Oggi su L’indiscreto commentiamo il canto VII del paradiso dantesco. Questo articolo fa parte del nostro “CCC”, cioè il progetto di Commento Collettivo alla Commedia de L’indiscreto curato da Edoardo Rialti.
IN COPERTINA un’opera di annibale carracci
di Valeria Russo
Con il contributo di
«Ficca mo l’occhio per entro l’abisso / de l’etterno consiglio» (vv. 94-95). È Beatrice che parla, ci parla: tu Dante, tu lettore, tu uomo, fissa bene lo sguardo nell’insondabile intelletto divino. E stammi bene a sentire. Il peccato originale, quella questione che ti tormenta da sempre, da quando hai sviluppato la capacità di discernere tra bene e male, tra giusto e sbagliato, proprio quella, la più difficile. Eccoti svelata la risposta. Beatrice spiega e noi, come Dante, come sempre, pendiamo dalle sue labbra in attesa di scoprire un’altra verità, di cogliere l’ennesimo enigma sulla storia, sulla Bibbia, sulla morte, sulla vita, su di noi.
I canti della Commedia sono intrecciati tra loro, incatenati l’uno all’altro, incastonati in una sequenza poetica perfetta, costruita a specchio dell’amore divino e da questo infusa. Così è il VII del Paradiso, arteria didattica del canto precedente, quello “di Giustiniano”. Eppure, a leggerlo, pare un’opera a sé, prova somma dell’edotta magnanimità di Beatrice, testimonianza della sua sacra bellezza intellettuale, sfoggiata a ritmo serrato per rispondere alle tre domande che Dante neanche pone.
Dante, infatti, occhi bassi per l’imbarazzo, mortificato ancor prima di aprire bocca dalla saggezza della sua dama e domina, tiene il capo chino – come un uomo in preda al sonno – al solo suono del suo nome, anzi, dalle sue sillabe: pur per ‘Be’ e per ‘ice’, / mi richinava come l’uom ch’assonna (vv. 14-15). Una voce dentro di lui insiste (“Dille, dille”, v. 10). Sembra gridare “Forza, chiedile di svelarti la verità che ancora non capisci”. E sentiamo qui la voce di un altro Dante, oltre al poeta, oltre al personaggio: è il Dante interiore. Lei, a guardarlo, accenna un sorriso che avrebbe regalato gioia anche a un uomo in mezzo alle fiamme (un riso / tal, che nel foco faria l’uom felice, vv. 17-18).
Lui è intimidito come un bambino, lei mindreader celeste e immobile: in questo rapporto molto sbilanciato, a Beatrice non serve che lui parli. Sfamerà la commovente, ingenua e timida curiosità di Dante con agili spiegazioni su questioni estremamente complesse.
E, in effetti, pare che Dante voglia capire come giusta vendetta giustamente / punita fosse (vv. 20-21). Si parlava, nel canto precedente (vv. 82-93), del peccato originale, e a questo tema si dedica ora Beatrice. L’antico e intrinseco delitto che macchia la carne umana fu giustamente punito con la crocifissione di Cristo, che in tale carne corrotta e colpevole si è reincarnato. Tuttavia, perché il sacrificio espiatorio si compiesse, gli uomini dovettero macchiarsi di una nuova colpa, quella di uccidere quel corpo umano in cui si era incarnato il divino. Deicida provvidenziale, l’uomo pecca ancora e per questo è giustamente punito. Si spiegano, così, tanto la brutale morte di Cristo, quanto la tragica distruzione di Gerusalemme.
-->È terribile, ma è l’inesorabile disegno della Provvidenza, che si regge su questo naturale e severo moto circolare. Procede incessante da un polo all’altro: giunge al perdono attraversando la vendetta, realizza la vendetta perché si ottenga il perdono. E se nel VI del Paradiso Dante ci raffigurava l’immagine di Giustiniano attingendo dal mosaico di Ravenna, la memoria interna del poeta ci porta ora alla Cappella degli Scrovegni, dove Pilato – esecutore dell’insondabile volontà divina – non si lava le mani, ma ne mostra una, aperta e protesa a mostrare la folla che schernisce e flagella il Figlio dell’Uomo, come a dire “È tutto deciso, e si sta già compiendo”.
