Dall’antica scuola filosofica eleatica è possibile apprendere un nuovo modo di rapportarsi al tempo, che potrebbe migliorare la qualità della nostra vita.
In copertina e nel testo: opere di Dino Valls
(Questo testo è tratto da “Lezioni di felicità” di Ilaria Gaspari. Ringraziamo Einaudi per la gentile concessione)
Ho nostalgia della tersa pace pitagorica, di quella stolida obbedienza che avevo sviluppato per regole qualche volta anche incomprensibili, ma tanto rassicuranti.
Ora posso solo pensare, invece; e finisco a riflettere su quanto sia radicata in me l’abitudine di vedere la vita come la freccia che vibra nell’aria e vola velocissima, come un Achille che in due balzi supera la tartaruga senza nemmeno che quella se ne accorga, la lascia indietro, la dimentica, lontana, e lei rimane nella polvere della strada con la sua casa semovente, con il suo guscio lento, con l’estenuante flemma dei suoi passi.
Sono abituata – siamo abituati? – a sentirci frecce scagliate lontanissimo; pensiamo di dover arrivare, vibrando nell’aria che basta a malapena a sostenerci, dritti all’obiettivo, di conficcarci nel bersaglio, tremare intorno alla punta affilata che ha colpito, ha colto nel segno – che è arrivata. Ma dopo due giorni che mi arrovello sui paradossi di Zenone e sul fatto che l’esperienza sensibile del trasloco non riesca, dopotutto, a contraddirli, mi prende un bizzarro desiderio, una tentazione irresistibile di rovesciare tutto quanto e guardare anche dall’altra parte, come se il mondo all’improvviso potesse marciare in senso contrario, come se volessi provare, fino in fondo, fino all’ultimo momento di questa settimana, a scomporre la mia esperienza in un prisma di stupore.
E allora inizio a ragionare in un modo che non è il solito, e a dirmi: e se fossimo frecce immobili? Se il puntare verso qualcosa non fosse che un puro accidente, e non una direzione che ci attira, non un luogo verso cui è giusto andare, non una meta, non un obiettivo? Se non ci fosse nessun bersaglio, nessun moto a luogo, nessun centro in cui conficcarci; se non ci fosse altro che l’immobilità sospesa degli istanti?
È strano: un pensiero cosí banale, che avrei sottovalutato se me l’avesse riferito qualcuno, magari a un ritiro di yoga, con l’intento di darmi un consiglio, di dirmi di rallentare un po’ e chiedermi dove sto correndo, ora mi pare una rivoluzione, sconsolata e già un po’ sconfitta, ma pur sempre una rivoluzione.
-->Forse è solo perché ci sono arrivata da sola, seguendo un percorso tortuoso, le pagine ingiallite e l’odore di libro vecchio che ha il mio Diels-Kranz, la desolazione della casa semideserta, l’aria di abbandono, l’improvvisa inconsistenza di un posto che avevamo costruito pezzo per pezzo perché dovesse essere la casa dei giorni futuri, quando tutto sarebbe stato facile. Ma ora che ci penso, proprio perché pensavamo solo a quello che ancora andava fatto, a domani, a dopodomani, a fra un anno, è stato come se la vita insieme mia e sua, in questa casa, non fosse mai iniziata.
Mancava sempre qualcosa: c’era in ogni momento una libreria da montare, un tappeto da comprare, un’abitudine che riuscivamo soltanto a immaginarci in teoria. Avremmo desiderato per esempio cenare a lume di candela, ripetevamo quanto sarebbe stato bello, eppure non lo facevamo mai. Prima, c’era immancabilmente qualcosa da perfezionare: la freccia, puntata verso un bersaglio invisibile, noi pensavamo che sarebbe arrivata a segno, e che ci sarebbe arrivata presto.
