era una Totentanz, sappiamo che c’era chi impugnava la falce, e la usava con sovrana disinvoltura, magari con indifferenza, la stessa indifferenza di chi offriva la propria gola alla falce. E con ciò? Il motore stava da qualche altra parte. Comunque altrove. E sappiamo anche, dove. Nel nulla. Tant’è vero che tutti danzavano la loro danza al cospetto di una divinità totalmente sdivinizzata. Il nulla. Il nulla, come lei sa bene, carissimo Celan, è questa divinità che corrisponde specularmente all’uomo disumanizzato. A sua immagine e somiglianza.

C. Invece sa cosa le dico, professore? In quel nulla c’era tutto. E non solo nel nulla in nome del quale i carnefici impugnavano la falce, come dimostra il fatto che su di loro pesa un giudizio incardinato nella stessa eternità: saranno pure stati orrendi pagliacci, maschere, eppure sono maledetti per sempre, per sempre ludibrio e abominio graveranno su di essi. Ma anche nel nulla grazie al quale le vittime cessavano di soff rire e la condanna alla nuda vita o alla vita che non è vita si trasformava in una sorta di liberazione.

H. Grazie al quale, lei ha detto.

C. Sì. In quel nulla – e che fosse nulla, il più orrido e sordido nulla che si possa immaginare è fuor di dubbio – c’era tutto, tutto, incredibilmente. Anche ciò che non poteva e non doveva esserci – e che se c’era, e c’era, com’è altrettanto fuor di dubbio, c’era per grazia.

H. Ad esempio?

C. Ad esempio la vergogna. È sempre Levi a farlo notare. Non le vittime, questo è certo, dovevano vergognarsi dello stato a cui li riducevano i loro persecutori. Eppure erano le vittime, non i carnefici, che si vergognavano.

H. Questo significa, a me pare, che il nulla è più forte della necessità. È il solo fondamento che si possa ipotizzare. Vince perfino la logica. La precede e la governa anziché esserne governato. Con buona pace di chi ingiunge di bandirlo: “Tu non penserai il nulla…” Che errore!

C. Non poteva e non doveva esserci. No, non doveva e non poteva esserci, la vergogna. Eppure c’era! Non è un miracolo, questo?

H. Se le piace chiamarlo così…
C. Quanto più la vita era offesa, tanto più ne acquistava, curiosamente, in dignità. Non più che un tenue chiarore, questa dignità, intorno al volto o meglio alla sagoma dei subumani indegni di vivere, ma inestinguibile: come se non lo si potesse spegnere. Perciò si vergognavano, i subuomini. Anche di coloro che li umiliavano e li costringevano in quello stato; anche di tutti gli altri, anche dei compagni di baracca, di branda, ma soprattutto di se stessi. Per via di quella luce che resisteva al di là di qualsiasi verosimiglianza e ragione.

H. Però alcuni decidevano di lasciarsi andare, sceglievano l’abbrutimento, forse la loro intenzione era proprio quella di oscurare alla radice qualsiasi fonte luminosa, come chi di proposito stoppina il lucignolo. Una definitiva abdicazione della loro umanità.

C. Sì, ma la cosa importante non è l’opacità che ne deriva, e che si stende sulla vita come un sudario; non è neppure l’abbrutimento e l’abdicazione, perché invece è il fatto che essi, come lei ha detto, decidevano di lasciarsi andare, sceglievano

H. Una scelta che non è una scelta.

C. E tuttavia una scelta. Sì, un atto di libertà. Abdicando alla loro umanità, i musulmani – così venivano chiamati, non so se lo sa – si facevano testimoni dell’impossibilità di testimoniare. Un gesto inavvertito da chiunque, il loro, quasi insignificante, poco più che un automatismo di chi ormai non ha più niente da perdere, eppure… Eppure il gesto più dignitoso che un uomo possa compiere.

H. Dignitoso?

C. Al massimo grado. È il gesto di chi osa osa fissare negli occhi la Gorgonia, sapendo che ne sarà pietrificato.

H. Come infatti è accaduto.

C. Suicidio d’amore, a suo modo…

H. Suicidio d’amore?

C. Amore per la vita. Anche se sembra il contrario.

H. Attenzione a prenderlo ad esempio, quel gesto… gesto che potrebbe contagiare…

C. Che cosa intende dire?

H. Oh… Semplicemente, mi riferivo alla… esemplarità… del suicidio. Come lei sa, il suicidio suscita effetti emulativi molto pericolosi. C. Lo so.

