Come si fa a stare in casa, forzatamente, per giorni e giorni sapendo che potrebbero diventare settimane o mesi? Per saperlo c’è un modo: andare fino in Svezia, la culla dell’urlo come soluzione al confinamento.
In copertina Marina Abramović, 1975. “Single screen projection”. Courtesy Lisson Gallery
C’è un video che in questi giorni ho visto e rivisto più volte, è su YouTube, è stato girato in Svezia da un ragazzo sulla ventina, in camera sua. All’inizio il ragazzo guarda dritto in camera e dice: «Stoccolma, sono quasi le 10 di sera, ecco cosa succede qui quando una persona inizia a urlare di notte». Poi il ragazzo va verso la finestra aperta, si affaccia, e urla un lungo: «AAAAAAA!!»… l’urlo si diffonde nell’aria della sera, si affievolisce, passano pochi secondi di silenzio e qualcuno, chissà chi e chissà perché, dal buio risponde con un ululato. «AUUUUH!!». Poi arriva un’altra risposta, un altro urlo proveniente dai palazzi più lontani, che si vedono sfocati nelle immagini riprese da quello che è, probabilmente, lo smartphone del ragazzo. Passa qualche altro secondo e le urla diventano cinque, poi dieci, finché a urlare non sembra essere tutto il vicinato. Un coro di urla sgraziate, disperate e sovrapposte. Cosa ho appena visto in questo video? È la scena di una performance preparata in precedenza e poi filmata? Il rito goliardico di un gruppo di amici o di vicini di casa? In Svezia è usanza urlare la sera? Per saperlo ho cercato informazioni su internet, ho chiesto un’opinione su WhatsApp ad amici svedesi (e anche finlandesi, per capire se di usanze simili ne esistono pure nei paesi vicini). E così mi si è aperto un mondo… e in questo articolo provo a mettere in ordine ciò che ho trovato.
Partiamo dall’inizio. Su Reddit c’è una discussione su questo strano urlo collettivo notturno svedese, l’ha iniziata cinque anni fa un utente con il nickname “BuffPiggy” e oggi conta più di mille e trecento commenti. Quindi, dico tra me e me rasserenandomi, questa storia non ha incuriosito solo me. In ogni caso tra tutti i commenti mi colpisce soprattutto quello di un certo “Zerryx”, che dice:
“Da quando avevo 4 anni fino a quando ne avevo 12 ho vissuto a Lappkärsberget, con mia madre che lì era una studentessa all’Università. Ricordo di averle chiesto di quelle urla una sera. Invece di rispondere, lei mi portò subito fuori, sul balcone, e iniziò a urlare come una pazza e poi mi chiese di unirmi a lei. Ricordo di aver avuto problemi a parlare il giorno dopo… hahah! Mi spiegò che era per lo stress da esami che la gente usciva e si metteva a urlare. Da quel giorno alcune volte sono uscito sul balcone e ho iniziato a urlare. È stato dannatamente divertente quando tutti gli altri abitanti hanno risposto!”
Altri utenti, sempre su Reddit, hanno commentato dicendo che questa cosa ha un nome, si chiama “Flogstavrålet”, è una tradizione che non si sa bene come sia nata, ma in Svezia esiste da molto tempo, da anni. C’è chi sostiene sia un modo di alleviare, collettivamente, lo stress. Quindi, mi chiedo, sono urla liberatorie? Sul sito dell’Università di Uppsala c’è una pagina interamente dedicata a questo tema, e dice che anche se non si sa bene chi e come abbia avuto inizio la tradizione una cosa è certa, sin dall’inizio degli anni settanta ogni sera, precisamente alle 22:00, soprattutto a Sernanders väg, una zona di Flogsta, dalle finestre degli studenti cominciano le urla. Ci sono state persino delle misurazioni in Decibel, oltre che registrazioni audio e video del fenomeno. L’urlo collettivo di Flogsta è diventato una tradizione. Si legge sul sito: “un’attrazione e una valvola di sfogo sicura per quelli che sentono che un gesto liberatorio può aiutare a gestire l’ansia e lo stress della vita da studente”.