Ora vedo – e ci voleva Parmenide per rivelarmelo? la verità era lampante da sempre, ma io cieca; sí, ci voleva Parmenide e ci volevano i paradossi che Zenone costruí per amor suo duemilaquattrocento anni fa con implacabile intelligenza –, ora vedo che la freccia era ostinatamente ferma, in ognuno di quegli istanti in cui ci pareva di vederla viaggiare alla velocità quasi della luce. E invece la vita era immobile: era negli istanti in cui tutto doveva ancora succedere, in cui ci dicevamo che avremmo fatto questo e quello, e non lo facevamo. La vita era tutta in quei momenti di stanchezza e di sospensione; non era una corsa sfrenata, nell’aria che vibra, verso il bersaglio. Che dolcezza inattesa mi prende a questo pensiero; eppure, un attimo piú tardi mi sorprendo a esitare e a domandarmi se non sia per caso disperazione. La differenza, a pensarci bene, non è cosí evidente: si tratta pur sempre di un abbandono.
E allora anch’io mi avvicino piano alla resa. Dovrei arrendermi al pensiero che non c’è bisogno di essere avari del proprio tempo. Credere che la freccia debba per forza andare a segno, credere che Achille con i suoi piedi veloci debba per forza lasciare indietro l’esasperante lentezza della tartaruga, certo, è naturale. È il pensiero che nasce dall’osservazione continua della realtà, da quel che ci ripetono i sensi, dal principio induttivo, che non intendo sbugiardare ora. Lo so anch’io che il paradosso di Zenone non tiene, perché è per l’appunto un paradosso, e lo sapeva bene anche lui, altrimenti non funzionerebbe nessuna riduzione all’assurdo; lo so che i sensi hanno ragione e non ingannano; non fino a questo punto, per lo meno.
E però c’è qualcosa che il paradosso mi insegna, in una casa quasi vuota, in giorni in cui mi sento fallire e penso alla bancarotta assoluta del mio tempo, delle speranze che ho spiato crescere, della vita che credevo di aver costruito, poco alla volta, perché l’avvenire potesse essere luminoso e facile e risplendere di quella straordinaria efficienza che tutti i pigri immaginano nella loro inesistente vita futura. I paradossi di Zenone mi insegnano che può anche essere un errore sovrapporre al tempo una freccia, credere di vederlo scorrere sempre in una direzione, dritto verso un obiettivo. E che ci derubiamo del tempo, della piccola perfetta finitezza degli istanti, quando lo proiettiamo tutto in avanti, quando immaginiamo di vederlo correre; quando pensiamo a quel che punta la freccia e non, invece, a cosa la sostenga nel punto in cui si trova.
Forse è vero che la tartaruga non è sconfitta nemmeno dal piú veloce degli eroi. Rincorrere esperienze che mi formino, che mi facciano crescere, collezionare fallimenti per impararne qualcosa, accumulare prima voti sul libretto e poi voci sul curriculum, soffrire per amore promettendomi che cosí non capiterà piú, conteggiare successi e delusioni, segnare una nuova tacca sulla mia esperienza del mondo, allungare di un’altra pagina la mia biografia – insomma pensare la vita come un progresso continuo e obbligatorio, una risposta al dovere di crescere e di migliorarsi – all’improvviso mi sembra solo una distorsione, una strana illusione ottica.
Perché quest’abitudine di capitalizzare il tempo mi ha resa avara, insensibile alla perfezione degli istanti. Perché ho considerato fallimenti i momenti di immobilità, di silenzio, i momenti inutili; mi sono parsi sprecati e invece, forse, erano solo piú veri. Forse era nei momenti in cui la freccia rimaneva immobile, sospesa nell’aria, senza andare né di qua né di là, che il tempo mi si rivelava per quello che era: avrei capito, allora, se solo avessi osato guardare, che gli attimi lo componevano come perle che compongono una collana. Ma non li ho voluti vedere, non ho voluto acchiappare gli istanti uno dietro l’altro, ridendo come quando si mangia una manciata di ciliegie; e invece avrei potuto, dovuto, anziché rincorrere sempre l’obiettivo, anziché desiderare la velocità di Achille.