H. Coloro che non ebbero il coraggio o comunque preferirono non compiere quel gesto – gesto di libertà, su questo sono d’accordo con lei, poiché solo la libertà può negare e annichilire se stessa, ma gesto eminentemente suicidario, e su questo spero che lei sia d’accordo con me – ebbene, quei prigionieri che poterono sopravvivere, sì, proprio loro, per il resto della vita si tormentarono per non averlo compiuto anche loro, quel gesto, si rimproverarono di essere testimoni che in realtà non possono testimoniare, vollero essere testimoni dell’impossibilità di testimoniare. Infine si suicidarono. Scelsero di abbandonarsi al gorgo, di buttarsi a capofitto…

C. Qualcuno dovrà pure aver pietà di loro, non crede?

H. Piano, piano… Nessuna cosa sia, dove la parola manca.

C. Nessuna cosa sia… se non… la parola che manca.

H. Un mio collega che non amavo particolarmente, e da cui sono stato amato anche meno, sosteneva che dopo Auschwitz nessuna poesia sarebbe più stata possibile.

C. Altri hanno sostenuto che la poesia solo ad Auschwitz è possibile e addirittura che ad Auschwitz solo la poesia è possibile. H. Ah sì… E chi?

C. Senta che cosa ha dichiarato primo Levi: “Adorno ha scritto che dopo Auschwitz non si può più fare poesia, ma la mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa, per esprimere quello che mi pesava dentro… semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz, non si può fare poesia se non su Auschwitz”.

H. Non sembra molto convinto, Levi, o sì? C. Gli avrebbe fatto eco Etty Hillesum.

H. Chi è? Mai sentita nominare.

C. Un’ebrea olandese, di Amsterdam. Racconta che a Westerbork, internata in quel campo di smistamento, un anno prima d’essere deportata ad Auschwitz, mentre se ne stava seduta a mangiare il suo cavolo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini, che dalla mensa si estendeva fino alla baracca di disinfestazione, se ne uscì dicendo a voce alta: “Si dovrebbe scrivere la cronaca di Westerbork”. Un uomo anziano seduto alla sua sinistra aveva replicato: “Sì, ma ci vorrebbe un poeta”. E lei: “Ha ragione, ci vorrebbe proprio un grande poeta”.

H. Le risulta che l’abbiano trovato?
C. Non era necessario. Il poeta era lì. La poesia era lì. In lei, Etty, che scriveva: “… dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare – e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande”. Poi: “Mi metti davanti ai tuoi massimi enigmi, mio Dio: Ti sono riconoscente per questo, ho anche la forza di affrontarli, di sapere che non c’è risposta. Bisogna saper sopportare i tuoi misteri”. E ancora. Sempre rivolta a Dio: “Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me”. Infine: “Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri… un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra disperazione”.

H. Temo che Levi, più sobriamente ateo, avrebbe avuto difficoltà a ritrovarsi in mezzo a queste declamazioni.

C. Al contrario. Scrive Levi… Ecco, partiamo da qui: Levi è tormentato da un incubo, sogna di essere a casa sua, intorno a lui i suoi famigliari, e lui vorrebbe raccontare tutto quello che ha vissuto, spiegare, ma non può, sa di non essere credibile. Del resto, come potrebbe venir ascoltato, se non riesce a venire in chiaro di quello che sta accadendo neppure se ne parla con un compagno il quale vive le stesse cose le stesse paure lo stesso orrore? Ci prova, nonostante tutto. E lo fa citando Dante. Con fatica, poiché la memoria ha dei buchi, e tutto è così fuori luogo… Fuori luogo? No. È appena passato uno simile a un diavolo di un girone infernale che appare e è…?

LUCE D’ADDIO – QUANDO IL SILENZIO È COMPLICE

subito sparisce, uno che “fa il male per il male”. Levi insegue verso dopo verso nella sua memoria il canto di Ulisse, traducendolo come può in francese per essere capito; ma quando arriva a “fatti non foste a viver come bruti” gli sembra di sentire quel verso per la prima volta, neanche fosse lui a recitarlo, ma un altro. Fu, dice “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio: per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”. Però non si ferma lì. Va avanti. Fino all’inabissarsi della nave, “infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso”, il che avviene non senza ragione, ma “come altrui piacque”. Levi dice che qui è come se gli si fosse mostrato “qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…”.