Come il perdono e la vendetta, vi è un’altra dicotomia a reggere l’equilibrio della storia umana: il giusto e l’ingiusto. La natura dell’uomo, all’origine, era sincera e buona (v. 36), ma Adamo, potendo scegliere, scelse di deviare il percorso suo e della sua prole, che fu quindi per sé stessa corrotta, o meglio sbandita / di paradiso (vv. 37-38). E non ci fu mai pena tanto giusta, cioè all’altezza di tale peccato, quanto ingiusta, perché compiuta ai danni del Figlio di Dio (“nulla già mai sì giustamente morse; / e così nulla fu di tanta ingiura”, vv. 42-43).
Sembra che all’errore primigenio, impresso nel nostro corredo genetico, si sia affiancato il trauma consapevole della sua espiazione. Ferito nel corpo, colpito nella memoria, Dante, o l’umanità intera, si chiede (sempre a testa bassa) perché Dio abbia voluto liberarci in maniera così violenta dal nostro peccato (“perché Dio volesse, m’è occulto, / a nostra redenzion pur questo modo”, vv. 56-57). E Beatrice torna a spiegarsi con dualismi: l’uomo poteva riparare al suo peccato da solo, ma è troppo superbo per umiliarsi. Era quindi necessario l’intervento diretto di Dio, che poteva aiutarlo in un modo (perdonandolo per pietà), o in un altro (punendolo per giustizia). Dio scelse entrambi: “Dunque a Dio convenia con le vie sue / riparar l’omo a sua intera vita, / dico con l’una, o ver con amendue” (vv. 103-105).
Ma parlando tanto di carne, di peccato, di dolore – quello estremo ed eterno di Dio incarnato e crocifisso –, casca sotto agli occhi l’immagine della nostra morte, il ricordo della nostra fine, la prova della corruttibilità dei nostri corpi. Ennesimo dubbio di Dante, ultima decifrazione di Beatrice: come facciamo a reincarnarci nel corpo e nello spirito?
È facile, mio Dante, mio discepolo, mio lettore. Il nostro corpo e la nostra anima, creati insieme dalla bontà divina, sono la materia prima della creazione, quella che promana direttamente da Dio e che, in virtù di tale diretta discendenza, è pura e incorruttibile… “E quinci puoi argomentare ancora / vostra resurrezion, se tu ripensi / come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi” (vv. 145-148).
La natura si altera, il fuoco si spegne, il frutto marcisce, l’aria si intorbida, l’acqua si sporca, ma al corpo cristiano è garantita l’eternità. Ecco che le parole di Dante, da discorso scolastico, si schiudono, spalancano le porte al romanzo umano contenuto nella Commedia, raccontando la storia dell’uomo eletto, dell’elezione dell’uomo, che si ricongiungerà, malgré tout, al divino, che proverà di nuovo piacere dopo la morte, quello più intenso, quello più puro, quello totale della danza divina.
Il canto, integrale
Canto VII, nel quale Beatrice mostra come la vendetta fatta per Tito de la morte di Gesù Cristo nostro Salvatore fue giusta, essendo la morte di Gesù Cristo giusta per ricomperamento de l’umana generazione e solvimento del peccato del primo padre.
«Osanna, sanctus Deus sabaòth,
superillustrans claritate tua
felices ignes horum malacòth!».
Così, volgendosi a la nota sua,
fu viso a me cantare essa sustanza,
sopra la qual doppio lume s’addua;
ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitava e dicea ’Dille, dille!’
fra me, ’dille’ dicea, ’a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.
Ma quella reverenza che s’indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice
e cominciò, raggiandomi d’un riso
tal, che nel foco faria l’uom felice:
«Secondo mio infallibile avviso,
come giusta vendetta giustamente
punita fosse, t’ha in pensier miso;
ma io ti solverò tosto la mente;
e tu ascolta, ché le mie parole
di gran sentenza ti faran presente.
Per non soffrire a la virtù che vole
freno a suo prode, quell’ uom che non nacque,
dannando sé, dannò tutta sua prole;
onde l’umana specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
fin ch’al Verbo di Dio discender piacque
u’ la natura, che dal suo fattore
s’era allungata, unì a sé in persona
con l’atto sol del suo etterno amore.
Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:
questa natura al suo fattore unita,
qual fu creata, fu sincera e buona;
ma per sé stessa pur fu ella sbandita
di paradiso, però che si torse
da via di verità e da sua vita.
La pena dunque che la croce porse
s’a la natura assunta si misura,
nulla già mai sì giustamente morse;
e così nulla fu di tanta ingiura,
guardando a la persona che sofferse,
in che era contratta tal natura.
Però d’un atto uscir cose diverse:
ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte;
per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse.
Non ti dee oramai parer più forte,
quando si dice che giusta vendetta
poscia vengiata fu da giusta corte.
Ma io veggi’ or la tua mente ristretta
di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
del qual con gran disio solver s’aspetta.
Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
ma perché Dio volesse, m’è occulto,
a nostra redenzion pur questo modo”.
Questo decreto, frate, sta sepulto
a li occhi di ciascuno il cui ingegno
ne la fiamma d’amor non è adulto.
Veramente, però ch’a questo segno
molto si mira e poco si discerne,
dirò perché tal modo fu più degno.
La divina bontà, che da sé sperne
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
sì che dispiega le bellezze etterne.
Ciò che da lei sanza mezzo distilla
non ha poi fine, perché non si move
la sua imprenta quand’ ella sigilla.
Ciò che da essa sanza mezzo piove
libero è tutto, perché non soggiace
a la virtute de le cose nove.
Più l’è conforme, e però più le piace;
ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,
ne la più somigliante è più vivace.
Di tutte queste dote s’avvantaggia
l’umana creatura, e s’una manca,
di sua nobilità convien che caggia.
Solo il peccato è quel che la disfranca
e falla dissimìle al sommo bene,
per che del lume suo poco s’imbianca;
e in sua dignità mai non rivene,
se non rïempie, dove colpa vòta,
contra mal dilettar con giuste pene.
Vostra natura, quando peccò tota
nel seme suo, da queste dignitadi,
come di paradiso, fu remota;
né ricovrar potiensi, se tu badi
ben sottilmente, per alcuna via,
sanza passar per un di questi guadi:
o che Dio solo per sua cortesia
dimesso avesse, o che l’uom per sé isso
avesse sodisfatto a sua follia.
Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
de l’etterno consiglio, quanto puoi
al mio parlar distrettamente fisso.
Non potea l’uomo ne’ termini suoi
mai sodisfar, per non potere ir giuso
con umiltate obedïendo poi,
quanto disobediendo intese ir suso;
e questa è la cagion per che l’uom fue
da poter sodisfar per sé dischiuso.
Dunque a Dio convenia con le vie sue
riparar l’omo a sua intera vita,
dico con l’una, o ver con amendue.
Ma perché l’ovra tanto è più gradita
da l’operante, quanto più appresenta
de la bontà del core ond’ ell’ è uscita,
la divina bontà che ’l mondo imprenta,
di proceder per tutte le sue vie,
a rilevarvi suso, fu contenta.
Né tra l’ultima notte e ’l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
o per l’una o per l’altra, fu o fie:
ché più largo fu Dio a dar sé stesso
per far l’uom sufficiente a rilevarsi,
che s’elli avesse sol da sé dimesso;
e tutti li altri modi erano scarsi
a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio
non fosse umilïato ad incarnarsi.
Or per empierti bene ogne disio,
ritorno a dichiararti in alcun loco,
perché tu veggi lì così com’ io.
Tu dici: “Io veggio l’acqua, io veggio il foco,
l’aere e la terra e tutte lor misture
venire a corruzione, e durar poco;
e queste cose pur furon creature;
per che, se ciò ch’è detto è stato vero,
esser dovrien da corruzion sicure”.
Li angeli, frate, e ’l paese sincero
nel qual tu se’, dir si posson creati,
sì come sono, in loro essere intero;
ma li alimenti che tu hai nomati
e quelle cose che di lor si fanno
da creata virtù sono informati.
Creata fu la materia ch’elli hanno;
creata fu la virtù informante
in queste stelle che ’ntorno a lor vanno.
L’anima d’ogne bruto e de le piante
di complession potenzïata tira
lo raggio e ’l moto de le luci sante;
ma vostra vita sanza mezzo spira
la somma beninanza, e la innamora
di sé sì che poi sempre la disira.
E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l’umana carne fessi allora
che li primi parenti intrambo fensi».
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
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