La vita è una, certo, come si ripete quando si vuole esaltare la spaventosa vertigine che dà il senso di avere un tempo limitato, quando ci si spaventa della rivelazione che le ore passate a dormire sono troppe, e si ha la sensazione di perderle, di vedere il proprio tempo che evapora nel nulla. Ma non sono piú cosí sicura che pensare di dover sfruttare ogni istante abbia davvero senso. Perché – ci faccio caso solo adesso, e chissà se ci avrei mai pensato, senza la sottile violenza logica che sulla mia concezione del tempo, finora cosí ostinatamente conformista, ha esercitato Zenone di Elea – proprio il fatto di credere che debba essere tutto utile, che ogni esperienza debba per forza servirci, farci crescere e maturare come frutti nella tarda primavera, rende avari di tempo.
Ci avete mai riflettuto? Io, per via della mia accidia (quella stessa accidia che ho tentato di curare con il pitagorismo), oltre che per la discutibile scelta di lavorare da freelance, mi ritrovo a sperimentare fasi alterne di indigenza relativa e di relativa agiatezza; e nel turbinoso avvicendarsi di queste due condizioni ho capito una cosa che, come i paradossi di Zenone, è piuttosto controintuitiva: e – che strano – arrivo a pensarla ora che medito sui bizzarri avvitamenti del tempo.
La questione è molto semplice: quando (ed è successo spesso) mi sono ritrovata con pochi soldi, il conto quasi scoperto, un senso di estrema precarietà oltre a qualche ragionevole dubbio sulle mie scelte professionali, una volta sopperito alle piú essenziali necessità mi sono sorpresa a sperimentare un distacco tutto nuovo dai beni materiali, dall’esigenza di avere di piú, di guadagnare meglio; un distacco che confinava con la generosità oltre che con una certa spensieratezza. Era incoscienza, era fatalismo? Sí, anche. Era però soprattutto una rassegnazione serena e divertita a una condizione che non mi sarei augurata di provare; era anche la scoperta che un pacco di pasta bastava per cinque pasti, ed esempio, e che dopotutto non avevo bisogno di molto altro, pagate le bollette. Non dico che sia bello o augurabile, e nemmeno che qualche volta non sia un po’ iniquo, ritrovarsi senza una lira, senza potersi permettere di pensare, oltre che all’essenziale, anche un pochino al superfluo, o temere meno le emergenze.
Ma tutto sommato, per me almeno, è sempre stato liberatorio, in qualche modo tortuoso; mentre al contrario, nei periodi di maggiore agiatezza – per chiamarla in maniera lusinghiera – subentrava la sottile angoscia di disperdere i soldi, per una volta che ne avevo. Chissà se succede solo a me o se ne posso trarre una riflessione generale? Quello che so è che non appena mi ritrovavo ad avere qualche spicciolo in piú iniziavo a soffrire di ogni spesa. Potevo comprarmi il salmone affumicato, tutte le squisitezze che volevo: benissimo, non lo facevo, o se lo facevo, era con l’angoscia nel cuore, con l’ansia di vedere il gruzzoletto consumarsi. Eppure, mi dicevo, i soldi sono fatti per essere spesi – o no?
È un atteggiamento contraddittorio, certo. Ma non si limita al denaro. È buffo: somiglia molto a quel che mi succede con il tempo. Quando ne ho poco, quando ogni istante è prezioso – allora con il tempo sono generosa, ne gioisco; esiste solo il presente, e gli istanti sono come ciliegie. La paura di perderlo, l’avarizia con cui lo centellino, crescono quando ho la sensazione di avere del tempo da perdere: subito mi trovo vincolata al dovere di farlo fruttare. È allora che mi affanno a superare tartarughe, a scoccare a segno ogni freccia. E cosí le frecce che finiscono conficcate per terra, o fuori dal bersaglio, diventano muti rimproveri. Quelle frecce sono il senso di fallimento che mi ha assalita quando ho iniziato questo trasloco, alla fine di un amore. Il tempo che credo di aver perso amando la persona sbagliata, chi me lo ridarà indietro? Questo mi addolora – mi addolorava, almeno, fino a quando non ho incontrato Zenone. Che meschinità verso di me, verso la vita, verso il tempo, convincermi di averne perso tanto solo perché sono rimasta delusa, solo perché l’investimento non è andato a buon fine. Che orrore, ostinarsi a vedere una storia che finisce come una bancarotta – che stupido, pensare che il tempo e l’amore e la vita siano solo un richiamo all’efficienza.
