Rieccoci a commentare un canto del paradiso dantesco col nostro “CCC”, cioè il progetto di Commento Collettivo alla Commedia: una revisione collettiva, in chiave contemporanea, della più importante opera letteraria mai scritta nella nostra lingua. Questa volta il canto è il decimo.
IN COPERTINA un’opera di Simon Quaglio.
di Roberta Tosi
Con il contributo di
Un tripudio di interminabili stelle, un manto che si distende a protezione e a elevazione: quanto è dantesco il cielo di Giotto nella Cappella degli Scrovegni? Ne varchi la soglia, e dopo un primo attimo di stupefacente fulgore per quello scrigno di quieta e potente bellezza, non puoi farne a meno, una mano invisibile ti conduce (o dovremmo dire ti seduce?) lo sguardo verso l’alto. E si squaderna davanti ai tuoi occhi una volta che è già firmamento e squarcio d’eterno. Dante lo aveva capito che nella pittura «ora ha Giotto il grido» (Pg XI 94-96) e che se Dio abita i cieli, dopo che suo Figlio ha scelto d’incarnarsi per mostrarcelo, è lì che l’anima tende senza quietarsi mai.
E aveva ragione anche Mark Rothko, il più mistico e rigoroso degli espressionisti astratti (il quale non si considerava affatto un espressionista), che con la sua pittura riusciva a trattenere vertigini di sacralità e apparizioni del divino. Nel suo spazio, di puro colore, impastava silenzi e luce, epifanie ipnotiche che conducevano, e conducono ancora, a cavità e profondità inaspettate e contemplative. Cieli, i suoi, imbevuti di mondo. Volte dove gli astri li puoi cercare negli abissi della materia oscura e nel calore essenziale di ogni gesto sulla tela. Certo Rothko non si pensava un uomo religioso eppure, affondando nella materia cromatica, aveva ragione quando affermava che l’arte o è estasi o non è niente.
Tutta l’opera artistica si pone in questa squilibrata ed esasperata tensione, gravida di nostalgia, che vuole essere liberazione. Jean-Luc Nancy lo sintetizza egregiamente affermando come l’arte stia in questa perenne oscillazione, in questo corpo a corpo con la “greve materia” del mondo attraverso la “greve materia di questo mondo”. Non c’è scampo. Se non quando l’essere umano e l’arte si aprono alla dismisura, al quel trasumanar che ispira e tutto muove. Allora bisogna averlo, sentirlo questo eccesso, questa estasi che è fuoriuscita da se stessi, è abbandono per essere spinti al di là di ciò che è conosciuto. E in questo venire, in questa ascesa vertiginosa, ogni cosa si annulla tanto sono potenti la forza e la visione.
Accade così che perfino Dante guardando Beatrice salga vertiginosamente, lasciandosi alle spalle il Purgatorio, senza accorgersene. Sale con gli occhi fissi nei suoi: «Nel suo aspetto tal dentro mi fei» scrive nei primi versi del Paradiso. In fondo (ovvero che sta a fondamento di tutto), si trova questo movimento, questa forza propulsiva, di cui sente la necessità e la mancanza, ciò che induce il poeta a scrivere la Commedia. Lo aveva annunciato a conclusione della Vita Nova: «Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna.» Lo muove la domanda, che è anche implorazione e rischio. Per poterla “rivedere”, per ritrovare quel miracolo strappato via troppo presto alla vita, per comprenderne il senso.
«Com’è vivo, acceso, lieve e spudorato quest’uomo che sale in Paradiso non sa come ma di certo guardando il volto della donna che ama.» Ha scritto il poeta Davide Rondoni. Eppure in questo movimento vertiginoso ed estatico in cui Dante viene a ritrovarsi, immerso in una luce ineffabile e tra gli “ardenti soli” degli spiriti sapienti, c’è un momento, solo uno, in cui la visione trascende ogni cosa ed è così intensa da togliere il fiato. «Tutto in Dante è visione», afferma lo scrittore Giuseppe Conte. Ed è nel desiderio di vedere e di comprendere più a fondo che il poeta sembra dimenticarsi perfino di lei… «Cor di mortal non fu mai sì digesto/ a divozione e a rendersi a Dio/con tutto ’l suo gradir cotanto presto,// come a quelle parole mi fec’io;/ e sì tutto ’l mio amore in lui si mise,/ che Beatrice eclissò ne l’oblio.» È solo un attimo, che appare come lo spazio sospeso tra due respiri, poi torna lì, su quel volto amato per scorgerne la reazione.