La storia sembra partire da molto lontano. É andata più o meno così: erano gli anni settanta, tempi in cui le università erano ancora rigide istituzioni per privilegiati, tempi in cui i movimenti studenteschi provavano a sabotarne le logiche e le gerarchie, tempi in cui l’arte contemporanea giocava un ruolo importante in questi anni ribelli, erano gli anni di Gina Pane che, usando delle spine di una rosa, si bucava le mani facendole sanguinare. Insomma, erano questi anni qui, anni di subbuglio, e nel distretto studentesco di Flogsta, a nord di Stoccolma (circa un’ora di macchina dalla capitale) vivevano tanti, tantissimi studenti. E anche oggi quello è un quartiere studentesco, disseminato di grandi alberi, aree verdi e casermoni di cemento (mi è bastata qualche ora passata su Google Maps). Poco distante c’è la strada che poi va dritta a nord, verso Umeå, Luleå e poi il Circolo Polare Artico. Sempre più a nord, sempre più lontano dal tepore delle piazze europee, dagli autunni caldi francesi e italiani di quel tempo. Ecco, erano gli anni settanta e qui, a Flogsta, nell’avamposto studentesco a nord del vecchio continente gli studenti alle 10 di sera per qualche ragione cominciarono a urlare.
La prima volta dev’essere stato surreale, qualcuno deve aver iniziato con un urlo solo, magari nato dalla rabbia per un proprio fallimento, impossibile saperlo ora che è il 2020. In ogni caso qualcuno deve aver urlato la prima volta, e in tutta risposta si dev’essere ritrovato a sentire delle altre urla. Delle risposte. Surreale, certo, proprio come queste urla oggi sembrano a chi vede i video su YouTube per la prima volta, o a chi, magari per puro caso, si trova a passeggiare per quella zona verso sera e, di colpo, si ritrova in un mare di urla angoscianti. Cosa potrà mai pensare un ignaro passante? Che c’è un incendio? Che qualcuno ha avuto un malore? In ogni caso io penserei a una qualche tragedia… niente di positivo.
-->Forse, la prima volta che l’urlo collettivo successe, era il periodo degli esami universitari, forse erano notti solitarie fatte di letture, ripassi forsennati di appunti e, per gli studenti, di lotte interne con la propria forza di volontà. È così che spesso l’ansia cresce: le aspettative auto-imposte prevedono una rigidità e un impegno a cui la mente sfugge. E così i sensi colpa prendono il sopravvento, negando il sonno, alimentando l’angoscia, riemergendo nell’inconscio. Dev’essere andata così, gli studenti, chiusi in casa con in testa lo stress della performance dell’esame, sommersi di informazioni e ansia, col sonno scombinato e la vita sociale messa in pausa, devono aver pensato che urlare fosse una buona idea: un momento liberatorio, uno solo, e le risposte degli altri, anche sconosciuti, capaci di rassicurare che quell’ansia non sia solo propria. Studenti, quindi persone dal futuro incerto, ansiosi e con mille pensieri, magari genitori novelli proprio come lo era la mamma di Zerryx.

Dopo mezzo secolo è difficile risalire a qualcuno che, all’inizio degli anni settanta, faceva l’Università a Uppsala e ha visto nascere questo strano urlo collettivo. Dovrebbe esser nato intorno agli inizi degli anni cinquanta, quindi oggi avrebbe almeno settant’anni. Difficile ma non impossibile, no? Così ci ho provato. Per qualche giorno ho cercato contatti di studenti dell’epoca attraverso amici scandinavi, ho chiesto dei loro nonni, ma non ho trovato nessuna informazione utile. Ho sentito (anche se indirettamente) un paio di anziani svedesi, ma della tradizione dell’urlo di Flogsta hanno solo “sentito parlare”. Pazienza.
In ogni caso, leggendo qua e là ho visto che, oltre che “Flogstavrålet”, il nome di quest’usanza è anche “Elvavrålet”, che in svedese dovrebbe significare qualcosa come “ruggito delle undici”. Questo sarebbe diffuso anche in altre città, come Lund, nel sud della Svezia. Ma i nomi non finiscono qui: c’è chi lo chiama “il ruggito di Delphi” dal nome di un’altra zona studentesca, oppure quello che secondo me è il nome più bello e significativo di tutti: il pianto di Lappkärr. Che è l’abbreviazione di Lappkärrsberget, un quartiere di Stoccolma. Quando ho letto questo nome ho ricominciato a googlare aggiungendo alle ricerche la parola “cry”, e così ho trovato che alcuni svedesi lo conoscono come “il pianto delle dieci”, oppure “l’urlo dell’ansia”. Finalmente. Quando ho trovato che ci sono dei nomi che legano il fenomeno all’ansia o all’atto di piangere, ho sentito finalmente la curiosità saziarsi: se si chiama così, ho pensato, allora è la prova che è davvero un gesto collettivo nato e protratto nel tempo per liberare dallo stress la collettività. Non è uno scherzo, non c’entra la goliardia, non è un vezzo dadaista e non è nemmeno, come dice il sito dell’Università di Uppsala che vi dicevo poco fa, “un’attrazione”.