H. Se in questo passo Dante dice “come altrui piacque”, altrove dice – e dice perfino meglio – “vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”. In ogni caso abbiamo a che fare con un Dio lontano e senza nome, un Dio impersonale.

C. Quel Dio che ha nome Nessuno. H. Esattamente.

C. E allora diciamo: Tu sia lodato, Nessuno. Perché vede, Heidegger, è nel nome di quel Dio che noi…

H. … che noi?

C. Gegenwort, controparola… controparola è ogni nostra parola. Or

mai. Un guscio vuoto, un calco… H. Ho capito. Ci risiamo.

C. No, professore, non è questione di teologia negativa – immagino che sia questo che lei volesse dire.

H. “Il Signore ha spezzato il pane / Il pane ha spezzato il Signore”. Se non è teologia negativa, che cos’è, allora?

C. Poesia, professore, nient’altro che poesia. H. Controparola…

C. Sì, controparola. Che non è parola-contro: parola contro l’ingiustizia, contro i molti mali del mondo… E non è neppure parola-altra: parola che dice la morte di Dio, il silenzio di Dio, l’impotenza di Dio. Tutte cose della teologia, non della poesia.

H. Ma è…?

C. È la conchiglia che il bambino si porta alle orecchie per lasciarsi invadere dalla voce del mare che non c’è, eppure è lì… È il fossile che reca intatta la forma dell’animale che non c’è più, è la pietra che fiorisce, come se dentro avesse conservato un seme attraverso i millenni…

H. Gegenwort, Gegenwort!

C. Balbettante parola, tuttavia parola di verità. Amorosa parola di verità – vorrei aggiungere. Essa dice, come può, l’essere – l’essere violato e annichilito. Ma dicendolo dice: no, questo non deve essere! Perciò è parola amorosa. Come lo ama, l’essere, questa parola… Fin là dove l’essere si fa quasi nulla, cenere…

H. “Tutti i nomi, tutti / i nomi arsi / insieme. Quanta / cenere da benedire”. Che cos’è? Una preghiera o una bestemmia? Me lo dica!

C. È quel che lei vuole.

H. Sarebbe a dire?

C. Sì, lei vuole che sia una preghiera, in modo che risulti una bestemmia.

H. Già. E lei vuole che sia una bestemmia, in modo che risulti una preghiera.

C. Bestemmia o preghiera, non ha importanza. Importa ciò che resta. Fosse pure quasi nulla. Cenere. La cenere non è nulla, professore – sunt aliquid manes – la cenere è qualcosa, è la sola cosa che importa. Alla poesia, quantomeno.

H. Aristotele dice che la cenere è l’essere che non è più, l’essere che era…

C. L’essere che non è più, l’essere che era… non l’essere che è! H. Vuole spiegare a me Aristotele?

C. Per carità! Però voglio dire che la poesia, a differenza della filosofia, si prende cura dell’insignificante, dello smarrito, del perduto. Si china sul quasi nulla, non sul nulla. Stringe fra le mani un pugnello di cenere – cos’altro? E se lo porta al cuore. È caritatevole, la poesia, è umile la poesia, e lo sa perché? Perché l’arroganza è la cosa meno poetica che ci sia.

H. Lei mi sta dicendo che la poesia si rifiuta di andare al fondo delle cose.

C. Oh, no! Le sto dicendo che al fondo delle cose c’è pur sempre qualcosa di amabile, qualcosa che è degno di essere amato.

H. Al fondo delle cose non c’è nessun fondo. Al fondo delle cose c’è il nulla.

C. E sia pure il nulla, al fondo. Il fatto è che la poesia ama questo fondo che non è eppure è, questo resto. Lo ama e perciò lo maledice e lo benedice. Al fondo delle cose, d’accordo, c’è il nulla. Ma al fondo del nulla… Al fondo del nulla c’è l’amore – non crede, Heidegger?

