E se la mostruosità e la stranezza ci appartenessero più di quanto immaginiamo? La contemporaneità sembra mostrare un’attenzione sempre maggiore verso la “diversità” dei singoli, e lo si nota anche nelle arti.
IN COPERTINA un’opera di Leonora Carrington “Emelia Snood Wins the Egg Competition”
Di Greta Plaitano
La letteratura non è sempre stata un piacere, e spesso, molti romanzi e racconti che da adulta avrei scoperto essere straordinari, negli anni tra la pubertà e l’adolescenza sono stati un obbligo: parte inconsapevole di quella lista nera dei ‘libri delle vacanze’, stilata da svogliate docenti di italiano e distribuita in aula prima del suono dell’ultima campanella. Così, Il visconte dimezzato e Le città invisibili hanno imbrattato le mie estati e quelle di molti altri ragazzini, costretti a sfogliare sotto l’ombrellone edizioni da poco – contraddistinte da quella carta sottile che si unge velocemente – senza capire quasi nulla di quelle storie e perdendo le occhiate furtive e il vento salmastro delle ore pomeridiane passate su una qualsiasi spiaggia italiana.
Per questo motivo ho riscoperto Calvino soltanto di recente e, in particolare, attraverso una parte della sua produzione letteraria meno in voga: quella giornalistica. Per osservarne i punti più alti si può leggere Collezione di Sabbia, pubblicato per la prima volta nella collana dei Saggi blu di Garzanti nel 1984, ora disponibile negli Oscar Mondadori. Questo volume, che raccoglie diversi articoli scritti da Calvino nei suoi anni parigini principalmente per la Repubblica e Il Corriere della Sera, oltre a una serie di riflessioni redatte durante i suoi viaggi in Messico, Iran e Giappone, offre uno spaccato interessante degli stimoli che lo scrittore ebbe sotto gli occhi nella capitale francese. Attingendo liberamente dal mondo letterario e artistico, nelle visite alle esposizioni di alcuni dei musei più importanti della città come il Louvre, il Centre Georges Pompidou e il Grand Palais, Calvino guida il lettore all’interno degli avvenimenti che segnano profondamente la sua immaginazione, tramite il racconto non solo delle celebrazioni di una vita culturale più libera e coraggiosa, ma anche di eventi che sembrano dettare in maniera perentoria la fine di un’epoca. Tra questi colpisce la visita alla salma di Roland Barthes – investito brutalmente a pochi passi dal Collège de France il 25 febbraio del 1980 – con la descrizione del cercle amoureux di intellettuali e studiosi creatosi attorno alla sua morte, un gruppo di giovani e meno giovani “geloso e possessivo di un dolore che non tollerava altra manifestazione che il silenzio”, dove spicca “il cranio calvo di Foucault”, insieme a quella, sempre nello stesso anno, di un originale museo del bizarre che oggi non esiste più, il cosiddetto ‘Museo dei mostri di cera’:

“In una vetrina sulla strada, una giovane donna è coricata supina in una fluente veste bianca guernita di merletti, il viso addormentato dai delicati lineamenti d’un giallo mortuario, il seno castamente coperto che si solleva e palpita in un respiro regolare. Poco più in là un manifesto rappresenta, fotografati a colori, due fratelli siamesi, o per meglio dire un ragazzo unico che al di sopra dello stomaco si sdoppia in due ragazzi identici. Intorno, una facciata di tela dipinta di rosso con fregi dorati e la scritta: ‘Grand Musée anatomique-ethnologique du Dr. P. Spitzner’”. Il luogo insieme inquietante e intriso di fascino al quale Calvino dedica queste brevi pagine è uno di quei paradisi della mostruosità che nel mondo contemporaneo restano appannaggio degli appassionati di misteri e stramberie, racchiusi nei siti periferici come i musei di antropologia, anatomia e strumenti scientifici, fra i quali soltanto due in Italia risuonano nella mente del grande pubblico: la Specola di Firenze, per la sua spettacolare venere anatomica di cera e capelli veri (nuda, ma con collier di perle!) e il Museo Lombroso, figlio dell’attività del celebre e poliedrico studioso che collezionava fotografie e disegni dei casi psichiatrici che aveva in cura nella sua scuola.