Questa storia l’ho raccontata oggi, che è il 2020 e siamo tutti chiusi in casa in quarantena per via della pandemia dovuta al coronavirus. Le urla serali alla finestra, di colpo, non ci paiono troppo strane, mentre fino a qualche settimana fa lo sarebbero state eccome. Oggi sono in tanti a cantare, più o meno romantici e sguaiati, da balconi finestre e terrazzini. In Svezia, però, non è un modo emergenziale di fare socialità, ma una presa d’atto di una crisi costante, di una sofferenza distribuita e permanente. E forse a noi è questo tassello a mancare. In TV sento dire in continuazione che ai nostri nonni è stato chiesto di andare al fronte, mentre a noi di stare sul divano. Un modo carino (anche se ormai poco originale) per dire che non ci possiamo lamentare. E invece no, si sbagliano: la sofferenza non è solo fisica, l’ansia e lo stress sono cose serissime, che possono uccidere quanto uccide una mina o una mitraglietta. E questo, nonostante la crisi, non l’abbiamo ancora capito, quindi vale la pena ripeterlo. C’è gente che sta male, che non ha un soldo e se sta chiusa in casa non sa come pagare le bollette, e c’è gente dipendente da droghe che impazzisce se non trova più le dosi, e poi c’è altra gente che soffre di attacchi di panico e che se non esce mai a prendere aria finisce per ammazzarsi lanciandosi di sotto. La socialità, la compagnia e il conforto del supporto psicologico sono fondamentali per molti di noi, soprattutto per i più deboli. Non sono comfort, non sono roba da generazioni di giovani pigri.
La nostra psiche con l’ansia, con lo stress e la paura, non la sappiamo gestire al meglio e in tempi come questi, di solitudine e notizie spaventose siamo tutti, almeno un po’, ansiosi e impauriti. Ed è per questo che secondo me bisognerebbe saperla questa storia dell’urlo di Flogsta, e magari raccontarla per spiegare come il bisogno di sentirsi meno soli sia urgente e universale e lo sia anche in tempi normali. Lo è ogni sera, ogni volta che il sole cala. Serve urlare l’ansia, sfogare la paura e l’angoscia e rendere questi sentimenti negativi pubblici e condivisi. Lo hanno fatto gli studenti di Hong Kong durante le loro proteste, per sapere di non essere soli, per vomitare l’angoscia nell’aria della notte. Così dovremmo fare noi di questi tempi. Anche perché il come la nostra psiche affronta la solitudine è impossibile da prevedere: dipende da quanto dura questo nostro isolamento, da come viviamo le lontananze e da mille altri fattori. A proposito, su questo mi ha colpito molto la frase di un amico scrittore, con cui lui descriveva la stranezza di questi giorni di quarantena:
“Pensavo che in questi giorni amici, colleghi e parenti in videochat ci si manifestano come personaggi letterari o cinematografici: quasi reali ma privi ad esempio di odore, temperatura, e della facoltà di interagire con gli oggetti della nostra realtà. Non so voi ma io mi accorgo già che alcuni sensori empatici incominciano ad arrugginire, mentre se ne accendono di nuovi”
Sono meccanismi, quelli che descrive questa frase, psicologici e sociali che mutano velocemente, anche fuori dal nostro controllo. Ecco perché è sbagliato sottovalutarli dicendo che “a noi è chiesto solo di rimanere sul divano”, come se questa che stiamo vivendo fosse una vacanza.
Comunque, per chi non lo avesse ancora googlato, il video di cui parlo all’inizio, lo trovate a questo link.
Se invece avete delle notizie su come sia nata la tradizione dell’urlo di Flogsta (la speranza è l’ultima a morire, io ci provo) scrivetemi a pitzianti.enrico(chiocciola)gmail.com
A me un dott.omeopatico suggeri di prendere la macchina,allontanarmi in un luogo appartato e URLARE xchè ammirava la mia resistenza accanto ad una situazione famigliare difficile.
Io, sono solo uscita di casa…al mio ritorno un grandissimo abbraccio tra me e i miei!
Il resto preferisco non raccontarlo, ma suppongo che avesse ragione allora il dott.come oggi tu e come i popoli nordici…
Senza ironia , con molta riconoscenza
Non ho nike neime( non parlo l’inglese, scusami se ho sbagliato…)
Buonavventura a noi!!!!!!!!