H. Amore… Maledizione, benedizione… Cose che non fanno per me. Ci sento odor di teologia. Roba per quelli – e lei non è dei loro! – che si interrogano sul silenzio di Dio, sull’assenza di Dio, su Dio che si è dileguato.

C. Dileguato… Magari! La parola che ama la cenere… la parola che ama il nulla… è così oscura, professore!

H. Lo so. Ma è la sua parola! In grado di far luce proprio in quanto oscura.

C. No, Heidegger, non mia. H. E di chi? Di Dio, forse?

C. Certamente no. Eppure… la mia parola non è mia perché è qualsiasi parola, o – se preferisce – è parola qualsiasi, cioè parola di tutti, tutti e nessuno, sì, tutti coloro che sono morti, spariti, inghiottiti dal nulla, diventati nessuno, nessuno… parola che neppure sarebbe se non riecheggiasse in un’altra parola, parola che forse era al principio di tutte le cose ma certamente è alla fine di tutte le cose. E che cosa, se no? Dio non esiste, Dio non c’è, d’accordo: ma è. È lui, Nessuno. È sua la voce sprigionata dal nulla in forza del nulla. Suo il gemito che qui può udire chi non crede in lui. Come si può udire nel cavo di una mano il rumore di ciò che non c’è più. In questo senso io dico che la parola poetica “trasporta dal suo ormai-non-più al suo pur-sempre”. La parola poetica è controparola – capisce, Heidegger?

H. È questa, immagino, la parola che lei si aspettava da me.
C. Semplicemente, come le ho lasciato scritto nel libro degli ospiti, avrei voluto da lei una parola a venire. E che lei portasse il suo pensiero ancora più a fondo. Dove il pensiero incontra la poesia

H. Non l’ho fatto, secondo lei?

C. No, non l’ha fatto.

H. Sono arrivato dove nessuno era arrivato. Ho identificato l’essere con il nulla, io!

C. Però…

H. Pero?

C. Se l’essere non è…

H. Non è se non!

C. Se l’essere non è se non quello che può non essere, fino a essere nulla…

H. Allora?
C. Allora l’essere non è se non…

H. … se non…
C. …dono. La cosa più pura e più nascosta dell’essere è che l’essere è dono, non destino. Qualcosa per cui non resta che ringraziare. Non importa chi.

H. Dono. E magari, già che ci siamo, perdono.

C. Perché no? Anche se impossibile. Anzi: proprio perché impossibile. H. È questo il senso della controparola? Ma forse sarebbe più corretto dire: il non senso…

C. No, non è questo.

H. Ma è…

C. … quello cui lei è più sensibile e più sordo. Forse ne ha paura. E se ne difende.

H. La cosa mi incuriosisce.

C. Controparola può essere soltanto…

H. … la parola non detta, la parola che si sottrae al dire.

C. No. Controparola non può essere che parola amorosa, parola d’amore.

Celan sorride, accenna un saluto e si allontana. Poi, voltandosi:

C. Addio, Professore.
H. Così… tra il lusco e il brusco…

C. Abbiamo fatto anche troppo tardi.

H. Ma dove va, Celan?

C. E dove vuole che vada?

Nota

Heidegger e Celan si incontrarono a Todnauberg, dove Heidegger aveva una baita, il 25 luglio 1967; si incontreranno di nuovo nell’inverno 1969-1970, a Parigi pochi mesi prima che Celan si suicidasse gettandosi nella Senna e anche quell’incontro fu deludente. Heidegger si limiterà ad annotare: “Celan è malato e non esiste cura”. Era stato invece Celan a scrivere nel libro degli ospiti della casa di Heidegger nella Selva Nera la frase riportata nel testo, che allude sia a quanto l’incontro fosse rimasto al di sotto delle attese sia a un possibile incontro futuro. Il primo a documentare quanto avvenuto fu O. Poggeler (cfr. Spur des Worts. Zur Lyrik Paul Celans, Freiburg-München, Karl Alber Verlag, 1986, p. 259 e ss.).