Sí, mi aspettavo che lui sarebbe rimasto con me, nel presente e nel futuro, ma ci credevo davvero? E se la risposta è sí, perché allora tradisco quel senso di futuro ormai superato facendo a pezzi tutti gli attimi in cui la freccia era sospesa su un istante, e mi volto indietro a guardarli solo per dirmi che sono stati inutili?
Non sono stati inutili, invece; ma io ero incapace – finora – di apprezzare il tempo. Non mi sono potuta impedire di vederlo come una successione convergente, una freccia gigantesca che punta a un domani vagheggiato, a un’illusione. E invece quei momenti, come ogni stanco movimento della tartaruga, sono esistiti: solo, non nella prospettiva di un futuro che poi non è arrivato e nemmeno arriverà, a quanto pare. Sono esistiti come esiste questo presente, l’ultima sacca piena di carabattole, l’ascensore preso per l’ultima volta, che non è diversa dalle altre se non per il fatto di essere probabilmente l’ultima – questo però lo vedremo solo alla luce del futuro che adesso, ancora, non è. Non è nel tintinnare della griglia di ferro dell’ascensore che si ferma al piano, nel richiudersi improvviso delle porte, nella discesa rapida al piano terra, nel senso della gravità, che ci attira verso il basso, con l’ineluttabile senso dell’essere. È l’Ananke di Parmenide, il suo limite e fondamento? È questa immobilità eterna dell’istante, il segno della ben rotonda verità? O forse è solo il momento in cui accetto di scomparire, e scompaio dal palazzo, dalla casa che ho abitato; e, scomparendo, mi sottraggo al senso di colpa per essermi tradita?
Non penso piú di aver sbagliato, smetto di ripetermi che sono colpevole delle mie illusioni; se pure mi sono ingannata, era perché in quel momento l’aria sosteneva la freccia in una certa inclinazione, perché c’erano condizioni in cui non potevo essere sospesa diversamente; perché era un attimo identico eppure diverso dal precedente, dal successivo. Disgrego i miei rimpianti in una nuova idea del tempo in cui il passato non è piú, come ho sempre creduto, quel che mi ha fatta approdare all’oggi ed è scomparso, ma una necessità che è stata necessaria quando era il suo turno, staccata da oggi, staccata da domani, come una perla in una collana. Non ho la sterminata parabola di una freccia, di fronte a me; e allora sento, infine, che mi posso dissipare in una miriade di istanti che non ho piú paura di sprecare.
Dismetto la mia avarizia di momenti, di nuovo, di vita; e la pretesa spropositata, superba, di poterli dominare tutti, di averli in pugno, mentre comincio a pensare che il tempo esiste apposta perché possiamo scialarlo, che esiste solo per poter passare.
La prima sera nella casa nuova, nel silenzio delle stanze ancora vuote, tiro fuori un libro che mi ero conservata per un momento in cui lo potessi aprire senza piangere. E finalmente leggo i versi di Valéry su Zenone, in un piccolo poema che parla di un cimitero sospeso sul mare.
Zenone! Duro Zenone Eleata!
Mi hai trafitto con quella freccia alata
Che vibra, vola e che non vola! Vita
Mi dona il suono, e la freccia mi uccide!
Ah! il sole… quale ombra di testuggine
Per l’anima, a gran passi Achille immoto!
No, no!… In piedi! Nell’era successiva!
Spezza, o corpo, la forma fissa! E bevi,
O mio petto, quel vento che si leva!
Una frescura, dal mare esalata,
Mi dà respiro… O forza salata!
Corriamo all’onda per balzarne vivi!
Nel silenzio ripeto l’ultimo verso, finché non perde ogni senso, finché non so piú per quante volte ho detto e ridetto le parole co rriamo all’o nda per balzarne vivi!
Tanto nessuno mi risponde, e perdendomi nel buio di un salotto in cui nessuno sa di me, mi sembra di possedere di nuovo il tempo, il mio tempo che non ho piú paura di sperperare.
© 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
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