Eppure, il Museo del dottor Spitzner, come rivela Calvino, rappresentava un’istituzione che, lontano dall’essere un fenomeno di nicchia ignoto alla società altolocata e perbene, era capace di raccontare a tutte le classi sociali da oltre un secolo il gusto umano per le devianze e diversità della specie, fonte allo stesso tempo di paura e di desiderio. Questa galleria di mostri, un mélange di materiali rubati al nascente mondo dell’antropologia e degli studi etnografici, ma anche alle raccolte di documentazione medica e anatomica, venne aperta nel 1856 da un enigmatico personaggio sul quale si hanno ancora poche informazioni, Pierre Spitzner. Nonostante si facesse chiamare ‘Dottore’ per pubblicizzare e rendere più ‘scientifica’ e verosimile agli occhi del pubblico la propria raccolta di mirabilia umane, Spitzner era in realtà soltanto un bravo imprenditore e un collezionista con l’occhio lungo. Una volta appropriatosi di diversi pezzi unici da esporre, come preparati anatomici di mani e piedi umani, scheletri, modelli di ceroplastica di altissimo livello, calchi in gesso, fotografie e sculture dei cosiddetti ‘selvaggi’ che abitavano i continenti extraeuropei – svendute dai privati che avevano ereditato alcuni pezzi del chirurgo Guillaume Dupuytren e dell’anatomista tedesco Paul Zeiller – l’impresario aveva costruito un vero museo di curiosità e patologie non per un’élite colta, ma per il grande pubblico. Facendosi liberamente ispirare da fiere, circhi, baracconi e dai loro freaks shows itineranti fatti di uomini pelosi come cani, nani e giganti, gemelli siamesi, seduttive cartomanti e pezzi di mostri sotto spirito, Spitzner ospitava nel suo pavillon de la Ruche (oggi piazza della République) un’immensa Wunderkammer di umanità considerate fuori dalla norma, acclamata dai visitatori francesi e stranieri che passavano di lì, ma anche dagli abitanti di altre cittadine europee, dove egli porta in tour la propria controversa creazione a seguito di un misterioso incendio che aveva rischiato di distruggere la sua redditizia attività, approdando infine in Belgio.
Lì l’imprenditore incrementò ancora la propria collezione con l’aiuto del pittore Jules de Smet, attraverso alcuni cartoni illustrati tesi a nobilitare la scientificità della sua impresa: il fondatore della microbiologia Pasteur intento ad amministrare il primo vaccino contro la rabbia a un cucciolo di elefante e Charcot ritratto mentre manipola una ragazza isterica su un letto di ospedale. Ma anche, per attirare più spettatori possibile, la grande ‘Venere a riposo’ di cui parla Calvino, una statua di cera finemente dipinta e dotata di un complesso meccanismo che le consentiva di simulare il respiro umano, mostrando un petto che si alzava e abbassava come se fosse, oltre che sensuale e inerme, viva e vegeta. Accanto a questo raro esempio di bellezza, vi erano anche diverse veneri anatomiche ‘aperte’, smontabili e rimontabili, di cui Didi-Huberman nel suo Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà descrive la forma perturbante in quanto oggetto di una conoscenza dal sapore perverso e feticista: “L’importante è profanare quel volto, la sua bellezza. Profanarlo in primo luogo mettendo a nudo le parti segrete […]. Maggiore è la bellezza, più profonda è la sua profanazione”. E altri moltissimi reperti, come teste ghigliottinate, immagini di uomini con tre gambe e due peni, una pelle umana intera, e ogni tipo di visioni orripilanti di quelle ‘malattie colpevoli’, come quelle veneree, tumori e ulcere, capaci di sopprimere all’istante ogni desiderio di libertà incondizionata nello spettatore e di guidarlo verso una vita tranquilla, lontana dai pericoli della perdizione. Per Calvino l’invenzione di Spitzner “sembrava invitare a fissare gli occhi su ciò da cui siamo di solito inclini a distoglierli: le alterazioni possibili della nostra carne, la fisionomia nascosta delle nostre viscere”, ma anche dallo strazio che sentiamo di fronte alla visione del frutto dei nostri stessi errori, delle nostre atrocità.