Il concetto heideggeriano di “notte del mondo” è introdotto nella conferenza su Hölderlin del 1946 e tenuta in occasione del ventesimo anniversario della morte di Rilke, conferenza molto apprezzata da Celan e che si trova ora in Sentieri interrotti (Holzwege, Frankfurt am Main, Klostermann, 1950; trad. it. di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968), ma si inserisce nel quadro di opere in cui viene sviluppato il tema della “infondatezza” e della “abissalità” dell’essere quali Il principio di ragione, del 1957, di cui la copia in possesso di Celan risulta fittamente annotata (Der Satz vom Grund, Pfullingen, Neske, 1957; trad. it. di G. Gurisatti e F. Volpi, Milano, Adelphi, 1991). Di questa tematica i saggi contenuti in Segnavia (Wegmarken, Frankfurt am Main, Klostermann, 1976; trad. it. di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987) e in Contributi alla filosofia. Dall’evento (Beiträge zur Philosophie. Vom Ereignis, Frankfurt am Main, Klostermann, 1989; trad. it. di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2007) rappresentano lo sviluppo più ampio e più problematico.

Dopo la pubblicazione a partire dal 2014 (a tutt’oggi sono usciti i primi due volumi) da parte dell’editore Klostermann degli Schwarze Hefte a cura di P. Trawny, i trentaquattro taccuini heideggeriani 1930-1970 rilegati in cerata nera e fino ad allora giacenti presso il Deutsches Archiv di Marbach, D. Di Cesare in un saggio vasto e documentato ha inteso dimostrare, contro l’opinione dei maggiori interpreti novecenteschi di Heidegger fra cui Derrida, che in Heidegger “l’antisemitismo ha un rilievo filosofico e si inscrive nella storia dell’Essere” (p. 12). La stessa Di Cesare cita Perdonare di Derrida e afferma che secondo Derrida è necessario “pensare un perdono che, senza dimenticare, mentre vieta ogni assoluzione, non perdona che l’imperdonabile” (p. 251). Una reminiscenza che sembra rinviare a Celan, anche se non esplicita.

La nozione celaniana di “controparola”, così come quella di “lingua”, è fatta oggetto di rif lessione in Der Meridian – testo letto nel 1958 in occasione del conferimento di un premio letterario e contenuto nel vol. III delle Gesammelte Werke, a cura di B. Allemann e S. Reichert, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983 – ed è ampiamente tematizzata nelle liriche (cf r. la trad. it. di G. Bevilacqua, Poesie, Milano, Mondadori, 1998), mentre l’idea che l’essere debba essere inteso non tanto come Geschick, destino, bensì come Geschenk, dono, è puntualizzata in una lettera a H. Bender (ora nel vol. III delle Gesammelte Werke, cit.). Che la nozione di controparola vada interpretata nel senso di “parola amorosa” (parola che sarebbe della poesia e non della filosofia) è la tesi, fra gli altri, di L. Darsié in Il grido e il silenzio. Un in-contro fra Celan e Heidegger, Milano, Mimesis, 2013, dove si rinvia, soprattutto in merito all’incontro fra il poeta e il filosofo, a V. Vitiello, Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, Bari, Laterza, 1996.

Le citazioni di Primo Levi sono tratte da Se questo è un uomo: vedi l’edizione a cura di A. Cavaglion, Torino, Einaudi, 2012, dove si avanza l’ipotesi che il racconto di Levi si svolga pur sempre alla luce di una teodicea, anche se teodicea tragica e atea. Quanto a J. Améry (alias H. Mayer), ne parla e ne discute lo stesso Levi in I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2007, p. 93 e ss.

L’edizione integrale del Diario 1941-1943 di Etty Hillesum è stata pubblicata a Milano da Adelphi nel 2012. Tra le altre pubblicazioni su di lei va segnalato il fascicolo monografico che la rivista «Esodo» le ha dedicato nel 2014, n. 3.


Sergio Givone (1944) è professore emerito di Estetica all’Università di Firenze. Ha insegnato nelle Università di Perugia e di Torino ed è stato Humboldt-Stipendiat presso l’università di Heidelberg. Tra le sue pubblicazioni, alcune delle quali tradotte in francese, spagnolo, tedesco e catalano: Hybris e melancholia, Mursia, Milano 1974; William Blake, Mursia, Milano 1978; Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1986; Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il saggiatore, Milano 1988; Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995; Metafisica della peste, Torino, Einaudi 2012. È autore anche di tre romanzi, tutti pubblicati da Einaudi: Favola delle cose ultime, 1998, Nel nome di un dio barbaro, 2002 e Non c’è più tempo, 2008. – (maggio 2016) –

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