-->«Non le dispiacque, ma sì se ne rise,/ che lo splendor de li occhi suoi ridenti/ mia mente unita in più cose divise.» Lei sorride, i suoi occhi sorridono, per quel momento che è tutto rapimento. Chissà se Elisabeth Sonrel, pittrice francese di fine Ottocento, innamorata di Botticelli, dei preraffaelliti e dell’Art Nouveau, aveva pensato anche a questo nel ritrarre la “sua” Beatrice. A quel sorriso che lentamente sembra farsi strada nel suo viso assorto. Non c’è riferimento al Paradiso nel suo dipinto, né alla Commedia dantesca. Beatrice è una giovane e splendida donna, consapevole di essere nel pieno della sua bellezza. Con eleganza, caratteristica della sua pittura, ce la mostra con la mano sinistra appoggiata a una superficie, un davanzale, quasi una soglia come se ci aspettasse, attendesse proprio noi per poterci accostare al meraviglioso e drammatico mistero che aveva incatenato il cuore del poeta. Nella mano destra trattiene infatti i lunghi gambi di alcuni gigli: simbolo perpetuo di purezza, candore, verginità, emblemi della sua città, di Firenze certo, ma spesso associati anche alla Vergine nel momento dell’Annunciazione. Eppure qui, nel dipingerli, Sonrel non li pensa bianchi, il colore della tradizione, né rossi ma dai delicati e intensi toni d’arancio. Più della rosa, potè allora il giglio a indicare la passione amorosa. E il desiderio. Quello di Dante che solo per averla incontrata, amata nel suo cuore e poi perduta aveva dato avvio alla storia, a ogni storia e ora, nel tornare a rimirarla, trema, lasciando che il suo sguardo ancora una volta si perda nello «splendor de li occhi suoi ridenti/ mia mente unita in più cose divise.»
Il canto, integrale
Canto X, nel quale santo Tommaso d’Aquino de l’ordine de’ Frati Predicatori parla nel cielo del Sole; e qui comincia la quarta parte.
Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore
quanto per mente e per loco si gira
con tant’ ordine fé, ch’esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira.
Leva dunque, lettore, a l’alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
dove l’un moto e l’altro si percuote;
e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
di quel maestro che dentro a sé l’ama,
tanto che mai da lei l’occhio non parte.
Vedi come da indi si dirama
l’oblico cerchio che i pianeti porta,
per sodisfare al mondo che li chiama.
Che se la strada lor non fosse torta,
molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
e quasi ogne potenza qua giù morta;
e se dal dritto più o men lontano
fosse ’l partire, assai sarebbe manco
e giù e sù de l’ordine mondano.
Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond’ io son fatto scriba.
Lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo ne misura,
con quella parte che sù si rammenta
congiunto, si girava per le spire
in che più tosto ognora s’appresenta;
e io era con lui; ma del salire
non m’accors’ io, se non com’ uom s’accorge,
anzi ’l primo pensier, del suo venire.
È Bëatrice quella che sì scorge
di bene in meglio, sì subitamente
che l’atto suo per tempo non si sporge.
Quant’ esser convenia da sé lucente
quel ch’era dentro al sol dov’ io entra’mi,
non per color, ma per lume parvente!
Perch’ io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
sì nol direi che mai s’imaginasse;
ma creder puossi e di veder si brami.
E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse.
Tal era quivi la quarta famiglia
de l’alto Padre, che sempre la sazia,
mostrando come spira e come figlia.
E Bëatrice cominciò: «Ringrazia,
ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo
sensibil t’ha levato per sua grazia».
Cor di mortal non fu mai sì digesto
a divozione e a rendersi a Dio
con tutto ’l suo gradir cotanto presto,
come a quelle parole mi fec’ io;
e sì tutto ’l mio amore in lui si mise,
che Bëatrice eclissò ne l’oblio.
Non le dispiacque; ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia mente unita in più cose divise.
Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti:
così cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.
Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
tanto che non si posson trar del regno;
e ’l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s’impenna sì che là sù voli,
dal muto aspetti quindi le novelle.
Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
come stelle vicine a’ fermi poli,
donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.
E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
lo raggio de la grazia, onde s’accende
verace amore e che poi cresce amando,
multiplicato in te tanto resplende,
che ti conduce su per quella scala
u’ sanza risalir nessun discende;
qual ti negasse il vin de la sua fiala
per la tua sete, in libertà non fora
se non com’ acqua ch’al mar non si cala.
Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
la bella donna ch’al ciel t’avvalora.
Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u’ ben s’impingua se non si vaneggia.
Questi che m’è a destra più vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.
Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo,
di retro al mio parlar ten vien col viso
girando su per lo beato serto.
Quell’ altro fiammeggiare esce del riso
di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
aiutò sì che piace in paradiso.
L’altro ch’appresso addorna il nostro coro,
quel Pietro fu che con la poverella
offerse a Santa Chiesa suo tesoro.
La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
spira di tale amor, che tutto ’l mondo
là giù ne gola di saper novella:
entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
saver fu messo, che, se ’l vero è vero,
a veder tanto non surse il secondo.
Appresso vedi il lume di quel cero
che giù in carne più a dentro vide
l’angelica natura e ’l ministero.
Ne l’altra piccioletta luce ride
quello avvocato de’ tempi cristiani
del cui latino Augustin si provide.
Or se tu l’occhio de la mente trani
di luce in luce dietro a le mie lode,
già de l’ottava con sete rimani.
Per vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.
Lo corpo ond’ ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace.
Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,
che a considerar fu più che viro.
Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidïosi veri».
Indi, come orologio che ne chiami
ne l’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che ’l ben disposto spirto d’amor turge;
così vid’ ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
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