Di queste ne parla anche un altro libro, Nitghmare Alley, tradotto in Italia soltanto allo scadere del 2021 da Tommaso Pincio per Sellerio, ma uscito in realtà nel lontano 1946. Scritto da William Lindsay Gresham, un eclettico tuttofare appassionato di scrittura, illusionismo, carte da gioco e luna park di Coney Island, il romanzo assorbe tutto il fascino decadente dettato dall’Europa per mostri e stramberie, ma lo trasmuta in un’America controversa, povera e insieme ricca di speranze. In questi non luoghi desolati si aggira il giovane Stan, orfano e figlio acquisito di una carovana di cartomanti e mostri, dove tra menzogne e scaltrezza impara il mestiere più antico, quello della sopravvivenza: “Polvere quando c’era il sole. Fango quando pioveva. A forza di imprecare, ribollire, sudare, tramare, corrompere, sbraitare e imbrogliare, i baracconi procedevano per la loro strada. Arrivavano di notte come una colonna di fuoco, portando fermento e novità in cittadine sonnacchiose: luci, rumori, la possibilità di vincere una coperta indiana, un giro sulla ruota panoramica, la vista del selvaggio che accarezza i serpenti come una madre accarezza i suoi piccoli. Quindi svanivano nella notte e quale prova del loro passaggio lasciavano l’erba calpestata del campo, i resti delle scatole di pop-corn, le palette per il gelato arrugginite”. Nell’offerta di momenti di svago ai paesani ignoranti il protagonista, da ingenuo ragazzotto di provincia, scopre lentamente il potere oscuro di cosa significa saper manipolare il prossimo e le sue aspettative. Da piccoli trucchetti con le carte alla collaborazione con la sensitiva e accudente Zelda, sino al grandioso numero da sala con Molly – frutto di un ingegnoso linguaggio cifrato – Stan si anima a poco a poco di una brama moderna, che lo allontana dalla sua famiglia di freaks e scherzi della natura per spingerlo a cercare fortuna come mentalista per gli aristocratici newyorkesi. Abbandonando definitivamente la semplicità dell’incanto di contadini e operai, egli si addentra così in una selva di manipolazioni che si rivelerà più grande di lui, stringendo una promiscua collaborazione con un’avvenente psicologa. Nell’adattamento cinematografico diretto da Guillermo del Toro uscito sempre nel 2021 (ora disponibile su Disney plus), quest’ultima, interpretata dall’algida Cate Blanchett, lo spingerà a rendersi conto della bassezza delle proprie ambizioni, rivelandogli la natura dei suoi veri traumi e della sua crudeltà.
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Allo stesso modo, in questo tempo di guerra in cui la ferocia e il disincanto si affacciano continuamente sul nostro mondo, un’altra recente pellicola riprende il fascino di un’atmosfera che si muove tra il mistero scientifico e lo scenario losco dei baracconi itineranti: l’ultimo film di Gabriele Mainetti, Freaks Out. Definito un colossal per l’enorme produzione alle spalle, questo film – che doveva uscire nel 2019 ma per ovvie ragioni è approdato in sala soltanto nel 2021 (ora su Sky) – vede come protagonisti quattro personaggi a loro modo mostruosi. Un uomo-bestia, interamente ricoperto di peli, un giovane ragazzo in grado di pilotare i movimenti degli insetti, un nano capace di attrarre a se i metalli come una calamita e una ragazza elettrica, Matilde. Nonostante la vittoria al 78° festival di Venezia del leoncino d’oro, il secondo film del regista è stato definito da gran parte della critica come un assemblage confusionario di troppi generi, un po’ western tarantiniano, un po’ fantasy, un po’ film di supereroi. Ma in realtà è lo scenario di fondo a destabilizzare sopra ogni altra cosa lo spettatore, ovvero la Seconda guerra mondiale e l’ascesa del nazismo. In una Roma massacrata dalle bombe e pattugliata da spregevoli soldati assetati di morte, i quattro freaks cercano una via di fuga, sapendo di avere meno possibilità di tutti gli altri ‘normali’. Alcuni fra loro vedono una speranza in quella che può diventare la loro nuova casa, il grande Berlin Zircus, approdato nella capitale italiana con la scusa di divertire gli alti gradi dell’esercito tedesco. Ma dietro questo specchietto per le allodole, del quale solo Matilde riconosce il tranello, il film trascina i fenomeni da baraccone nella camera della follia visionaria di Franz, un pianista con sei dita che sogna soltanto di essere un bravo nazista come suo padre e suo fratello. In questa folle frustrazione, sadica e meschina, di un ego maschile evidentemente depauperato della forza guerriera che sente di dover dimostrare, la venere elettrica Matilde riuscirà a trovare una breccia, usando quelle qualità che per tutto il film rigetta con rabbia, definendosi un mostro senza un posto nel mondo. Mainetti, che nelle interviste ammette di aver scritto un film sull’identità e sul desiderio di farsi accettare che ci rende fragili e succubi, sembra a questo punto aver scritto non tanto un’opera caotica che riprende troppi generi cinematografici, ma una grande storia epica in cui i suoi personaggi vivono a pieno la complessità dell’essere umani, normali e mostruosi allo stesso tempo. Le peripezie dei freaks, in fondo, ci permettono di osservare lo scontro continuo tra le pulsioni di orrore e incanto verso il diverso, presente in tutte le fiabe e saghe di fumetti, insieme al confine sottile tra la banale realtà alla quale ci aggrappiamo e la mostruosità senza fine della quale solo l’uomo è capace. Una storia che ancora oggi ci appartiene e che può invitarci a riflettere sulla radice dei nostri mostri. Mostri che, come ricorda Lesli Fiedler in Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, non vanno cercati nei cabinet della scienza e nelle collezioni di antropologia, ma in quella spaventosa psicologia del profondo “che si occupa della nostra fondamentale incertezza sui limiti del nostro corpo e del nostro ego”.
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